Oltre ad eseguire opere di autori del Novecento, l’Ensemble Intercontemporain, complesso strumentale nato precisamente per dar voce, interpretazione e studio alla musica contemporanea, spesso crea o commissiona nuove produzioni: il suo repertorio è così diventato nel corso degli anni un appassionante viaggio tra le creazioni del XX secolo ed una continua scoperta di giovani compositori.
A questa tensione si ascrivono le opere presentate in questa occasione dall’Ensemble.
Se Stanze, firmata da Pascal Dusapin, trova il suo motore creativo nell’energia che può scaturire dal corpo dei musicisti nell’atto di produrre o creare il suono, Les Chants Faëz di Gérard Pesson si ispira ad una raccolta di racconti di Claude de Taillemont (1558), di cui conserva l’impianto narrativo nonché la struttura semiotica. Sempre ispirato ad un lavoro narrativo – una raccolta di Georges Pérec, dal titolo Alphabet – è Rumeur, la composizione di Claire Schapira che dell’opera dello scrittore ripropone, per analogia, il codice testuale. Un alternarsi tra una situazione statica ed una dinamica è alle fondamenta di Chord di Ivan Fedele, mentre Frédérick Martin basa il Concerto per trombone e 28 strumenti sulla contrapposizione del solista alla collettività strumentale.
Il repertorio presentato, nei suoi diversi punti di origine, ha voluto offrire un percorso attraverso una musica che fa del suono un principio denso di significati, una musica per cui la parola e la nota si saldano in una struttura che assume valore.
Direttore Frédéric Chaslin
Interpreti (Ensemble Intercontemporain) Jacques Deleplancque (corno in fa), Antoine Curé, Jean-Jacques Gaudon (tromba in Ut), Jérome Naulais, Benny Sluchin (trombone), Gérard Buquet (tuba), Pascal Godart (pianoforte), Marie Kobayashi (soprano)
Musica Pascal Dusapin (Stanze), Gérard Pesson (Les Chants Faëz), Claire Schapira (Rumeur), Ivan Fedele (Chord), Frédérick Martin (Concerto per trombone e 28 strumenti)
UNA NOTA SU LES CHANTS FAËZ
di Gérard Pesson
Les Chants Faëz è un concerto per pianoforte ed orchestra da camera nel quale il ruolo del solista cresce progressivamente, catalizzando tutta la materia musicale e facendola finalmente entrare nel filtro del proprio gioco – come fosse il suono di un clavicembalo (senza pedale forte) – nella diffrazione dei timbri. Il pianoforte sembra aspirare ad una seconda tastiera, che esso riesce ad evocare con dei motivi ornamentali, suonati sempre pianissimo e staccati. La posta in gioco dell’opera, e la sua divisione formale, sono pensati in funzione di questo capovolgimento della scrittura strumentale, che avviene dopo una parossismica immobilità nel registro dei sopracuti. Chants Faëz, significa, in francese medioevale, “canto abitato dalle fate”. Il titolo è tratto, con variante semantica da “campi” (champs) a “canti”, da un libro di racconti neo-platonici di Claude de Taillemont (1558) che l’autore presenta come un “discorso all’esaltazione delle dame e dell’amore”. Nel libro tra “conversanti” (alla maniera del Decameron), ogni personaggio, dovendo raccontare la propria storia si trova in qualche modo impedito nel suo racconto. La musica non è affatto una trascrizione del libro; ne imita piuttosto, direi, la forma e le procedure narrative. Al particolare lirismo dei Chants Faëz, fatto di vuoti più che di pieni, corrisponde forse un soggetto perennemente assente, la cui stessa assenza induce una certa dispersione del discorso, dei timbri, una strumentalizzazione del silenzio.
UNA NOTA SU CHORD
di Ivan Fedele
Chord vuole essere la metafora di un intreccio tra due rappresentazione contrastanti, ovvero di un passaggio continuo da una situazione statica ad una dinamica e viceversa, attraverso modalità di condensazione / contrazione in un senso, e di diluizione / dilatazione nell’altro.
Chord si manifesta come un campo di forze che si attraggono, si respingono, o ancora, trovano un equilibrio nell’equidistanza da un riferimento comune. Questa raggiunta “non interferenza” si cristallizza in quelle ricorrenti “isole” formali in cui l’iterazione è l’elemento ordinatore che le connota come “rituali”.
UNA NOTA SU CONCERTO PER TROMBONE E 28 STRUMENTI (CICLO II – C)
(Commissione dell’EIC)
di Frédérick Martin
Al Concerto per clarinetto e 10 strumenti (1983), eseguito dall’Ensemble Itinéraire lo scorso luglio a Palazzo Farnese, e a quello per violino e 18 strumenti (1985), segue il Concerto per trombone e 28 strumenti, composto tra settembre 1988 e novembre 1990. In quest’ultimo emerge la figura dell’individuo-solista il cui lavoro sarà quello di confrontare la propria autorità a quella della collettività orchestrale.
