Programma Einstein on the Beach – Sala Santa Cecilia (Auditorium)
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Prima Nazionale / In corealizzazione con Fondazione Musica per Roma

Philip Glass / Ictus Ensemble / Collegium Vocale Gent / Suzanne Vega
Einstein On The Beach
Concert Version

 

Il gran finale della trentasettesima edizione del Romaeuropa Festival rappresenta la rara opportunità di scoprire uno dei massimi capolavori del XX secolo: Einstein on the Beach, il grande classico della seconda metà del Novecento scritto da Philip Glass. L’opera viene presentata nella sua versione musicale interpretata integralmente da musicisti dell’ensemble belga Ictus, accompagnati dal coro barocco Collegium Vocale Gent e dall’acclamata Suzanne Vega nel ruolo di narratrice. Una versione eseguita in esclusiva italiana al REF2022 nell’ambito del tour che ha portato l’ensemble fiammingo nelle più importanti istituzioni musicali europee.

200 minuti di musica che rappresentano una vera e propria sfida fisica e mentale per i musicisti coinvolti, disegnando un tempo e uno spazio di condivisione con il pubblico, strutturato dal suono ma caratterizzato da una fruizione libera e personale.

Questa esecuzione di Einstein on the Beach cancella, infatti, il divario tra platea e palcoscenico: le porte del teatro saranno aperte per tutta la durata della performance musicale permettendo agli strumentisti di muoversi sul palco e al pubblico di entrare ed uscire liberamente dalla sala come nelle indicazioni originali degli autori.


All’età di 81 anni, il compositore Philip Glass (1937) gode oggi di un prestigio senza eguali. Il suo straordinario successo potrebbe farne dimenticare gli esordi, alla fine degli anni Sessanta, sulla scena artistica underground di New York.

Il percorso musicale di Philip Glass comincia in modo piuttosto tradizionale: studia alla Juilliard School di New York, dove sviluppa uno stile compositivo piuttosto ordinario e abbastanza accademico. Come tanti compositori americani, si reca poi a Parigi per studiare con Nadia Boulanger, all’epoca la “grande dame” dell’insegnamento della composizione, che spinse diverse generazioni di compositori americani nella direzione dello stile neoclassico di Stravinsky. Tuttavia, a Parigi, è principalmente l’incontro con il virtuoso del sitar Ravi Shankar che segna Philip Glass. Shankar è in procinto di registrare la colonna sonora che ha composto per il film Chapaqqua di Conrad Rooks e Glass viene incaricato di trascriverla così che possa essere letta ed eseguita da interpreti occidentali.

Per Glass, il confronto con i principi formali della musica indiana è uno shock di enorme portata. Questa musica consiste essenzialmente di lunghe melodie modali sostenute da una base armonica semplice e statica, ma da una struttura ritmica molto raffinata. Si può dire che questo sistema ritmico sia “addizionante”: i pattern musicali sono composti da gruppi disuguali di due, tre o quattro battute brevi, e questi pattern musicali sono combinati a loro volta per creare gruppi di ritmi irregolari su scala più ampia. Questi principi sarebbero rapidamente diventati l’elemento chiave del revival stilistico della musica di Glass.

Di ritorno a New York, Glass si ritrova immerso in un nuovo clima artistico, dove i termini sobrietà, concentrazione, riduzione, circolano come nuove parole d’ordine. Si tratta della svolta della “musica minimalista”. Compositori come LaMonte Young, Terry Riley e Steve Reich avevano già scritto dei lavori pionieristici basati su materiale estremamente ridotto, motivi asciugati all’essenziale o note costrette all’interno di una struttura ripetitiva di lunga durata. Glass inizia a sviluppare le sue nuove strutture aggiungendole a pezzi originali; per eseguirli forma un proprio ensemble.

Questi lavori erano piuttosto radicali: volume elevato, intensità, sistematismo, struttura rigida e senza compromessi. Il materiale musicale, molto limitato, si sviluppa “a vista” e in maniere limpida attraverso processi di trasformazione estremamente graduali.
A quei tempi non erano le sale da concerto classiche, bensì le gallerie d’arte, i musei, i “loft” di amici artisti ad accogliere queste nuove esperienze musicali.

