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19 Maggio 2021
Il catalogo delle apocalissi
di Matteo De Giuli

Senior editor del Tascabile. Co-autore di una newsletter sull’Antropocene che si chiama MEDUSA. Scrive per la TV e la radio.

Negli ultimi mesi, per lavoro, ho avuto accesso a quello che nel gergo RAI viene chiamato il Catalogo MultiMediale, ovvero l’immenso archivio digitale della TV pubblica, la versione estesa, insomma, delle Teche RAI disponibili online. Il Catalogo MultiMediale custodisce ogni secondo andato in onda negli ultimi venti anni e una cospicua selezione del materiale trasmesso nei decenni precedenti, per un totale, leggo sul sito aziendale, di 1 milione e 300.000 ore di materiale televisivo.

 

Chi è attratto dalle pieghe insolite della cultura pop, dalle stranezze dimenticate, dai rimossi collettivi, si ritrova a gingillarsi con uno scrigno prezioso, pieno di sorprese. Fuori dalle ore di lavoro entro per conto mio nel Catalogo e cerco o inciampo in materiali unici. Guardo, per esempio, una puntata di MIXER di Gianni Minoli del 1984. L’ospite è Jorge Luis Borges, novantacinquenne. Finita l’intervista viene lanciata immediatamente una rubrica, “La canzone MIXER della settimana”: quel giorno tocca a Jo Squillo che canta “I love muchacha” e balla mentre la sua figura si sdoppia e si triplica, immersa in colori acidi e effetti grafici rudimentali e ipnotici. Controllo, per curiosità, anche la replica che andò in onda nel 1986, alla morte di Borges. In quel caso la canzone non c’è, e a fine intervista il primo piano del più grande scrittore del Novecento si dissolve con un effetto a scomparsa un po’ macchinoso e parte la sigla della trasmissione: immagini di modelle di intimo, seminude, accompagnate da note smooth jazz, un abbinamento che all’epoca doveva essere sembrato moderno e ruggente e non bislacco come adesso.

 

Nelle zone liminali come questa si accendono le scintille più preziose e impreviste del Catalogo. Cerco così le piccole e grandi apocalissi culturali salvate nell’archivio, il modo a volte goffo, altre volte illuminante, in cui la TV pubblica ha provato a raccontare il mondo mentre cambiava.

 

Cerco e trovo un video sorprendente: una delle prime volte, o forse la prima in assoluto, è impossibile dirlo con certezza, in cui un TG nazionale racconta ai telespettatori l’avvento dei fast food. È il 1983 e il cibo di strada industriale è una moda in quel momento prettamente milanese. Al resto d’Italia deve ancora sembrare un accidente indecifrabile. “Siamo al quick hamburger”, dice una voce femminile fuori campo, “catena del fast food, cibo veloce, il nuovo modo di mangiare all’americana”. Il locale, che nelle immagini si mostra già colorato, affollatissimo e sporco come un qualsiasi McDonald di quarant’anni più tardi, ha sostituto “il mitico Biffi, uno dei più famosi ristoranti della galleria Vittorio Emanuele”. Il servizio racconta poi la nuova filiera della cucina fast food, il modo in cui in pochi minuti i prodotti surgelati vengono trasformati in cibo e depositati sui vassoi dei clienti. Il racconto  non è affatto ingenuo, mi sembra anzi piuttosto rivelatore: “la scena ricorda immediatamente la catena di montaggio, ragazzi e ragazze in divisa colorata si muovono velocissimi e in perfetta sincronia attorno ai banconi dove si prepara il cibo”. C’è chi cuoce la carne, racconta la voce, chi fa arrostire il pane, chi farcisce, mentre “una ragazza frigge continuamente le patate e le infila con uno strano aggeggio nei sacchetti di carta”. È una testimonianza in presa diretta, le prime tracce di un piccolo ma significativo terremoto: i ristoranti storici ed eleganti del centro città sono costretti a lasciare il posto a questi nuovi luoghi alieni, illuminatissimi, aperti dalle 10 alle 23, con centinaia di posti a sedere.

