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Teatro Sistina
dal 10 all'11 luglio 1997
25romaeuropa.net

Balletto dell'Accademia Reale Khmer

Ballettokhmer


Photo © Piero Tauro
Ballettokhmer

Una ballerina per dimenticare Pol Pot OUVERTURE MUSICALE; DANZA DELLE APSARA; DANZA DI BRAMA; DANZA DELL’ENSEMBLE DI TEP MONOROM; RAMAYANA

Ensemble Balletto dell’Accademia Reale Khmer
Maestra di danza Sam Onn Soth
Depositario della tradizione coreografica Chhieng Proeung
Costumi Kim Sieng Lim, Muntha Sim, Samadekchho Sin
Interpreti (danzatori) On Bouth, Siphath Chap, Thyda Chum, Sokhary Doeur, Nala Him, Phoeunnery Hul, Pen Hun, Nika Kang, Kunthea Ken, Bunthom Kim, Solichomnit Ouk, Sok Houn Pen, Sockea Pen, Navin Phan, Sokhannarith Pring, Bun Chan Rana Pum, Siphal Ros, Yaran Ros, Sathya Sam, Pily Sao, Sophea Sek, Say Soeur, Thavarak Soeur, Sakhan Sok, Sokhoeun Sok, Sen Tith, Savay Voan
Interpreti (cantanti) Sopheap Nosey, Theay Em
Interpreti (musicisti) Kong Chum, Pruon Proeung, Soboun Nol, Son Ek, Tat Sum
Durata 80 minuti

Nato con il compito di mantenere in vita la tradizione della danza classica di corte, risalente addirittura al 500-600 dopo Cristo, il Balletto dell’Accademia Reale Khmer ha resistito clandestinamente alla furia distruttrice di Pol Pot ed a partire dal 1993, con il ritorno del re Norodom Sihanouk e di sua figlia, la principessa Bopha Devi, ha recuperato in pieno il proprio patrimonio millenario e l’autorevolezza istituzionale che gli spetta.
Le coreografie sono codificate attraverso una serie antichissima di gesti e la fonte di ispirazione principale rimane il Ramayana, poema epico indiano su cui si basa, in diverse declinazioni (la versione cambogiana è denominata Reamker), gran parte del teatro-danza del sud-est asiatico.
Lo spettacolo in scena al Romaeuropa Festival si apre con una breve Ouverture, seguita da una Danza delle Apsara, le danzatrici celesti che ancora si possono vedere scolpite sul tempio di Angkor Wat; il momento successivo è rappresentato dalla Danza di Brama, un assolo di carattere rituale destinato ad augurare felicità e prosperità alla nazione, mentre per dieci danzatori è concepito il brano successivo, il Tep Monorom, una delle forme più antiche dello stile classico, danzata in occasione di cerimonie solenni o per dare il benvenuto ad un ospite degno.
Il gran finale spetta al Ramayana, con tutta la compagnia in scena a rivivere le leggendarie gesta del principe Rama e di sua moglie Sita.

UNA BALLERINA PER DIMENTICARE POL POT
di Laura Putti

La danza è l’anima della Cambogia. La sua storia, la sua tradizione. Lo dice la principessa Bopha Devi, figlia prediletta di re Sihanouk. È una donna minuta ma solidissima, e una gentile padrona di casa nel teatro all’aperto della reggia, dove la incontro durante le prove del Balletto Reale Khmer, di cui lei è la responsabile. Lo è per capacità atletiche: in passato, prima che i khmer rossi smembrassero la Cambogia, la principessa è stata una straordinaria ballerina. E, come figlia di re, lo è anche per diritto divino.