Il legame con l’arte minimalista di Sol LeWitt, Richard Serra, Donald Judd e tanti altri artisti della stessa generazione prende una forma molto concreta: furono quei luoghi ad accogliere questi artisti visivi e ad ospitare i concerti della giovane musica minimalista. Essa venne assorbita dalla scena newyorkese che raccoglieva nello stesso fermento le arti plastiche, la danza e il teatro.

Sembrava quindi scritto nelle stelle che Philip Glass, immerso in questo melting-pot artistico, un giorno o l’altro avrebbe incrociato il regista Robert Wilson. Egli aveva già firmato alcuni spettacoli che avevano fatto la storia e si distinguevano per la loro estrema lunghezza e per il loro approccio fortemente stilizzato dove, nell’estensione della tradizione giapponese Nō,
il testo, il movimento e la musica confluivano in uno spettacolo totale, statico, dall’andatura rituale. Wilson e Glass cominciano nel 1974 a dare vita a un progetto che proponesse il ritratto di una personalità emblematica
del 20° secolo.

Ghandi e Hitler vengono presi in considerazione in un primo momento, poi la scelta cade rapidamente sulla figura di Albert Einstein. Il titolo originariamente previsto è Einstein on the Beach a Wall Street; né Glass né Wilson ricordano perché “Wall Street” alla fine è caduto nel dimenticatoio durante il processo creativo.

La prima di Einstein on the Beach al Festival di Avignone nel 1976 viene seguita da una trionfante tournée in tutta Europa. Poi il Metropolitan Opera invita Glass e Wilson a tenere due spettacoli a New York. Questa prima americana li lancia come le punte di diamante della nuova estetica minimalista negli Stati Uniti. Come tutti i lavori di Wilson di questo periodo, Einstein on the Beach è stata identificata come “opera”, la qual cosa registra l’inizio della carriera di Glass come “compositore d’opera”. Tuttavia, questo lavoro si discosta notevolmente dalla concezione tradizionale di opera: non prevede ruoli cantati o una trama lineare – il libretto è piuttosto composto da frammenti di testi firmati principalmente da Christopher Knowles, un giovane autistico che Wilson (che all’epoca lavorava ancora come assistente sociale) aveva in carico. A questo si sono aggiunti i testi di due collaboratori dello spettacolo, l’attore Samuel Johnson e la danzatrice-coreografa Lucinda Childs. Il coro intona per tutta la parte testuale, serie di numeri o nomi di note, consentendo all’ascoltatore di concentrare la propria attenzione sugli schemi ritmici e sul contenuto armonico della musica. Nella buca dell’orchestra si sistema il Philip Glass Ensemble: due organi elettrici, un trio che suona vari strumenti a fiato (sassofoni, clarinetto basso e flauti) e una cantante soprano. A questa formazione si aggiunge un violinista solista travestito da Einstein.

Dal punto di vista dei contenuti, l’opera fa vorticare libere associazioni attorno al personaggio di Einstein, che si traducono nella scelta dei tre principali temi visivi dell’opera: il treno (oggetto paradigmatico che illustra la teoria della relatività), l’aula giudiziaria/prigione (che evoca le implicazioni etiche di una teoria che ha portato indirettamente all’invenzione della bomba atomica – scena finale dell’opera che termina con un riferimento all’esplosione atomica) e un’astronave (che illustra il lato fantascientifico, se così possiamo dire, del pensiero di Einstein).

La teoria della relatività diventa interessante quando si parla di fenomeni come l’avvicinarsi alla velocità della luce. Wilson traduce questi tre temi in concetti scenici simili che, nell’ultimo atto, conservano soltanto una connessione visiva abbastanza tenue: Building è una variazione sul tema del treno, Bed deriva da Processo/Prigione. Tra queste grandi scene si svolgono cinque brevi e intimi intermezzi battezzati Knee Plays proprio perché svolgono, come l’articolazione del ginocchio, un ruolo di raccordo prima, tra e dopo gli atti. Una performance di solito durava poco meno di cinque ore, senza interruzioni. Con Einstein on the Beach, Glass e Wilson firmano dunque un nuovo tipo di opera: non narrativa, statica, basata su immagini e testi associativi e un dispiegamento quasi rituale in cui il minimo movimento è coreografato con precisione chirurgica.

