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17 Marzo 2021
Accogliere la lettera neutra
di Virginia W. Ricci

Quello che segue è il primo contenuto pubblicato all’interno di TAKEOVER uno spazio bianco che sarà settimanalmente invaso da differenti prospettive. Abbiamo sentito la necessità di andare fuori traccia per interrogarci sul nostro presente e sul modo in cui lo abitiamo. Abbiamo costruito uno spazio in cui posizionarci come uditori, recettori, diffusori di voci, parole, storie e narrazioni: #Takeover affida il “controllo” di questo spazio alla redazione di Siamomine e a scrittrici e scrittori, influencer, giornaliste e giornalisti, artiste e artisti che ascolteremo con curiosità per porci e porre nuovi punti interrogativi sui temi dell’antropocene, dell’identità, delle cittadinanze e del territorio.

La prima penna che
prende il controllo di questo spazio è quella di Virginia W. Ricci, un’autrice che seguiamo da tempo e di cui apprezziamo la scrittura pungente e mai banale. Ci introduce a riflessioni che riguardano la linguistica e le discriminazioni di genere, trasformazioni della società contemporanea sulle quali continuiamo ad interrogarci: in che modo “comunichiamo”? E da dove nasce l’urgenza di rendere più inclusiva la nostra lingua? Desideravamo confrontarci sulla ricezione di queste trasformazioni e sul loro utilizzo all’interno di un dialogo formale o quotidiano. Accogliere le basi di quello che verrà.

Buona Lettura!

Virginia W. Ricci è stata music editor di VICE Italia e direttrice di Noisey, ha collaborato con diverse realtà editoriali e lavorato per la televisione. Prima della pandemia era promoter e DJ, con particolare attenzione alle scene queer-avantgarde in cui si abbatte ogni barriera di genere, in tutti i sensi.

 

“La lingua è un atto di identità” è una frase con cui Vera Gheno è solita introdurre i suoi ragionamenti sul linguaggio. Ognuno di noi, mentre cerca di rispondere alla domanda “chi sono io?” è chiamato a trovare un modo per comunicarsi, per raccontarsi al mondo. L’identità non è un atto autoconclusivo, ma si afferma grazie a un sistema di validazione reciproca. Per stare nella società io devo relazionarmi. “Questo presuppone” continua Gheno “che io abbia le parole per definirmi.” Nel momento in cui qualcosa o qualcuno viene definito, viene visto.

Questa introduzione ci aiuta a definire la cornice cognitiva in cui ci stiamo muovendo — Vera Gheno è una delle più importanti sociolinguiste attive in Italia, questo significa che studia le relazioni tra linguaggio e società, i modi in cui l’uno influenza l’altra. Tra le figure che in Italia si sono occupate dei risvolti sociali della lingua, prima di Gheno, ci fu la linguista e attivista Alma Sabatini, femminista militante a cui dobbiamo il famoso testo Il sessismo nella lingua italiana, pubblicato nel 1987 su indicazione dell’allora Ministero delle Pari Opportunità. C’è una linea programmatica che collega queste due donne e non credo sia un caso: il femminile, inteso in opposizione al maschile universale, oltre alle ben note discriminazioni che porta con sé, ha un privilegio — il privilegio degli oppressi, per citare un ragionamento di Elisa Cuter: ha uno sguardo in grado di rilevare prima di altri le crepe del sistema perché ne sente le conseguenze da vicino. Il maschile universale, essendo in una posizione dominante e quindi conveniente, comoda, non è portato a mettersi in discussione — d’altronde se non hai sintomi pensi non ti serva avere un dottore — mentre l’impulso emancipatorio del femminile si dimostra, oltre che sintomo dell’obsolescenza del sistema patriarcale, motore per il suo superamento. 

 

Nella sua trattazione, Sabatini fa notare che “L’uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione del pensiero e nell’atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta.” La lingua è portatrice di coscienza, è la manifestazione di un sentire collettivo che può mutare a seconda di come scegliamo di usarla. 

 

Qualche tempo fa è uscito un articolo in cui la giornalista Titiou Lecoq raccontava di quando alle elementari la sua classe ha dovuto imparare la regola del maschile universale. Per imprimerla nella mente dei propri alunni, l’insegnante di Lecoq obbligò la classe a ripetere più volte “il maschile vince sempre sul femminile. Il maschile vince sempre sul femminile. Il maschile vince sempre sul femminile. Il maschile vince sempre sul femminile. Il maschile vince sempre sul femminile. Il maschile vince sempre sul femminile. Il maschile vince sempre sul femminile…” I maschi della classe interpretarono questo mantra come regola di vita e cominciarono a deridere le bambine in quanto più deboli. Questo è un esempio elementare, appunto, di come una regola grammaticale sia in grado di influire sulle relazioni di potere con cui è strutturata la società. 

 

Saltiamo dagli anni Ottanta al 2021: molti dei limiti dei modelli sociali finora vigenti sono emersi in superficie e insieme a loro è affiorata una moltitudine di identità che reclamano il proprio spazio, con la conseguenza — destabilizzante — che quelle finora egemoni sono chiamate a decentralizzarsi e relativizzarsi. Ecco che il problema della lingua inclusiva torna un tema centrale, stavolta non più soltanto nella necessità di superare il maschile universale, ma con la richiesta di dare spazio, visibilità e possibilità di definirsi a questa moltitudine che finora non ha avuto voce e quindi, come direbbe Gheno, non ha avuto spazio per esistere.