Ho scelto un legno per rappresentare un solista che nasce allo stato di canto nel primo brano, e uno strumento a corda per la mediazione tempestosa del secondo: sguardo dell’uno sulla contestualità del multiplo. Il ruolo del trombone nel ciclo consiste nell’imporre una voce unica ad un gruppo, il che si traduce, nella forma generale, con un incremento della ripetitività delle masse sonore e degli oggetti in relazione ai due brani precedenti. Il superamento della ripetitività alla fine del Concerto per trombone fa eco al superamento della condizione di essere un elemento nella collettività, superamento che segna la fine del Concerto per clarinetto. Nell’opera, i timbri sono strutturati in sei gruppi di cui quattro omogenei e due eterogenei. L’uno sta per un’orchestra ridotta: flauto, fagotto, percussioni e trio d’archi; l’altro, sassofono baritono corno e contrabbasso, è trattato in “semi-solista”, e serve a volte da interprete tra solista e complesso. Il solista non si rivolge quindi a quel mondo che crea le proprie percezioni, in modo univoco, ma inventa la propria materia a seconda del sottogruppo al quale si rivolge, il che non esclude la presenza d’altri, o forse di nessuno.
Il discorso si elabora direttamente “attaccato” al Concerto per violino, come una deriva nelle sue ultime azioni. D’altronde i due Concerti sono vincolati durante l’esecuzione globale del ciclo – introducendo il trombone e i “semi-solisti”, per poi ritornare a quelle azioni ed al loro re-inserimento in un dispositivo ripetitivo che il solista frantumerà. Avendo così acquisito il precedente della propria validità, egli orienta l’orchestra verso la fusione di tutti i timbri, intervenendo sporadicamente nel flusso della musica.
Una volta compiuta questa fase di una voce singola che riusce ad unire la massa in un suono globale che le sia proprio rispetto a tutta l’opera di musica, certi elementi importanti del contenuto del ciclo da camera, Cycle I, saranno di nuovo utilizzati ed amplificati – considerando che il numero degli strumenti è notevolmente accresciuto ed intensificato, considerando che la responsabilità formale di quegli elementi emerge. Dato che a posteriori essi richiamano un’attività di tipo collettivo nel cuore di un ciclo in cui le distinzioni solista/ensemble non devono ancora manifestarsi, li estraggo appunto dall’unico pezzo del Cycle I che si rapporti ad una forma storica, il Quartetto per archi, essendo i collaterali di questo quartetto, Closer, due brani per uno strumento a due per ensemble originali.
UNA NOTA SU RUMEUR
di Peter Szendy
Rumeur, per voce soprano amplificata, flauto in sol, pianoforte, violino, alto e violoncello (1986), s’ispira, nella sua composizione, ad undici poemi della raccolta di Georges Pérec: Alphabets. Pérec ha sperimentato varie forme di costruzioni letterarie che si potrebbero paragonare alla scrittura “rigida” o “obbligata” dei musicisti. (Ricordiamo La Disparition, testo nel quale la lettera E non appare mai). In Alphabets, Pérec si è fissato un certo numero di regole molto vicine alle tecniche dodecafoniche; nella presentazione della raccolta, egli scriveva: “ogni verso utilizza una stessa serie di lettere diverse, una specie di scala, le cui permutazioni produrranno il poema secondo un principio analogo alla musica seriale: non si deve ri-utilizzare una lettera prima di aver esaurito tutta la serie”. Quando il testo è cantato, l’ascoltatore percepisce chiaramente la frequenza inusuale di certi fonemi; in Rumeur, ogni frammento acquista un vero timbro consonantico. Nella musica quel codice testuale così pregnante si scompone. I vari poemi vengono frantumati, mischiati, e a quei frammenti si associano spesso motivi musicali ricorrenti, a volte trattati in modo… seriale! Strappato dal suo supporto naturale – la pagina e la sua composizione tipografica – il testo si ritrova sottoposto alla prova del tempo. Nell’ultima sezione della partitura, la cantante, rimasta sola, ostenta quel lavoro di erosione della parola: si ferma, esita, “tenta di ricordarsi”, si affanna, procede “a stento” come se ritrovasse solamente frammenti di memoria… Dall’omissione di certe sillabe, nascono nuove parole e il “furore” dell’incertezza si trasforma in esultanza: il piacere dell’oblio provoca una “violenta gioia”.
UNA NOTA SU STANZE
(Diade per quintetto di ottoni commissionato dell’EIC)
di Pascal Dusapin
Stanze:
in italiano, plurale di “stanza”. Eppure, foneticamente, la e finale rimanda al significato letterario della parola francese stance (al singolare).
Stance:
in francese, nome dato, a partire dal ‘500, a una forma di poesia lirica d’ispirazione grave (religiosa, morale, elegiaca) composta da un numero variabile di strofe, generalmente di tipo omogeneo.
Diade:
(Filosofico): Unione di due principi che si completano reciprocamente. (Biologico): Insieme di due cromosomi, l’uno di origine paterna, l’altro di origine materna, la cui separazione è alla base della disgiunzione del carattere ereditario. (Geo-politico): frontiera che separa due stati. Queste due “diadi”, composizioni (“stanze”) per quintetto di ottoni, sono dedicate ai miei figli gemelli, Alice e Théo, per il loro secondo compleanno.