La fine del mondo c’è sempre stata. Ripenso a Ernesto De Martino, padre dell’antropologia italiana, grande studioso di etnologia. “Che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai conquistadores spagnoli, questi marziani piovuti da chissà dove, se non che quella era la fine del mondo?”. Lo dice De Martino in una conversazione con Cesare Cases, sui Quaderni piacentini. “Noi possiamo dire che era la fine del loro mondo, ma che cos’è la fine del mondo se non sempre la fine del proprio mondo?”

 

Sul Catalogo (e in parte anche online) si possono vedere alcuni documentari etnografici ispirati alle ricerche di De Martino che esplorarono il legame tra Sud Italia e magia, possessioni, fatture, esorcismi, rituali che invece di scomparire si rafforzarono negli anni del boom economico, nelle comunità contadine e nei circoli borghesi di un meridione abbandonato – senza sviluppo e senza difese culturali collettive – davanti allo sconvolgimento della modernità. De Martino capì che il passato non si lascia esiliare, che riemerge nelle lacerazioni e nei vuoti che si creano nelle transizioni tra un’epoca e l’altra, e che il pensiero magico è pronto a farsi strada tra le crepe.

Cerco qualche intervista a De Martino, ma non ce ne sono. Sembra davvero che non sia mai apparso davanti a una telecamera. Trovo solo qualche secondo di girato: una dichiarazione rilasciata nel 1958, dopo la vittoria del Premio Viareggio con Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dice frasi di circostanza. Le macchie della pellicola sporcano l’immagine e De Martino, con le occhiaie profondissime, il volto pallido, la voce calma, sembra un Nosferatu buono.

Continuo il mio zapping tra i decenni, passo dalle apocalissi culturali a quella climatica. Cerco tracce del modo in cui veniva raccontato il rapporto tra natura e esseri umani, venti, trenta, quarant’anni fa. Cosa avevamo capito della catastrofe ambientale dentro cui stavamo infilando il pianeta?

 

Trovo un servizio sull’inquinamento dell’aria a Milano andato in onda su Rai2 nel 1970. Si apre con le parole di un cittadino, forse un attivista, che parla in mezzo al traffico incessante di berline e monovolume alle sue spalle. Siamo in Piazza Duomo, nella parte che oggi è pedonale. Ogni tanto passa anche un autobus, o un’apetta. L’intervistato usa termini e argomentazioni oggi scomparsi dal dibattito ambientalista: “i motori a ciclo otto provocano lo smog fotochimico”, “non avremo più soltanto lo smog durante l’inverno a Milano, quest’estate abbiamo già avuto un primo principio”. Stacco della regia su una marmitta che sbuffa e poi ancora su altro traffico. “Anche il sole si è messo a favorire con i suoi raggi la trasformazione dei veleni emessi dagli scarichi delle auto in veleni ancora più complessi: la cosiddetta reazione fotochimica”.

 

Poi, però, la voce narrante ridimensiona le preoccupazioni: “spesso queste notizie sono manipolate a scopi puramente pubblicitari e non costituiscono una vera base scientifica”. Il servizio ci porta allora alla sede dell’Eni a San Donato Milanese. Primo piano di un dirigente nel suo studio, seduto davanti a una libreria piena di faldoni. “Non parlerei tanto di accuse ma di necessità e responsabilità”, dice all’inizio, in maniera sibillina, nel tentativo di placare gli animi. Si perde un po’, poi però conclude cercando di raccogliere il suo eloquio attorno a un messaggio: “le benzine correnti non contengono idrocarburi cangerogeni e non possono contenerli”.

 