Il tentativo di aprire il nostro linguaggio per conferire dignità verbale a questa esplosione di soggettività fa paura a molti (qui l’uso del maschile universale non è casuale) perché comporta uno stravolgimento di sistemi di rappresentazione. Come ogni cambiamento epocale, questo processo è lento e fatto di tentativi ed errori (molti dei quali sono buffi, rozzi, incompleti e rudimentali, come è naturale che sia) perché stiamo andando a disturbare abitudini e meccanismi calcificati nel nostro immaginario. Il punto è che il linguaggio è vivo e fluido, tant’è che ogni lingua, compresa la nostra, si nutre costantemente di neologismi e termini mutuati da altri contesti linguistici che entrano a far parte del nostro immaginario: fino a qualche decennio fa non avremmo mai pensato di apostrofare qualcuno come troll o blastatore. Riconoscere la necessità di ordinare qualche pezzo di ricambio per rendere la nostra macchina meno obsoleta non dovrebbe essere uno scoglio insormontabile.

 

In alcuni casi sta già succedendo: pensate all’adozione dell’acronimo LGBTQ+, che nonostante sia in uso da decenni, soltanto negli ultimi anni si è sedimentato nel nostro utilizzo comune. Siamo passati dall’avere una sola stanza concettuale, i gay i finocchi, i froci, ad approfondirne la conoscenza e le conseguenti sfumature identitarie, e questo ci ha permesso di essere meno manichei, quindi meno discriminanti, nella nostra concezione dello spettro della sessualità. Mi rendo conto, da persona queer, che guardando dall’esterno questo processo di pluralizzazione identitaria e terminologica può sembrare che ci stiamo complicando l’esistenza, ma pensiamola come quando, dalla televisione a tubo catodico con sei canali, siamo passati a fruire di un intrattenimento variegato in cui la TV satellitare ha permesso l’accesso a una quantità di contenuti mai visti prima, per non parlare dell’arrivo di Internet, la TV infinita in cui ognuno di noi è un canale.

 

Proprio come nel caso del passaggio al satellite o all’internet, anche questo cambiamento ha i suoi early adopters — la cosiddetta lobby gay — pertanto, nonostante la diffusione su scala mondiale di queste istanze, è difficile percepirlo come un cambiamento “dal basso”. Discutere di questioni di genere richiede un livello di cultura, conoscenza e ragionamento abbastanza elaborato, per cui alcuni concetti possono risultare parecchio ostici, visti dall’esterno. Questo avviene, in parte, perché il discorso legato a queste tematiche è portato avanti da ambienti di attivistƏ in cui la complessità è un valore, in parte perché alcune riflessioni e alcune lotte sono ancora a una fase embrionale, quindi non esiste un codice universalmente intelligibile, ma appunto parecchi tentativi, spesso confusi, di rielaborare il modo in cui comunichiamo.

 

Il nodo gordiano, in questo momento, sta nel trovare uno stratagemma per hackerare una lingua flessiva e piena di eccezioni come l’italiano per rivolgerci al nostro interlocutore in maniera neutrale. Ci sono diverse proposte in questo senso, che vanno dall’uso dell’asterisco a quello della u (trovate una lista esaustiva su questo sito), ognuna è più o meno equivalente a livello di efficacia sullo scritto, il problema resta quando si ha la necessità di passare all’atto pratico dell’interazione orale: l’asterisco non ha suono, la u non è particolarmente versatile e così via.

 

L’ultima soluzione nasce da una “boutade” di Vera Gheno per ovviare all’impronunciabilità dell’asterisco, ed è l’uso dello Schwa, ovvero la lettera neutra  per eccellenza. Gheno la definisce come “un simbolo dell’alfabeto fonetico internazionale che si pone esattamente nel mezzo del triangolo vocalico, e che indica una vocale indistinta che compare, tra l’altro, in molti dialetti italiani, soprattutto del meridione (cfr. /NapulƏ/)”. Lo Schwa ha il pregio di essere il fonema neutrale per eccellenza, vedi la posizione della bocca di chi lo pronuncia, ma, essendo un suono inesistente in italiano, rischia di risultare poco riconoscibile e quindi assimilabile dal nostro cervello a una vocale più “standard”. Anche se la proposta di Gheno ha i suoi limiti, il suo senso in fin dei conti è dimostrare che si può e si deve continuare a ragionare collettivamente sul modo in cui possiamo cambiare le nostre pratiche per renderle più accoglienti e inclusive. Stiamo riscrivendo un codice condiviso, e questo richiederà almeno un decennio di sperimentazione in cui inventeremo, condivideremo e diffonderemo nuove pratiche collettive finché non ne troveremo una in grado di assestarsi nel nostro immaginario.

 

Mi rendo conto che da un certo punto di vista suona anacronistico parlare di pratiche collettive, soprattutto per la generazione Snowflake in cui l’affermazione individuale e molti dei concetti che ruotano intorno a questo tema sono costantemente capitalizzati da strategie di marketing che ne espropriano il valore profondamente umano. È anche vero che, sempre per citare Gheno, la lingua la fanno i parlanti, ognuno di noi ha in mano gli strumenti necessari a superare sistemi linguistici che sono intrinsecamente portatori di disparità.

 

Il filosofo Paul B. Preciado, in un’intervista alla TV catalana Betevé, spiega che “il sistema di rappresentazione binario normativo, così come il sistema coloniale, produce modi di sentire, ovvero produce paura, discriminazione, violenza… Ed è questo che dobbiamo cambiare. E il cambiamento può avvenire soltanto attraverso l’immaginazione […] la critica dell’epistemologia binaria e dell’epistemologia razzista passa per una trasformazione profonda dell’immaginario, per cui dev’essere poetica, sempre.” 

 

Ci troviamo insomma all’alba di un processo di immaginazione collettiva, e questo è insieme pauroso e fantastico, come tutte le evoluzioni della specie. 

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