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14 Aprile 2021
Il giorno in cui ho scoperto chi sono
di Veronica Costanza Ward

Padre afroamericano e madre Italiana, Veronica Costanza Ward è un mix di molte cose. Autrice, speaker e poeta, attualmente è contributor di Vogue.it con la rubrica ForWard e collabora con altri quotidiani come Domani. È membro di “We are Made in Italy”, ora gruppo di lavoro interno a Camera Nazionale della Moda Italiana. Ad Ottobre 2020 ha tenuto un TedxTalk dal titolo “Una, nessuna, centomila” sul tema della diversità e dell’identità in Italia.

Video: Una, nessuno, centomila | Veronica Costanza Ward | TEDxReggioEmilia

Questo racconto risale al 2001 e descrive un episodio avvenuto nel 1993, rivisto ed editato con considerazioni finali di oggi. Non l’ho mai voluto pubblicare perchè pensavo di inserirlo in una raccolta di racconti che invece sto scrivendo ora. È stato un momento catartico e credo che, all’interno di TAKEOVER, nella sua semplicità possa essere il giusto contributo anche per chi si trova oggi in una situazione simile: l’essere eternamente nel mezzo di identità multiple, le proprie e quelle che ti vengono attribuite via via nella vita, soprattutto in Italia ancora e purtroppo.

 


 

Avevo diciotto anni il giorno in cui ho scoperto chi sono.
In piedi sul ventinove verso la Bocconi mi preparavo a scendere. Un giorno di Settembre. Un altro giorno della mia ancora inconsapevole esistenza.
Alla fermata e al primo scalino di quel vecchio tram che mi avrebbe portato, non molti anni dopo, alla laurea, d’improvviso un sibilo all’orecchio e un oggetto leggero mi sfiora la testa per poi cadere tra la folla pressata sul marciapiede in attesa di salire.
Scesa in strada, in una frazione di secondo uno schiaffo sulla spalla, uno spruzzo di parole ruvide e acute mi travolge.
Non capisco subito, frastornata e allarmata mi guardo intorno. Comprendo qualche secondo dopo dal dito alzato e puntato verso la mia faccia dall’anziana signora che oltrepasso scendendo, paonazza per la rabbia, che l’invettiva è indirizzata proprio a me “ed era ora che la smettessimo di fare come ci pareva, che ci comportassimo da maleducati come se niente fosse, che quella Milano non era più la stessa dopo che eravamo arrivati noi e che insomma dovevamo tornarcene tutti a casa. Troppi neri in questa città”.
La osservo più che guardarla. Ancora non mi è chiaro a chi parli, perché gesticoli tanto animatamente e perché, soprattutto, si rivolga a me con un Voi.
Mentre rifletto e mi guardo attorno in cerca degli altri oggetti del suo attacco, riesco a decifrare dalla mimica che la causa dell’ira della signora proviene, in senso letterale e fisico, da un pacchetto di sigarette vuoto, lì sulla strada – “vedete, quello lì, nemmeno lo raccolgono ‘sti selvaggi” – uscito in volo dal tram colpendola in testa.

 