Il servizio continua con l’opinione di qualche medico in camice bianco che bene o male conferma la versione dell’Eni. La voce narrante a questo punto riassume la situazione: i danni dell’inquinamento si manifestano più che altro in “bronchiti, asme e malattie polmonari”. Se ci pensate, tutto sommato poca roba. Per dimostrare comunque una buona volontà di investigazione giornalistica, il servizio ci porta a colloquio con due dirigenti dell’Alfa Romeo. Si parte da questa domanda: è vero che, per prevenire ogni timore, l’Alfa Romeo sta comunque lavorando ad automobili non inquinanti? E queste automobili non inquinanti non è che avranno prestazioni minori? I due uomini Alfa sono seduti uno accanto all’altro, nel lato lungo di un grande tavolo lucido, in una classica stanza da riunioni. Inizia quello sulla destra: “Ma, dunque, noi cerchiamo proprio di fare in maniera tale da conservare le caratteristiche di una macchina scattante che abbia anche delle caratteristiche non inquinanti. E pensiamo di riuscirci”. Il collega, più cauto, aggiunge subito: “O almeno siamo vicini a degli elementi soddisfacenti”. Poco dopo, sempre lui, che ha dimostrato più realismo e determinazione, aggiunge che in fondo degli agenti inquinanti sappiamo ancora pochissimo, allo stato dell’arte, e che tutto sommato non si possono escludere neppure inaspettati effetti virtuosi dello smog. “Su certe autostrade, come la  Milano-Bergamo, si nota una crescita abbondante di erba”.

Continuo a cercare un po’ accidentalmente, senza troppo criterio, e trovo un documentario di qualche anno prima ben più lucido di questo. Titolo: Cronache del XX Secolo, sottotitolo: “La fauna che scompare”. Ha toni catastrofistici e forse per questo mostra anche, purtroppo, una certa preveggenza. Non cita lo smog ma racconta, in maniera più generale, l’impatto degli esseri umani sugli ecosistemi naturali. Parla, senza mezzi termini per l’epoca, di pesca intensiva, impoverimento della biodiversità, estinzione di massa, deforestazione e uso indiscriminato degli insetticidi. Il finale, nonostante i toni da omelia laica, sembra davvero arrivare  dal futuro: “L’industrializzazione e lo sviluppo dei centri urbani allontanano l’uomo d’oggi dalla natura. Diminuiscono in lui la sensibilità e l’amore per le altre forme di vita. Eppure proprio il tipo di civiltà verso il quale siamo incamminati esige per l’equilibrio e la pienezza della nostra esistenza una maggiore partecipazione umana a tutti gli aspetti autentici e vivi della natura”. Il documentario è del 1966, in Europa non esistono ancora i partiti verdi e in Italia l’ambientalismo moderno non è praticamente neanche nato.

 

Guardo, infine, a spezzoni, un documentario sui ghiacciai polari del 1982. Immagino che sia prodotto dalla BBC perché il doppiaggio italiano è sovrapposto alle voci originali che hanno un accento britannico. Dopo aver visitato l’Antartide, la troupe televisiva atterra alle Hawaii, a Mauna Loa. Dalle immagini, il vulcano dell’isola sembra un monticello modesto, decisamente meno maestoso di ciò che ci si aspetta da un vulcano di quattromila metri conficcato in mezzo all’oceano. Su quei pendii c’è la sede di un noto e importante centro di ricerca che dagli anni Sessanta “controlla la respirazione del pianeta” misurando l’anidride carbonica atmosferica. Anche la vista dell’osservatorio è deludente, poco più di una manciata di container disadorni che ospitano dei macchinari con la carta perforata. I dati del Mauna Loa Observatory, però, sono fondamentali, e accumulati negli anni e incrociati con altri dati e altri studi, oggi sono considerati la prova del fatto che l’effetto serra che avvolge il pianeta è causato principalmente dalle attività umane.

Che si parlasse di queste cose al grande pubblico, nel 1982, mi sembra un caso unico: in quel periodo la climatologia difficilmente usciva dagli ambienti accademici, il dibattito arrivava al massimo alle riviste di settore ed era sostanzialmente ignorato dal mondo dell’informazione e da quello culturale, con l’ostinata eccezione di qualche libro divulgativo. La conferenza mondiale dei capi di Stato sull’ambiente di Rio si sarebbe tenuta solo dieci anni più tardi, nel 1992. È possibile che sia proprio questa, che ho trovato per caso, la prima volta in cui la TV italiana ha parlato di riscaldamento globale? “I fuochi dell’uomo e i motori stanno aumentando in tutto il mondo. Perderne il controllo porterebbe a un surriscaldamento del pianeta”, dice il documentario. Cerco di immaginarmi che effetto doveva fare sentire il suono, ancora inedito, di quelle parole.

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