La musica di Glass e il linguaggio teatrale di Wilson facevano a gara in quanto a radicalismo e si completavano meravigliosamente a vicenda. Come la regia di Wilson, la musica di Glass è spesso fulminea (e senza compromessi) in superficie, ma statica in profondità nei suoi schemi ripetuti e nella sua lenta evoluzione. In questa musica, i motivi originali, scelti meticolosamente, subiscono instancabilmente ogni sorta di trasformazione. Glass limita il suo materiale a una manciata di temi: in numero di tre, sono pensati sotto forma di semplici progressioni di accordi. Un tema di tre accordi apre l’opera, un tema di quattro accordi fa la sua apparizione nelle tre scene del Processo e un “tema cadenzale” di cinque accordi è onnipresente nella scena dell’astronave. Inoltre, Glass utilizza altri quattro temi ricorrenti, ciascuno sviluppato a partire da un unico accordo.

Glass elabora le diverse scene alternando questi blocchi tematici ricorrenti. La seconda scena, ad esempio, Treno 1, ne contiene tre (in forma ABCABC): il primo tema ad accordo singolo costruito su un poliritmo 3 contro 4, seguito da un passaggio interamente strumentale basato su un altro motivo ad accordo singolo in movimento contrario, e infine il tema “cadenzale”.

In Einstein, l’interesse di Glass per la tecnica del pattern ritmico addizionante serve da motore a tutta la partitura: un pattern è accresciuto da piccole aggiunte di gruppi irregolari di due, tre o quattro note. Ma allo stesso tempo, notiamo che, al di là dei processi ritmico-melodici che costituiscono il cuore del suo stile minimalista, egli presta sempre più attenzione alla struttura armonica. I pattern di accordi diventano un elemento importante e riconoscibile, in particolare il tema “cadenzale”. Quest’ultimo presenta una particolare raffinatezza armonica: è una cadenza che giunta a metà devia per concludere inaspettatamente in un semitono più basso rispetto all’inizio, che le conferisce una sensazione conclusiva (come in ogni cadenza musicale tradizionale) e allo stesso tempo un’impressione erratica. Nell’ascoltatore, questo processo può evocare una strana sensazione di estasi musicale, che ricorda l’essenza dello stile di Glass all’inizio della sua carriera. Questa musica, nonostante la sua superficie ipercinetica, emana una profonda impressione di staticità e ripetizione continua; dalla variazione ritmica permanente di piccoli pattern simili, questa ripetizione resta tuttavia in gran parte imprevedibile. Velocità fulminea e lentezza esasperante: ecco un’esperienza paradossale di tempo che, in un certo qual modo, aderisce alle idee di Albert Einstein.

Maarten Beirens
tradotto dall’olandese da J-L Plouvier / tradotto dal francese da Luca Delgado
Pubblicato per gentile concessione del Concertgebouw Brugge


 

ATTENZIONE

Einstein on the Beach si inscrive nella breve e ricca storia dell’anti-opera.
La disgiunzione testo-musica ne è la regola. I cori non cantano altro che il nome delle note secondo il sistema latino (do re mi fa sol…) o i numeri in inglese (uno due tre…). Il libretto stesso – sempre parlato, mai cantato – è stato scritto in corso d’opera dalla ballerina Lucinda Childs, dall’attore Samuel Johnson e, soprattutto, dal poeta autistico Christopher Knowles. Esso consiste di un insieme di testi poetici affidati a interpreti (qui, in questo caso specifico, alla sola Suzanne Vega) e suscettibili di diverse combinazioni. Parte di esso dovrà essere recitato a velocità elevata, senza favorire la comprensione, per le sole qualità musicali e strutturali del discorso. “È uno spettacolo codificato come la musica. Come una cantata o una fuga, procede per combinazioni di pensieri ripetuti e variazioni”, ha osservato Bob Wilson, co-autore e primo regista dell’opera. Coerentemente con questo spirito, le traduzioni dei testi dell’opera non saranno proiettate durante lo spettacolo, ma proposte per la lettura al pubblico attraverso questa brochure.

