Eco

Light

Eco

Light

Torna su
Cerca ovunque |
Escludi l'Archivio |
Cerca in Archivio
8 Aprile 2021
Transizione
Claudia Durastanti

Ci sono angoli della città in cui capisci che la quarta guerra mondiale non sarà quella combattuta con i bastoni e le pietre, come Albert Einstein non ha mai detto, ma sarà quella delle nuove case. In cui la crisi abitativa sarà tale che quasi tutto finirà con il somigliare a un rifugio, ma a quel punto il concetto stesso di rifugio si sarà perso, e sarà solo una casa, un fungo che prova a riformarsi nei luoghi del disastro. E così quando passi sotto al ponte che porta alla Stazione Trastevere da Piazza della Radio, e vedi una comunità di fuoriusciti nella terza bocca del passaggio che si è organizzata per creare una specie di ostello, disorientante nella sua precisione fatta di materiali assemblati, materassi riciclati, effetti personali appesi al muro e dei servizi igienici, ti rendi conto che stai attraversando una nuova ecologia, che non ha niente della disperazione seducente dei primi film di Mad Max, né il nichilismo a volte affrettato di Children of men, con tutti quei blu desaturati. In questa nuova ecologia la luce è normale, la vita che si tenta appare persino banale, e invece di sembrare una forma di collasso rispetto a tutto quello che c’è attorno, si presenta come una forma di recupero, o una premonizione gentile del futuro, con certi slanci di ingegneria che normalmente non si notano. Qualcosa che anticipa e sale, e non qualcosa che consegue e discende.

 


Molti fuoriusciranno dopo questi anni di pandemia, fuoriusciranno dalle loro case e dalle loro città, e allora le strade di sempre appariranno un po’ spettrali, ma ci sono strade che già prima sembravano raccattate e disertate, e c’è questa lunga zona amorfa che si snoda dalla Stazione di Trastevere fino ai confini più curati e nobili di Trastevere stessa, e somiglia a tratti al treno di
Snowpiercer, costruito per salvare parte dell’umanità dopo l’ibernazione del pianeta e un lunghissimo inverno. Diviso in classi progressivamente ascendenti, con i loro ecosistemi e le loro strategie di sopravvivenza, dalla violenza cruda per il pasto nelle classi inferiori all’intrattenimento costante e alla distrazione perenne in quelle superiori, il treno di Snowpiercer rende evidente che ci sono già strade che sono fatte così, già quartieri che sono così. Interstiziali, di transizione, che fanno da sbocco a strade e quartieri più belli, e tentano progressivamente di liberarsi della memoria dei propri scarti.

Sono strade che paiono essersi formate con lo stesso slancio falsamente anarchico dei cristalli, che dietro tutti quelle punte e quei grumi frastagliati preservano invece una forma di ordine, uno scopo preciso. Trattenere la bellezza dentro di sé, per rivelarsi pienamente solo dopo un taglio o una incisione accurata. Il resto del tempo, si limitano a irradiare all’esterno una luce che più delle volte tende a sembrarmi sinistra e ammalata. C’è qualcosa di maligno nei cristalli, e in una strada particolare di Roma.

Quando lo scarto convive con l’aspirazione, si ha un rettilineo come questo, fatto di officine, di alberghi da due stelle e hotel da quattro stelle a pochi metri di distanza, scuole di arti marziali negli scantinati, parrucchieri in cui non entra mai nessuno, e negozi di abiti da sposa nascosti in palazzi insospettabili; si vedono manichini seminascosti tra le tende, nelle finestre in alto, e pare che ogni sposa finta voglia lanciarsi di sotto. E poi ci sono bar con i tavolini all’aperto che diventano progressivamente più curati man mano che si sale verso Trastevere, il luogo in cui si può dire che la storia inizia per davvero, che la bellezza ha un senso, mentre i bar stanno sempre a lambirla nell’eco paludoso delle loro rivendicazioni frustrate, e allora la strada ha un che di limaccioso.

 


La sovrapposizione di forme e di istinti diversi crea un groviglio di liane invisibili, di striature che soffocano i palazzi dalle architetture anni settanta troppo ingenui per essere brutalisti, e allora sono solo palazzi romani di architetti senza fantasia, a tentare di contenere qualcosa che visibilmente sta cedendo. Perché tra gli interstizi tra un palazzo e l’altro, in questa strada che accompagna i passeggeri dei tram verso via Dandolo per salire al Gianicolo e lascia sempre intuire che alle sue spalle ci sia qualcosa da scalare, qualcosa di meglio, si intravedono pezzi di terra e di ville che potrebbero franare da un momento all’altro. Senza reti, senza rinforzi di cemento, basta alzare lo sguardo e intuire la forma di altre vite, di altre classi sociali, che potrebbero cedere precipitosamente verso il basso ma ancora non lo fanno. E allora a cosa serve questa strada serpentesca anche se è dritta, morente anche se rumorosissima, se non a lasciar intravedere il crollo e a renderlo implausibile allo stesso tempo.
E ogni tanto ci sono ville a due piani semicoloniche e calcificate, con i cancelli che rivelano cognomi stranieri, palme avvizzite e copertoni nel giardino, la cui presenza fa sì che questa strada riassuma geografie distanti tra loro, paesi che vivono ormai solo nelle edicole in forma di cartoline sbiadite: le capitali del turismo degli anni Ottanta, Miami e Acapulco, che appaiono come lampi con le loro periferie senza spiaggia, con i loro colori lavati via da qualche disastro ambientale, e inviano l’eco dei loro inaspettati tristi tropici a Roma. È una questione di colori anche: di gialli e arancioni e rossi sfiancati, che hanno patito campagne anti-malariche immaginarie, di efflorescenze inquinate che hanno creato un sudiciume ormai archeologico, uno sporco nero e imperiale.

 


Ma sono soprattutto le palme avvizzite, sono le piante spontanee negli interstizi a creare dubbi su dove si è in quel preciso momento, perché oltre a essere e ad apparire molto vecchia, questa strada è anche aliena, una compressione di dettagli distratti e sciatti. È piena di scarti ed errori edilizi che fusi insieme la rendono bizzarramente appariscente nella sua funzione minore, fare da raccordo tra una stazione e un quartiere degno di essere definito centro storico, un rettilineo serpentesco, anche se è dritto, che non sferra mai un attacco e non è mai abbastanza drammatico da far sentire il pizzicore del veleno. Camminare per questa strada senza uno scopo preciso, visitarla per la semplice curiosità di farlo, significa provare a tagliarla, provare a fare un’incisione: anche se il cristallo non ha niente da rivelare dentro, la sua luce prova a dire ancora qualcosa, tra una sposa finta che tenta un salto nel vuoto, e un bar occupato da stranieri che la abitano come se fosse un grande accampamento, e mai un vero rifugio. 

Take Over powered by Fondazione Romaeuropa e Siamomine