In un’edizione del Festival interamente dedicata al bicentenario della Rivoluzione Francese, Romaeuropa dedica il suo concerto inaugurale a quattro maestri che hanno saputo “rivoluzionare” la musica del ventesimo secolo: Edgar Varèse, Arnold Schönberg, Anton Webern, Igor Stravinskij. A dirigere l’Orchestre National de France un altro grande innovatore contemporaneo, Pierre Boulez, che per il terzo anno consecutivo partecipa al Festival suscitando un immutato entusiasmo nel pubblico romano. Composti tutti nell’arco di una decina di anni, i brani del programma hanno costituito altrettante tappe fondamentali nel sommovimento armonico, ritmico e timbrico che caratterizzerà la musica del novecento, spesso anche intrecciando evidenti, reciproche influenze che l’esecuzione rivela appieno. Dai Sei pezzi op. 6 di Webern del 1909 (è in questa versione che Boulez ha scelto di eseguirli, malgrado la riscrittura del 1928) ad Ameriques del 1920, passando per quello spartiacque imprescindibile rappresentato da Le Sacre du printemps di Stravinskij e per i quattro Lieder che Schönberg scrisse subito dopo il celeberrimo Pierrot Lunaire, si combina una composizione musicale che ancora mantiene intatta la sua carica rivoluzionaria.
QUATTRO LIEDER OPUS 22
La missione storica che Schönberg (1874-1951) ha assunto coscientemente, è stata quella di mettere fine al sistema tonale, una volta constatatone l’esaurimento, e di costruire al suo posto un nuovo sistema. Da qui la sua “rivoluzione” in due tappe: quella che in mancanza di meglio chiamammo l’atonalismo “libero” (a partire dal 1908), ed in seguito il dodecafonismo seriale (ufficialmente a partire dal 1923).
Marc Vignal
La dodecafonia è una tecnica di composizione “che Schönberg considerò sempre come una “fatto privato”, nel senso che essa riguarda solo la struttura interiore delle opere e non il modo di ascolto, che deve rimanere uguale a quello di qualsiasi altra opera. Questa tecnica Schönberg la chiamò più esattamente “metodo di comporre con dodici suoni in relazione solo tra loro”: la composizione non gravita più su un centro tonale, cioè intorno ad un suono che ha la preminenza su tutti gli altri, ma i dodici suoni che formano la scala cromatica vengono trattati sullo stesso livello di importanza, e ciascuno di essi ha lo stesso valore nel procedimento di costruzione armonica, melodica e ritmica di un pezzo di musica”
Giacomo Manzoni
(in Guida all’ascolto della musica sinfonica, Milano, Feltrinelli, 1967).
I QUATTRO LIEDER OPUS 22
Le Quattro melodie con orchestra, Opus 22, segnano un punto nevralgico nell’evoluzione del loro autore: scritte subito dopo il Pierrot Lunaire (1912), sono l’ultima opera che Schönberg ha portato a compimento prima del lungo silenzio che doveva portarlo, a partire dal 1923, alle sue prime opere dodecafoniche.
La prima, Seraphita, fu completata il 6 ottobre 1913.
La seconda, Alle welche dich suchen, fu scritta in soli quattro giorni dal 30 novembre al 3 dicembre 1914.
La terza, Mach zum wächter deiner weiten, iniziata lo stesso giorno, fu terminata l’1 gennaio 1915.
Vorgefühl, è la più tardiva, Schönberg la scrisse durante il primo periodo del suo servizio militare, precisamente dal 19 al 28 giugno 1916.
La scelta dei versi rivela le preoccupazioni filosofiche e mistiche che assillavano Schönberg in quell’epoca.
Seraphita di Ernest Dowson, che Schönberg ha musicato, evoca il personaggio mistico e fantastico del romanzo omonimo di Balzac, a sua volta influenzato dal pensiero di Swedenborg. Le tre poesie di Rilke, estratte dal Libro delle ore e dal Libro delle immagini, riflettono alcune preoccupazioni simili a quelle degli altri tre lieder.
La prima audizione dell’Opus 22 ebbe luogo solo il 21 febbraio 1932 a Radio Francfort sotto la direzione di Hans Rosbaud, con Herta Reinecke come solista, ed in seguito l’opera è stata eseguita molto raramente. Sicuramente a causa della grande difficoltà di esecuzione (che ritardò anche la creazione dei pezzi Opus 6 di Berg), ma soprattutto a causa della formazione orchestrale inabituale e molto grande richiesta da Schönberg e che per di più varia per ciascuno dei quattro pezzi.