 


AL BORDO DELLA VERTIGINE
Intervista di Guillaume Kosmicki con Jean-Luc Plouvier

Originariamente pubblicata su Hemisphere Son il 04/03/2021 / ©hemisphereson.com

Einstein on the Beach si è affermata come un’opera chiave della musica contemporanea. È entrata rapidamente nel repertorio, è stata messa in scena più volte nel corso dei decenni nella versione diretta da Bob Wilson, e registrata tre volte (due dischi, uno del 1979 e l’altro del 1993 e un DVD registrato nel 2014 al Théâtre du Châtelet). Jean-Luc Plouvier, pianista e direttore artistico di Ictus, ce ne parla…

Cosa ha spinto Ictus ad affrontare un monumento di questo genere a più di quarant’anni dalla sua creazione?
Quando è uscito il primo disco di Einstein on the Beach, avevo 16 anni – questo basta per rispondere alla domanda?

Come ha scelto le collaborazioni per la sua versione? A prima vista non sembrano scontate: Suzanne Vega (cantante conosciuta soprattutto nell’ambito pop/folk) come interprete principale dei testi, il Collegium Vocale Gent (coro inizialmente specializzato in musica antica) e l’artista visiva Germaine Kruip (conosciuta più come tale che come regista).
È avvenuto tutto una sera dopo uno spettacolo al Kaaitheater di Bruxelles. Il direttore della venue, Guy Gypens – che aveva diretto anche Rosas e ci aveva sempre sostenuto –, il manager del Collegium Vocale Gent, Bert Schreurs ed io facemmo un patto: faremo Einstein on the Beach a tutti i costi! Avevamo compiuto 16 anni nello stesso periodo ovviamente!

Per quanto riguarda il Collegium… saresti sorpreso dallo scoprire cos’è un corista di questo ensemble oggi! Nessuno dei 14 cantanti che si sono offerti volontariamente per questa avventura è estraneo alla musica pop. La maggior parte di loro ha il proprio studio casalingo e giocherella proprio con il computer. È così che va il mondo…

Quanto a Suzanne Vega – l’idea è stata di Bert – risponde ai criteri di un vero temperamento letterario e di una dizione impeccabile. Ha anche un autentico accento newyorkese, molto morbido, con una stranezza familiare e senza enfasi – uno strumento di cui non volevamo fare a meno. Il tipo di modernismo qui impiegato trova la sua fonte di ispirazione in Gertrude Stein; si tratta di attraversare con eleganza un libretto estremamente curato, sminuzzato, basato sulle ripetizioni e le paratassi e polifonico nella sua trama: abbiamo affidato a Suzanne tutti i testi, tutte le voci. (…)

L’“installazione visiva” nasce da una ricerca più difficile da definire,
da un’utopia sempre all’opera. Si tratta indubbiamente di riconoscere una leggera falsità nella presentazione della musica contemporanea, soprattutto quando pretende di inserirsi con disinvoltura nei contesti dei concerti di musica classica – e qui non voglio prendere in giro nessuno ma sto inserendo anche Ictus nel sistema generale. Ne viene fuori una sorta di insincerità, un’impressione indefinibile di codardia artistica, come un aereo senza pilota. D’altra parte, accontentarsi di affiancare al concerto una videoproiezione – beh, questo è barare.

Abbiamo avuto qualche esperienza del vero concerto lungo; molto lungo. Si presenta come un flusso inarrestabile, dando origine a diversi tipi di ascolto, diversi spostamenti dell’attenzione e della distrazione dell’ascoltatore. Era interessante pensare di includere il vagabondaggio dell’ascolto nel dispositivo dell’ascolto stesso. (…)

La prima richiesta che abbiamo fatto a Germaine Kruip è stata proprio quella di sfumare un po’ questi bordi, di suggerire una cancellazione
dello spazio frontale e di renderlo circolare. Einstein, gira, non smette di girare.

