Il continuo travaso d’idee tra arti plastiche e teatrali che caratterizza il lavoro di Jan Fabre prende vita in Il Tempo preso in prestito: una mostra e al tempo stesso un punto di osservazione privilegiato sul laboratorio dell’artista belga, un percorso attraverso i suoi spettacoli visti con gli occhi di celebri fotografi come Carl De Keyzer, e Robert Mapplethorpe, Jorge Molder, Helmut Newton….
Dice Fabre: “La fine di uno spettacolo assomiglia a un corpo la cui anima parte per vagabondare tra i corpi del pubblico”. Un’anima che può far rivivere il proprio corpo in modo diverso, con una triangolazione che dal tavolo da disegno e da lavoro dell’artista arriva fino alle fotografie d’autore. Nel teatro di Fabre è soprattutto l’interprete a diventare strumento di sperimentazione, per la costruzione di significati e per una ricerca del senso stesso del teatro. La valenza ludica o metafisica, scioccante o commovente della presenza corporea degli attori, trova la sensualità statuaria dell’obbiettivo di Mappelthorpe, il gioioso, geometrico e ricercato edonismo degli still life di Newton, la vivacità della sala prove e del laboratorio teatrale negli scatti di De Keyzer, l’irrequieto movimento della scena in Molder. Scatti d’autore caratterizzati da sguardi molto diversi tra di loro, da cui emerge sempre inconfondibile il segno di Fabre, per quanto visto da prospettive molto distanti. È un segno che troviamo ancor più chiaramente in una serie di disegni, modellini e bozzetti dello stesso Fabre. Partendo da uno dei primi spettacoli, The power of theatrical madness (1984), nella mostra sono esposte una serie di opere che si articolano lungo vent’anni per giungere fino al recenti Requiem for a metamorphosis (2007). In molti casi quindi si tratta di opere autonome, interessanti di per sé, e da cui Fabre ha poi preso spunto per suoi lavori teatrali, secondo un’estetica della bellezza e della metamorfosi che attraversa tutta la sua opera. Una crescente tensione anima il percorso espositivo, dove l’immaginazione caotica dell’artista belga, con le sue pieghe derisorie e scioccanti, appare come il mezzo per innescare nel pubblico quel processo che più di duemila anni fa Aristotele definiva “la catarsi”. Tra disegni, bozzetti per le scene, fotografie, Il tempo preso in prestito è tempo sottratto alla messa in scena, una metamorfosi ultima di fine spettacolo, un modo per farne deflagrare l’anima una volta di più.