I Lieder Opus 22 si possono annoverare fra i capolavori più grandi e più originali di Schönberg e dunque di tutta la musica del XX secolo sia per l’utilizzazione dell’orchestra unica nel suo genere (mai Schönberg è andato così lontano nell’intuizione realizzata di una vera Klanfgarbenmelodie), sia per l’uso della voce, che richiede un grande soprano lirico capace di spaziare dal sol bemolle grave al la bemolle acuto, sia per la sontuosa ricchezza melodica e armonica del linguaggio atonale libero, sia infine per la loro intensità espressiva straordinaria. Ultima testimonianza del suo grande stile espressionista libero prima della lunga ascesa della serie dodecafonica, i Lieder Opus 22 sono destinati ad occupare, presto o tardi, malgrado le difficoltà materiali che si oppongono alla loro realizzazione, uno spazio privilegiato all’interno del repertorio contemporaneo.
Harry Halbreich
Rassegna stampa
“Molti musicisti, molta gente di élite ad ascoltare nella cavea gremita, ed ecco risuonare in orchestra i primi aneliti di Ameriques (1920-21) del franco-americano Edgar Varèse. Il gesto sobrio, netto, inesorabile, del Boulez, scandisce colpo per colpo l’esagitarsi delle percussioni, segna con precisione il tempo, dominando il succedersi e contrapporsi dei temi, ma soprattutto suggerisce e anticipa con la bacchetta il pulsare di uno stress cittadino, industriale e frenetico, che fa vivere di paura e di terrore […].
I Quattro Lieder op. 22 (1913, 14, 15 e 16) marcavano un altro aspetto della ribellione del ‘900, quello propriamente atonale e cioè di guerra al tonalismo tradizionale nel nome dell’espressionismo di rottura, libero ed eslege, che fa del canto assenza di melodia, lacerazione emotiva, interno struggimento fino alla macerazione. […]
E, infine, il lato esplosivo del più grande genio del nostro tempo: la Sacre du printemps, scandalo parigino dei Champs-Elisées 1913 e veramente cavallo di battaglia di Boulez in edizione esatta e ribelle a un tempo, densa di dettagli poliritmici sconcertanti e travolgenti, cosmica nel pullulare di barbariche impennate, di sismici bollori, di potenti, terrificanti virate. La bacchetta ne aveva il magico dominio, ma insieme suggeriva incantate vibrazioni, risonanze diafane, debussyane trasparenze. Il rito pagano rigurgitante e scatenato non trascurava opalescenti finesses, che hanno dato l’intera misura di una completa assimilazione della partitura, fra scroscianti applausi”.
(Renzo Bonvicini, Che meraviglia: Boulez e l’Orchestra di Francia, Il Tempo, 2 luglio 1989)
“Non sembra credibile, ma i Sei pezzi op. 6 di Webern sono del 1909. E nella versione del 1909 li ha eseguiti Boulez (esiste una versione successiva, del 1928). Non è tanto l’aspetto aforistico, quanto la concentrazione d’invenzione musicale. Mezzo secolo di musica c’è già in queste sublimi pagine, che tutte insieme non superano la durata di 12 minuti. Ma lo sguardo può essere vertiginoso, a chi guardi con gli occhi della memoria storica: si va, in fondo, da Isaac al Novecento, a Boulez, al direttore che le interpreta.
Il pensiero, la folgorazione intellettuale, la condensazione dell’emozione in un’immagine di cartesiana precisione, la violenza che conosce il vero rappresa in un attimo di inaudita intensità espressiva, tutto ciò sta scritto sulla partitura e si ascolta, 80 anni dopo, sotto la guida delle bacchetta di Boulez, il quale, non lo si dimentichi, come compositore ha la stessa statura dei musicisti che interpreta a Villa Medici, è, in questa seconda metà del secolo, quello che nella prima metà è stato Webern. Con un di più: che possiamo ascoltarlo dirigere”.
(Dino Villatico, Ascoltate Boulez!, la Repubblica, 2 luglio 1989)
“In tanta “babele” di stili, linguaggi e poetiche, l’unico gesto autenticamente, quasi autoritariamente unificatore è stato quello, come sempre densissimo e lucido, di Pierre Boulez. Quando sale sul podio del direttore il musicista francese sembra ancora assai vicino a quel “radicalismo analitico” che predicava e praticava, come compositore, fin dagli anni dei suoi esordi. La klangfarbenmelodie (melodia di suoni e colori) schoenberghiana è stata puntigliosamente scomposta in tutti i suoi elementi costitutivi, come un raggio luminoso attraverso un prisma (anche se al rigore stilistico di Boulez non ha giovato la voce scialba di Birgit Finnilä); il discorso crudamente aforistico di Webern è risultato ancor più puntillistico e “dissociato” (complice, forse, l’acustica “buia” dei giardini di Villa Medici); l’impeto sonoro del Sacre è rimasto imprigionato in una gabbia di regolari geometrie ritmiche che ne hanno disarmato la “storica” violenza espressiva. Solo le grida lancinanti delle sirene di Varèse sono riuscite a squarciare la tela bianca e neutrale su cui Boulez stende il suo imperturbabile intreccio analitico.