Il teatro è un grande terrazzo coperto. Fiancheggia la residenza ufficiale di Sihanouk. Ai suoi bordi si accalcano centinaia di soldati. Guardano le danzatrici con ammirazione, a bocca aperta come i bambini al circo, nessuno che si permetta uno sguardo di desiderio. Ogni tanto, per un falso allarme, i soldati sciamano via correndo verso l’edificio principale: il re, sorridente e rubicondo a dispetto del male che lo affligge da tempo, uscirà infine dal palazzo, e l’attenzione dell’esercito si distoglierà dalle danzatrici.
La principessa sembra non fare caso a quella confusione, che peraltro avviene in grande silenzio: l’unico suono, oltre alla musica eseguita dal vivo e alle voci dei tre cantanti, è prodotto dai giochi e dalle corse dei due cani pechinesi di Bopha Devi, pettinatissimi, liberi di scorrazzare sul palcoscenico tra le gambe delle ballerine. “Fu mio padre, nei suoi primi anni di regno, a stabilire che le danzatrici potessero uscire dall’harem”, dice la principessa, “prima vi erano tradizionalmente confinate come Apsara, vergini sacre, custodi dei templi. Mio padre consentì che vivessero come tutte le donne, e che danzassero anche per la gente, non solo per il sovrano”.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, Bopha Devi fu la prima figlia di re a poter danzare in pubblico. Oggi, prima del suo arrivo su una Mercedes blu, una vecchia maestra aveva tirato fuori un piccolo album di fotografie e me l’aveva mostrata giovane e bellissima, nel suo prezioso costume di scena.
Racconta la principessa: “Credo di aver ricevuto un dono, al di là della tradizione che vuole che la figlia del re si occupi del balletto”. E aggiunge, senza finta modestia: “Il talento è sempre un dono”. Era poco più che adolescente quando Sihanouk, con clamoroso gesto, le permise di ballare con le altre, davanti al re del Laos in visita.

Nel 1980, all’indomani del genocidio a opera dei khmer rossi di Pol Pot (quasi due milioni di morti su una popolazione di sette milioni), la ricostruzione di Phnom Penh iniziò dal suo Teatro Nazionale. Il primo spettacolo, in quello stesso anno, fu uno spettacolo di danza. Allora non si trattò soltanto di rimettere su un palcoscenico una decina di ragazze dalle dita affusolate e far ripetere loro le antichissime danze tratte dal Ramayana, il poema epico indiano, riprodotte sui bassorilievi dei templi di Angkor. Bisognava ripartire da zero, ricostruire i costumi, tessere le stoffe intrecciate d’oro, trovare artigiani che sapessero come modellare le corone dorate che rendono ancora più alteri i movimenti delle danzatrici. E, soprattutto, bisognava ritrovare le vecchie maestre, le uniche che avrebbero potuto ricordare la foggia dei costumi e le complicate coreografie delle danze khmer. Era questa la cosa più difficile: far rincontrare le persone, ricomporre, dopo quattro anni di massacri, la vita sociale di un paese, la forza della sua tradizione.
La storia del Balletto Reale è, in miniatura, quella della Cambogia. La danza era l’altra faccia del paese: quella dolce, elegante, raffinata, impregnata di un’antica cultura. Bisognava ridisegnarla, per far dimenticare l’altra faccia, quella violenta, sanguinaria, che aveva prevalso negli anni del terrore. Gli anni di Pol Pot.
Tutto fu fatto in grande fretta e con fatica, perché la maggior parte delle danzatrici era stata sterminata o mutilata, e delle insegnanti ne restavano poche: la più importante di tutte, Chea Samy, fu ritrovata nella mensa di un campo di lavoro, della quale si era occupata sotto i khmer rossi. Aveva già 60 anni, e nei cinque precedenti si era ben guardata dal dire che era la responsabile del Balletto Reale. Era succeduta, in questo ruolo, a Luk Khun Meah, favorita del re Monivong, salito al trono nel ’27. Neanche la sua parentela con Pol Pot avrebbe salvato Chea Samy. Ne aveva, infatti, sposato il fratello, funzionario nel Palazzo Reale. Grazie a quel legame familiare, Pol Pot era arrivato a corte bambino. Si chiamava ancora Saloth Sar ed era un bimbo tenerissimo. Così lo descriveva Chea Samy prima di morire, un paio di anni fa. Il futuro capo dei khmer rossi ebbe la possibilità di frequentare buone scuole, e, nel 1949, riuscì ad andare a Parigi con una borsa di studio. E là, a Parigi, cominciarono i suoi folli sogni, là scoprì sui testi di storia la formula che l’avrebbe condotto al genocidio della sua gente: i rivoluzionari, da Robespierre a Lenin, avevano fallito perché non avevano distrutto abbastanza la società che volevano trasformare. Lui non avrebbe ripetuto l’errore. Il suo delirio, forse, era alimentato proprio dall’avversione profonda per quel mondo, ai suoi occhi corrotto, in cui aveva vissuto da ragazzo, negli anni trascorsi nel palazzo reale. Tra cortigiani e danzatrici. Possibile che in mezzo a tanta eleganza e raffinatezza avesse covato il suo odio? La principessa, ovviamente, glissa. Non vuole sfogliare quel capitolo della storia cambogiana. Conferma i legami familiari del “Fratello numero uno” (così era chiamato Pol Pot dai khmer rossi), ma dice di non avere le idee precise sull’argomento. Ricorda Luk Khun Meah, la prima ballerina, che fu una delle sue maestre, e così Chea Samy. Per forza di cose, le perse di vista.