L’altra richiesta, più decisiva, è stata quella di aiutarci, attraverso la scenografia (abbastanza semplice, ma bisognava trovare il modo), a fare dell’opera musicale stessa il tema centrale del teatro. Questo spettacolo è un chiedere scusa per il puro concerto! Si trattava di identificare chiaramente le vene, le diverse linee diagonali di forza catturate in questa macchina ripetitiva e poliritmica dove tutti si ascoltano sull’orlo della vertigine. Nessun direttore d’orchestra al centro, per esempio, ma un ritmista che dà il polso, e un altro in platea che ci aiuta a contare le innumerevoli ripetizioni ad incastro. Poi ci sono i musicisti al centro della scena che talvolta riposizionano le luci; altri che si alzano per dare un segnale al tecnico del suono o azionare un interruttore della luce, per voltare pagina a un solista, cose del genere. È quindi un progetto molto materialista, ispirato alla danza contemporanea – e in particolare ai nostri amici della compagnia Rosas – che vuole fare a meno del backstage per valorizzare tutti i gesti, quelli leggiadri e quelli utili, trattandoli con la stessa dignità.

La tua versione è molto singolare dal punto di vista musicale, ci sono addirittura alcune sequenze in cui è difficile riconoscere lo spartito, soprattutto per via dei suoni utilizzati dai due sintetizzatori. Ho sentito dei passaggi quasi techno, alcuni momenti in cui scivola in una dimensione esplicitamente pop. Mi hai detto che non era cambiato nulla nella partitura. Allora, cosa fa suonare questa composizione in maniera così differente dalle versioni originali?
Ogni partitura richiede un suo trattamento specifico… E ciò non riguarda solo ciò che ci dicono i rapporti tra le note, non solo le notazioni e le didascalie ma anche lo spirito che soffia nella sua grafica, nella sua presentazione e nei suoi spazi vuoti. Se devo sorprendervi, vi dirò questo: non esiste una partitura unica, finita e dettagliata di Einstein on the Beach. Ad esempio, non è possibile trovare da nessuna parte un sunto della nomenclatura (dei numeri), né il numero ideale dei coristi. Non sappiamo se i solisti siano da scegliere tra i coristi o se invece siano selezionati a parte, non si capisce perché servano tre flauti solo per pochi minuti di concerto e non vadano invece fino in fondo, né se serva un sax contralto o tenore e così via.

Si capisce che sono necessari due organi elettrici (organi 1 e organo 2 dice lo spartito) ma non c’è nessuna indicazione di registrazione né alcuna indicazione di tempo o dinamica.

In breve: la partitura assomiglia per certi versi a una partitura del 17° secolo, ben scritta a mano, il titolo dattiloscritto, tuttavia, lascia un indizio sulla sua epoca. I testi vengono consegnati separatamente in un piccolo opuscolo, ma il modo di collegare testo e musica è solo vagamente menzionato. È stato necessario quindi compiere un vero e proprio lavoro di ricostruzione basato sulle copertine dei dischi (due versioni), sui programmi di sala disponibili online, e ovviamente sull’ascolto delle registrazioni stesse. Anche la storia del processo creativo di quest’opera non è priva di importanza. La storia è raccontata per frammenti e la partitura che ho descritto porta l’impronta di questo processo: lavoro collettivo in subbuglio, prove e fallimenti, l’emergere di significato e forma attraverso il montaggio e il rimontaggio, un segno di rielaborazione scarabocchiato qua e là all’ultimo minuto per allineare le durate ai requisiti del palcoscenico, ecc. Tutto questo forse è un po’ un mistero per me. Può essere un po’ scoraggiante nella prima fase di lavoro, ma in seguito si trasforma in una sfida molto eccitante. Capisci che il lavoro collettivo deve continuare, insomma che resta aperto, e ti prometti che non ti accontenterai di una sorta di archeologia musicologica. Il lavoro ti distrae da questo approccio, è ancora vibrante con il suo potenziale da esplorare.