Strumento dolcissimo e impeccabile nelle mani del direttore francese è stata l’Orchestre National de France, schierata al gran completo per sostenere le esorbitanti richieste numeriche delle partiture”.
(Guido Barbieri, Boulez all’ombra della Rivoluzione francese, Il Messaggero, 11 luglio 1989)
“Punto culminante del concerto e, conclusivo, Le Sacre du Printemps (1913). “Stravinskij rimane”, aveva scritto Boulez (capovolgendo le posizioni di Adorno), il quale ha confermato il suo radicato entusiasmo per questo capolavoro, volendo puntigliosamente, e luminosamente, confermare – ne è stato sempre convinto – che questa musica “vale più di tutti gli elogi di cui è stata subissata” (è questa la sua convinzione). Esecuzione imponente, “polistrutturale”, globalmente mirante ad esaltare la sintesi di timbro e ritmo. Festosissimo il successo, con Boulez poi lungamente acclamato dal gran pubblico con la “sua” meravigliosa orchestra”.
(Erasmo Valente, Sia lode a Schönberg, parola di Boulez, l’Unità, 2 luglio 1989)
“Boulez era alla testa dell’Orchestra Nazionale di Francia, una compagnia salda e professionalmente ineccepibile, che, soprattutto in Varèse, ha prodotto sonorità straordinariamente pulite. Boulez è direttore scarno e rigoroso, soprattutto attento alla struttura ed alla razionalità implicita o esplicita dei brani che dirige. Un illuminista, più che un rivoluzionario, per restare nel tema 1789. […]
Boulez, pur nel rigore ritmico e timbrico, non sembra aver trovato la chiave giusta per rendere le sonorità stravinskiane. Tempi a volte troppo alleati, eccessi di razionalismo, forse una sostanziale non congenialità, hanno prodotto una Sagra tutto sommato non esaltante.
Molti applausi, comunque, per l’orchestra e per il suo direttore, considerato a giusta ragione uno dei più grandi compositori d’oggi”.
(Elena Grillo, Boulez, moderatamente rivoluzionario, Avanti!, 1 luglio 1989)
LE SACRE DU PRINTEMPS
Musica di balletto su tema di Nicolas Rörich, commissionato per i Balletti Russi da Sergej Diaghilev.
Andò in scena il 29 maggio 1913 al Teatro degli Champs Elysées, l’orchestra era diretta da Pierre Monteux, la coreografia di Nijinskij.
Le Sacre du Printemps, un quadro della Russia pagana, frammezzato da un concerto di piano che diviene, grazie ai suggerimenti di Diaghilev, una evocazione della festa popolare della Settimana grassa sulla piazza dell’Ammiragliato di San Pietroburgo e del dramma del personaggio più celebre del teatro delle marionette, Petroschka (1911) che celebra il trionfo di Nijinskij.
Lo scandalo di Le Sacre du Printemps (1913) al Teatro dei Champs-Elysées, scandalo senza dubbio più coreografico che musicale tenendo conto del successo della sua esecuzione l’anno successivo, proietta Stravinskij (1882 – 1971) in primo piano; diventa, insieme a Schönberg, in un’ottica completamente differente, il simbolo del musicista rivoluzionario. […] L’Orchestra di Le Sacre du Printemps è una estensione dell’orchestra sinfonica classica, centrata non sugli archi ma su una grande abbondanza di legni e di ottoni e su un numero relativamente ridotto di percussioni.
Quello che conta non è quindi la corruzione dei nuovi timbri, ma la maniera in cui tutta la musica si organizza intorno al ritmo […]. Una estrema raffinatezza delle forme che non viene percepita come “sofisticazione” ma come intensa e affannosa vita ritmica.
Allo stesso tempo la politonalità, che si incontra spesso nell’opera, non è un gioco di scrittura, ma produce un effetto “primitivo” come una sovrapposizione di strumenti non accordati, senza intaccare un potente sentimento di affermazione tonale e diatonico. Un capolavoro di vitalità, ricco di prodigiosa inventiva.
Michel Chion
AMERIQUES
Non fu seguace della tradizione né la contraddisse con accanimento, semplicemente l’ignorò, anche se nella sua musica se ne trovano delle tracce.