Il capannello di persone che seguono la sua dissertazione sui mali della città e quindi dell’umanità intera è discretamente nutrito, il tranviere in attesa che si risolva la questione e che i nuovi passeggeri possano salire.
Quella mattina la città si è fermata lì per me, un tempo infinito, e così il corso della mia vita.
Avrei voluto chiamare mia madre, avrei voluto averla vicina per farmi spiegare il significato di ciò che stava accadendo ma soprattutto quale fosse il mio ruolo in questa scena. Invece non ne parlai mai.
Non mi era mai capitato a Chicago, non mi era capitato a Reggio Emilia, non a Hong Kong, non a Parigi né a New York ma nemmeno nel più piccolo paesino della Lombardia dove ho passato la prima infanzia.
Cosa-avevo-fatto? Cosa era successo, chi erano le altre persone cui la signora mi accostava: non le conoscevo o almeno in quel momento non c’era nessuno che potevo riconoscere.
Risvegliatami dal torpore della riflessione e dopo aver cercato invano di proferir verbo, penso che la spiegazione migliore per dissipare ogni dubbio sul mio coinvolgimento sia dire che non fumo.
Venti sguardi e quaranta occhi si girano su di me come davanti a un fenomeno extracorporeo o davanti a un evidente esempio di idiozia.
Io continuo convinta e con le mani alzate mi difendo sostenendo che mai comunque avrei fatto qualcosa del genere.
“Sì sì, come no, tutti falsi, i giovani poi, i peggiori”.
È chiaro che il mio tentativo non funzionava, perciò provo con il tentativo alternativo numero due: cerco di rassicurarla, calmarla e di sdegnarmi con lei ma dopo numerosi vani approcci mi decido, stremata, a mandarla sottovoce a quel paese e levarmi di torno (tentativo numero tre).
Improvvisamente, però, intorno a me tutto era diverso: le case, le strade, i visi della gente, l’odore della città.
La bolla di ingenuità ereditata dalla provincia e l’abitudine alla diversità pacifica tramandata dalla mia famiglia si dissolvono all’istante.
“Chi sono, dove sono, chi ha visto la signora in me, quella signora africana non mi somigliava e come potrei conoscerla, nemmeno quel ragazzo con la felpa e le treccine, perché ci parlano come se ci conoscessimo?”, penso mentre mi allontano dal gruppo in fiamme.
E così mi ritrovo sbigottita, confusa e offesa ma soprattutto ammutolita nel bar all’angolo di via Sarfatti, il “mio” bar dell’Università.
Allo specchio del bagno mi guardo e non mi vedo, anzi mi vedo per la prima volta: indosso una felpa, non ho messo le perle, avevo dimenticato il foulard di Hermes regalato dalla zia per il diploma e sì, per la fretta avevo lasciato i capelli sciolti e ricci appena lavati, niente piega, e sono, sono, Oddio! Sono MULATTA! Bianco-Nero. Non posso crederci, ora capisco! Rivedo il film, al rallentatore, muto, i sottotitoli belli chiari, sono un’extracomunitaria, nera o quasi, proprio come si legge sui giornali, pelle nocciola, sudamericana forse, cubana o brasiliana, fianchi da lambada e sguardo fiero e una cascata di ricci. Jeans stretti (perdonatemi, era il ’93).

 

Niente lascia dubbi.
La mia storia mi aveva impedito di capire la realtà o di vederla dallo sguardo degli altri.
Io non ero più io.
Ero ciò che rappresentavo.
Esco dal bagno, esco dal bar.
Varcata la soglia dell’università, indispettita e combattiva, inserita la scheda magnetica al terminale per gli studenti, mi riprendo la mia identità:
Veronica Costanza Ward, madre italiana, padre statunitense, afroamericano, doppia nazionalità, residente a Reggio Emilia, diplomata al liceo classico, al primo anno di studi di economia aziendale, hobby: viaggi, poesia, tennis, lo sci, il jazz.
Ero di nuovo io. In bianco e nero, appunto.
Solo titoli, niente sottotitoli.
Ma mai più solo quella me.
Da allora centomila e nessuna.
Pochi giorni dopo ebbi il mio primo attacco di panico, durante una lezione di Economia Politica. Deflagrante e distruttivo. Tragicamente illuminante. Il primo squarcio nella mente, nel cuore e nel corpo, lì per sempre.
Le mie identità involontarie sono state molte. Divertenti e imbarazzanti, illuminanti e affascinanti. Malinconiche. Tragiche. Soprattutto mai reali.
Fuori dalla tana calda della piccola provincia in cui tutti ti conoscono o della sweet home Chicago in cui almeno superficialmente, ma spesso ipocritamente, nessuno ti addita sulla pubblica via, ho cominciato a confrontarmi con me stessa e con la metropoli italiana dei primi anni Novanta, con ciò che sembri e non con chi sei. Con la forma e la sostanza, quella “della nonna” intendo, niente di filosofico.
Ho pensato spesso di confezionare una targhetta da tenere al collo come alle fiere o ai convegni. Per non dover spiegare, per l’ennesima volta.

La società italiana oggi, nel secondo decennio del nuovo millennio, ma in generale la società moderna, teme la perdita di un’identità, di una definizione, di un’etichetta a cui aggrapparsi, un documento, un passaporto. Già, un passaporto. Non lo concede ad altri per paura, paura sociale, paura politica, la scusante del “non si sa mai”. E infatti si finisce per non sapere, non conoscere e non avanzare mai.
Questo oggi mi spaventa di questo mio paese: le opposizioni che rimandano e accantonano questioni che riguardano la nuova società, società che dovremmo iniziare a preparare e in cui vivere sentendo il vento del cambiamento, di cui sentirsi tutti parte.
Vedo solo mimi che si muovono in un triste e ridicolo impaccio.

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