Quindi la sezione “pop” a cui fai riferimento, Building, è la più aperta dell’intera partitura. Formalmente ha valore di intermezzo.
Una complessa combinazione di arpeggi ritmici per i due organi, in diminuzione o in aumento (come al solito, oserei dire) sembra essere colorata da armonie di fiati e voci, a cui il compositore attribuisce laconicamente la modalità pentatonica da utilizzare. Sui due dischi disponibili, questa trama supporta anche un assolo di sassofono: piuttosto ‘libero’ nella versione del ‘79, e un terribile assolo ‘FM jazz’
nella versione del ‘93.

Ci è venuta quindi l’idea di pre-registrare le parti d’organo in MIDI nello spirito della musica dance (sequenziata, meccanica, velocissima, filtrante gli acuti, con un buon grande risuonatore nel basso), e affidare l’assolo al nostro flautista Michael Schmid. In quel periodo studiava le opere complete per flauto di Sciarrino. Gli ho fatto un demo mixando le sequenze di synth con Unity Capsule di Brian Ferneyhough affogata nell’eco, ha subito capito l’idea dell’improvvisazione da fare, era dentro. Non voglio accumulare aneddoti, ma sto cercando di trasmettere un po’ dello spirito che regnava durante il lavoro preparatorio. E lo ripeto: questo spirito non è altro che il vento che si alza quando si apre la partitura. Non ci ha guidati nessuna idea di profanazione, ma la fedeltà artistica implica anche, come sanno tutti gli interpreti, poter vivere momenti trasgressivi. Un membro del pubblico furioso mi ha fatto molte domande proprio su Building dopo una delle date. Si sentiva tradito; non mi credeva; non ammetteva che potesse esserci una frattura tra la scrittura e l’immagine sonora.

Ci vuole grande resistenza ed estrema concentrazione per interpretare questo lavoro, dal “période vache” di Philip Glass, come lo chiamate sul vostro sito. Tu stesso trascorri molto tempo alla tastiera sul palco. Come ci si avvicina a questa performance in qualità di interpreti? E come se ne esce?
Amo questo periodo di Glass, lo ammetto. Le piccole permutazioni su cinque note, gli imprevedibili ritmi additivi e sottrattivi, ad alta velocità, tutto questo è dato senza alcuna vergogna nella sua pura meccanicità, eppure trema, non smette di tremare, memoria e percezione sono costantemente sbalzate via. Sentiamo poi ulteriori voci, i famosi sottoprodotti psico-acustici della ripetizione teorizzati da Steve Reich.Questo tremore dell’oggetto semplice è il vero cuore del minimalismo.

Richiede uno stato molto particolare nell’esecutore, uno che sia allo stesso tempo inflessibile e gentile, uno che accoglie gli incidenti
(ce ne sono sempre alcuni) e li risolve come un sarto risolve uno strappo col filo nella mano. No, non è così estenuante da eseguire. Mi dispiace quando dopo tre ore e mezza si ferma, non ho voglia di andare al bar, vorrei il bis. La tensione interpretativa, quella che anima il plesso solare, non è qui diretta verso la forza, né verso il valore, ma verso una sorta di follia della moderazione. Non c’è nulla da aggiungere seguendo questa collana di decine di migliaia di perle, intrecciando i poliritmi come una lucertola, e andando così (andante anche quando va velocissimo) fino alla fine del tunnel.

Giorgio Agamben ha parole notevoli sul potere della moderazione.
Cita Dante: “Ch’a l’abito de l’arte ha man che trema”.
E aggiunge: “Chi manca di gusto non riesce ad astenersi da qualcosa, la mancanza di gusto è sempre un non poter non fare”.

Il tardo Philip Glass, l’ho perso. Secondo me, smette di scuotere.