Fu il primo a voler fare una musica con dei suoni e non con delle note, e si può dire che se l’elettronica fosse esistita nel 1916, sarebbe stato il solo musicista capace di servirsene. Il suo dramma fu che le sue idee e la sua poesia hanno preceduto di trenta anni le scoperte della tecnologia. Dal 1915, Varèse (1883 – 1965) comprese che l’impero sonoro poteva estendersi al di là dei limiti tradizionali e ricercò oltre che suoni straordinari anche nuovi mezzi tecnici. Dovette aspettare venticinque anni per realizzare delle opere su nastro estendendo le frontiere del mondo sonoro, rimettendo in questione il temperamento e la distinzione fra suono e rumore, ponendo il problema di un nuovo tipo di ascolto e di spazialità del suono. Impiegò gli strumenti tradizionali in una maniera inusitata, violentando la loro natura. Inventò lui stesso degli strumenti: un tamburo africano, una macchina a vento. La sua fu un’opera di anticipazione dal momento che per Varèse, “la musica di domani sarà spaziale, i suoni daranno l’impressione di descrivere delle traiettorie nello spazio, di situarsi in un universo sonoro in rilievo” […].
M.C. Le Mugnan-Mussat, Marc Vignal
AMERIQUES (1920-1921)
Inno al lirismo violento e alla solitudine dell’universo industriale moderno.
Eruzione colossale di musica, Amériques è scritta per un’orchestra di 125 musicisti […]. Le percussioni occupano uno spazio di primo piano e appaiono in differenti momenti allo scoperto. Non si può parlare di forma classica, dal momento che l’unità dell’opera è dovuta, essenzialmente, alla permanenza degli intervalli del motivo iniziale, assegnato al flauto in sol: questi intervalli evitano le consonanti classiche. Globalmente una mezza dozzina di temi si succedono e si contrappongono […] Alcune discrete reminiscenze dell’impressionismo sono testimoni della sua ammirazione per Debussy, ma sono le esplosioni di violenza, immagini del Varèse duro, urbano, industriale che dominano. Il linguaggio ritmico, sebbene ispirati da quello della Sacre du printemps, obbedisce a degli impulsi ben differenti: “Interruzioni improvvise, intensità interrotte bruscamente, crescendi e decrescendi estremamente rapidi producono un effetto di pulsazione, di una vitalità che emana di da mille fonti” (Varèse).
Lo scalpiccio furioso dell’orchestra, simile ai colpi di un maglio, schiaccia, senza difficoltà le urla di dolore della sirena.
Marc Vignal
SEI COMPONIMENTI OPUS 6
È l’unica opera per grande orchestra composta da Webern (1883 – 1945).
Insieme ai pezzi dell’Opus 5, sono quelli che più facilmente hanno conquistato il pubblico tradizionale.”Si può forse dire”, afferma Boulez, “che Webern non è mai stato altrettanto seducente, e non lo sarà mai di più; dal momento che lo charme barocco, nel senso stilistico di questa parola, che emana da questi pezzi costituisce un fenomeno del tutto transitorio nell’opera di Webern che in seguito tenderà verso un rigore non meno bello, ma meno direttamente intellegibile”. Questo “charme barocco” dipende soprattutto dalla maniera in cui Webern utilizza i timbri dell’orchestra, scrittura strumentale molto particolare che si manifesta così per la prima volta nella storia della musica e che avrà una grandissima discendenza: le ricerche sonore degli eredi di Webern dopo il 1945, ed in seguito il manierismo che ne deriverà negli anni 50 e 60, hanno la loro origine nei pezzi di Opus 6.
Se, secondo Pierre Boulez, “Anton Webern è l’iniziatore della musica moderna”, è proprio con i Sei componimenti per orchestra Opus 6 che questo comincia ad essere determinante.
Claude Rostand
Dedicati al suo maestro ed amico, Arnold Schönberg, questi brevi pezzi rivelano da un lato l’influenza schönberghiana – soprattutto nella condensazione espressionistica delle sonorità – ma nello stesso tempo continuano la via personalissima dell’individuazione timbrica e tematica weberniana. Originariamente composti per grande orchestra, vennero successivamente ridotti ad un organico più limitato
Giacomo Manzoni
(in Guida all’ascolto della musica sinfonica, Milano, Feltrinelli, 1967).
Crediti
Musica Edgar Varèse (Ameriques), Arnold Schönberg (4 Lieder con orchestra Opus 22), Anton Webern (6 pièces per orchestra Opus 6), Igor Stravinskij (Le Sacre du printemps)
Direzione musicale Pierre Boulez
Ensemble Orchestre National de France
Solista Birgit Finnilä