L’esilio della principessa è durato quasi vent’anni. Adesso, davanti al palcoscenico, dirige le prove in maniera piuttosto energica: con un gesto ferma la musica e, in segno di riverenza, le tre cantanti e gli strumentisti uniscono le mani sul petto, abbassano la testa e si chiudono come boccioli di rosa. Nessuno osa guardare Bopha Devi negli occhi: in Cambogia i re e le loro famiglie sono come divinità. Una maestra viene mandata sul palco a correggere i movimenti delle mani che, come per le danze thailandesi e per quelle indiane, sono delicati e complicati. Le mani delle ragazze sembrano respingere l’aria, i polsi sono molto snodati, le dita si piegano all’indietro fin quasi a toccare gli avambraccio. Le gambe sono sempre leggermente piegate e questo sforzo continuo dà alle ballerine cosce dure e glutei altissimi. Una danzatrice si sceglie soprattutto per l’aspetto fisico, per l’espressività del viso e per la lunghezza e la scioltezza delle mani. Lo dice la principessa. Ed anche per il sorriso, il misterioso sorriso khmer.

Fuori dall’incanto del Palazzo Reale, in città, sulle rive dei tre fiumi che si incontrano a Phnom Penh (il Mekong, il Tonle Sap, il Bassac), il panorama umano è, a tratti, crudele. Le ferite della guerra civile, del massacro, della fame che ne seguì, sono ancora evidenti vent’anni dopo. Non sono pochi i ragazzi amputati, senza un braccio o una gamba. Li hanno perduti raccogliendo nel campo vicino casa, sulla sponda di un fiume, o nella foresta, quelli che pensavano fossero giocattoli, e che invece erano baby-trap, piccole mine disseminate dai khmer rossi per ricordare la loro demoniaca presenza. Ed è impossibile non pensare a quelle mutilazioni, a quegli arti mancanti, guardando le gambe e le braccia e le mani delle ballerine che volano nella penombra del teatro (si calcola che 35 mila persone siano saltate sulle mine negli ultimi 20 anni; ancora oggi la media è di 300 amputati al mese).
Le ragazze cambiano espressione con lo sguardo o con movimenti del collo: niente è plateale, i sentimenti sono appena accennati eppure lo spettatore li percepisce perfettamente. La prima ballerina è terrorizzata quando Hanuman, scimmia guerriera, le gira intorno, ma è piuttosto divertita quando il Gigante la provoca; è maliziosa quando il Principe la corteggia. Le donne, per le strade di Phnom Penh, hanno le stesse espressioni delle ballerine e, con dovute differenze, gli stessi movimenti minimi e aggraziati. Camminano con il busto dritto lungo le rive del Mekong, le spalle ferme sotto il peso del bastone dalle cui estremità pendono secchi. Sono solo più magre.
Le danzatrici del Balletto Reale non soffrono la fame, non sono esangui come quelle occidentali. E quando diventano troppo robuste sono pronte per i ruoli maschili: il Principe o il Gigante. L’unico ancora interpretato da un uomo è il ruolo di Hanuman la scimmia, che è atletico, scattoso, folle. Proeung Chhieng è stato il grande Hanuman, forse il più grande di tutti. Quando cominciò aveva otto anni. Oggi potrebbe averne un po’ più di quaranta. È il direttore del dipartimento danza dell’Accademia delle Belle Arti. All’inizio degli anni Settanta, dopo il colpo di Stato (repubblicano) del maresciallo Lon Nol, fuggì dalla Cambogia con la famiglia reale; visse a Pechino, poi nella Corea del Nord. Tornò nel ’78 quando i khmer rossi richiamarono gli esuli, quando il regime sembrava volersi ammorbidire. Non fu così e Chhieng riuscì a salvarsi ripetendo, nel campo di lavoro, i movimenti folli di Hanuman. Lo presero per pazzo e lo lasciarono stare. Sarà lui, il 10 e l’11 luglio, ad accompagnare il Balletto Reale Khmer nel suo debutto italiano, ospite del Festival Romaeuropa.