©Paysages Humains / Hémisphère Son

 


Ictus
È un ensemble di musica contemporanea con sede a Bruxelles.
Dal 1994 condivide i locali della scuola di danza P.A.R.T.S, della compagnia Rosas (guidata da Anne Teresa De Keersmaeker) con la quale ha collaborato a ben quindici produzioni, tra cui Drumming in programma al Romaeuropa Festival (13-14 settembre). Ogni anno si esibisce a Bruxelles per un’intera stagione, in collaborazione con il Kaaitheater e Bozar sperimentando programmi dedicati ad un pubblico culturalmente consapevole ma non specializzato: appassionati di teatro, danza, performance e musica. L’ensemble sperimenta formati e modalità di ascolto: concerti molto brevi o molto lunghi, serie sperimentali, progetti su larga scala, concerti-festival in cui il pubblico è libero di vagare tra i palchi e si interroga incessantemente sul futuro della musica contemporanea.

Collegium Vocale Gent
Collegium Vocale Gent è stato fondato su iniziativa di Philippe Herreweghe nel 1970. È stato uno dei primi ensemble a estendere i nuovi principi interpretativi della musica barocca alla musica vocale. Questo approccio autentico, che mette al centro il testo e la retorica, è alla base di una trasparenza del linguaggio musicale. Ciò ha permesso a Collegium Vocale Gent d’ottenere in pochi anni un riconoscimento internazionale, di produrre alcune delle principali registrazioni del rinnovamento barocco e di essere invitato nelle sale da concerto e nei festival più prestigiosi di tutto il mondo.

Suzanne Vega
Suzanne Vega è una figura iconica del folk degli anni Ottanta. Accompagnata dalla sua sola chitarra e suonando le sue canzoni “contemporary folk” si è fatta conoscere nei club del Greenwich Village. Le sue esibizioni lontane dal pathos, erano intrise di delicate emozioni, segnate dallo stile distintivo della sua voce chiara e sussurrata, senza vibrato, dal suo tono grave, dal suo impeccabile accento newyorkese, dai suoi testi malinconici e disarmanti. In questa produzione, di fronte al pubblico, Vega recita tutti i testi e assume tutti i ruoli, come una narratrice dai mille volti

Crediti

ICTUS, COLLEGIUM VOCALE GENT, SUZANNE VEGA

Musica Philip Glass
Opera in quattro atti, basata su concept di Robert Wilson e Philip Glass
Testi Christopher Knowles, Samuel M. Johnson e Lucinda Childs
Narratrice Suzanne Vega
Direttore d’orchestra Tom De Cock
Assistente Direttore Michael Schmid
Direttrice del Coro Maria van Nieukerken
Scenografia Germaine Kruip
Assistente scenografo Maxime Fauconnier
Assistente alle luci Nicolas Marc
Costumi Anne-Catherine Kunz
Consulenza drammaturgica Maarten Beirens

 

COLLEGIUM VOCALE GENT
++ = solista

Soprani
Joowon Chung
Magdalena Podkościelna
Elisabeth Rapp++
Charlotte Schoeters

Contralti
Ursula Ebner
Karolina Hartman
Gudrun Köllner
Cécile Pilorger

Tenori
Tom Philips
Peter di Toro
Thomas Köll

Bassi
Philipp Kaven
Bart Vandewege
Martin Schicketanz

 

ICTUS

Violino
Igor Semenoff
Flauti
Michael Schmid
Chryssi Dimitriou
Tastiere
Jean-Luc Fafchamps
Jean-Luc Plouvier
Clarinetto basso, sax soprano
Dirk Descheemaeker
Sassofoni contralto e soprano
Nele Tiebout
Suono
Alexandre Fostier
Assistente al suono
Antoine Delagoutte
Produzione
Pieter Nys

PRODUZIONE
Ictus & Collegium Vocale Gent

COPRODUZIONE
Concertgebouw Brugge
Con il supporto del Tax Shelter del Governo Federale Belga (Tour 2022)
©Dunvagen Music Publishers Inc. Utilizzato su licenza.

 

MOVIMENTI
Knee play 1
Treno 1
Processo 1
Knee Play 2
Danza 1 (Campo con navicella spaziale)
Treno notturno
Knee Play 3
Processo 2/Prigione
Danza 2 (Campo con navicella spaziale)
Knee Play 4
Edificio
Letto
Navicella spaziale
Knee Play 5

Traduzione testi Luca Delgado

Con il patrocinio di Ambasciata del Belgio in Italia
Con il sostegno di Flanders – State of the Art