(in “la Repubblica”, 14 aprile 1997)

Rassegna stampa

“È una danza, quella cambogiana, di bellezza fastosa. Prevalentemente femminile, della femminilità ha la suadenza, la sinuosità, la rotondità del segno. Solenne e fatta di sguardi fissi, diversa dalla più rapida e scattosa danza indiana, per certi versi simile alla tailandese, ha una sua grazia infinita, alimentata da una musica e da un canto (femminile anch’esso) cullanti come lusinghe iponotiche. Sontuosa nell’apparato dei costumi e accessori, stoffe intessute d’oro, copricapo dorati che svettano a torre, è apparentemente morbida, lontana dalle tensioni plateali e dalle sfide antigravitazionali del balletto occidentale. Cerca invece il suolo: tanto nei battiti lievi dei piedi nudi a terra quanto nel senso di attrazione verso il basso ispirato dal modo di tenere le gambe, con le ginocchia sempre un po’ piegate. Forse più di ogni altra danza al mondo, la cambogiana esalta il movimento delle mani, mobilissime, parlanti. Mani come creature a parte, come fiori, pesci, uccelli”.
(Leonetta Bentivoglio, Il fascino misterioso delle danze Khmer, la Repubblica, 12 luglio 1997)

“Il palcoscenico del Sistina era illuminato dagli ori, i colori, le sete dei costumi. Nessuna scenografia, ma la scena invasa dalla grazia collettiva delle ballerine. Una levitazione di passi mossi rasoterra più agili di ogni entrechat nostrano. Scoprire che ci sia maggior leggerezza nella deambulazione a piedi nudi sul tallone, che non calzati di apposite scarpette, sulle punte… ahi, quale indescrivibile shock! […] Ma la danza più inquietante era quella della scimmia guerriera, del Principe e del Gigante, i soli ruoli interpretati da uomini. Qui, malgrado l’agitazione del racconto, le simmetrie gestuali non sono mai venute meno. Era un così alto esempio di civiltà estetica e narrativa, da suscitare emozione. C’era una volta il Balletto dell’Accademia Reale Khmer. C’è ancora. Ne potevamo dubitare?”.
(Mya Tannenbaum, In Cambogia con le scimmie guerriere, Corriere della Sera, 12 luglio 1997)

“Assecondati dalla musica dal vivo o da un canto gutturale tipico anche della tradizione cinese, si muovono in ralenti tra metalliche sonorità. Elegantissimi e raffinati i costumi ed i dorati copricapo a pagoda. Elementare l’utilizzo geometrico dello spazio: cerchi ieratici, linee in movimento, triangoli, eleganti processioni, capitoli di rituali senza tempo. Talora lo spunto è offerto da bassorilievi di ninfe divine scolpite sulle mura del Tempio, sacerdotesse e danzatrici reali, vergini sacre depositarie del cerimoniale reale (Danza delle Apsara). Finalizzata a propiziare felicità e prosperità la Danza di Brama, mentre la Danza dell’Ensemble Tep Monorom, filologicamente elaborata, riconduce alle origini della storica tradizione cambogiana: piccoli passi in atteggiamento orante con quella solennità degna delle grandi occasioni. Restano però l’estreme leggerezza e serenità dei movimenti, la semplicità della strutturazione coreografica, un senso profondo di armonia che è interiore ed esteriore insieme”.
(Lorenzo Tozzi, Le danze della principessa per dimenticare il terrore, Il Tempo, 14 luglio 1997)