Realizzato originariamente in coproduzione con la Maison de la Culture di Grenoble e il Festival di Avignone, lo spettacolo sintetizza i due episodi di Mammame, Le désert d’Arcadie e Les enfants qui toussent, ed è il biglietto da visita con cui Jean-Claude Gallotta, enfant terrible della nouvelle danse francese, si è presentato a Roma. Grazie alla Compagnia Emile Dubois, che il giovane coreografo dirige fin dalla sua nascita, nel 1979, Gallotta porta alla ribalta una danza anarchica ed iconoclasta, che risente volutamente di una mancanza di studi classici e obbedisce ad un linguaggio quotidiano e surreale al tempo stesso: “Ho immaginato – afferma lo stesso Gallotta – che in un deserto dell’Africa del Nord i tedeschi abbiano lasciato dei bambini, i quali crescono insieme nello stesso territorio, senza memoria. E il loro viaggio è il tentativo di ritrovare la visualità perduta. I personaggi sono come i bambini che cercano di sollevarsi e poi cadono di nuovo. Qualcosa a metà tra gli uomini e gli animali”” (in Valeria Fortini, I “ragazzi selvaggi” di Gallotta, “Corriere della Sera”, 6 luglio 1987).
La scenografia spoglia e le musiche, eseguite per solo pianoforte dal compositore Henry Torgue, amplificano il carattere essenziale e apparentemente improvvisato dello spettacolo, la cui semplicità, unita alla capacità di inquietare lo spettatore, vorrebbe rappresentare, secondo il suo stesso autore, una vera e propria “rivincita di Kafka”.
Rassegna stampa
“C’è Gallotta, il coreografo che non ha mai voluto imparare a ballare, clown sbilenco alla Jacques Tati: punteggia i suoi spettacoli di repentine apparizioni matte, piccoli interventi esilaranti. E c’è un gruppo di ballerini strani, una decina. Strani perché “diversi”: gambe troppo lunghe e segaligne oppure troppo corte e tornite; barbetta e occhiali da impiegato (è il caso di Robert Seyfried, che tra l’altro ha trascorsi da ingegnere), pancette pronunciate e persino molli, tecnica di danza fumosa e approssimativa, soprattutto nel caso degli uomini; donne non belle, spesso fuori misura per altezza o altro, ma sempre molto “vere”, tra cui una dottoressa con tanto di laurea in medicina, Mathilde Altaraz, una bruna forte di gambe e densa di humour.
Strani, insomma, perché troppo “umani”, troppo “normali”, troppo somiglianti a noi comuni mortali: distanti dall’estetica del danzatore, quella che esige il corpo dalla linea pura e svettante, il muscolo atletico, l’illusoria assenza di forza di gravità. Proprio per le sue “anomalie”, la banda di Gallotta può fare l’effetto, di per sé sola, di una furiosa provocazione”.
(Leonetta Bentivoglio, Matte colorate danze, la Repubblica, 9 luglio 1987)
“Iconograficamente gli Emile Dubois escono prepotenti dalla ricca tradizione figurativa degli “uomini qualunque” del fumetto francese, che ha in Rintintin il suo modello internazionalmente più noto ma in disegnatori come il rabelesiano Albert Dubout punti di riferimento più sottili e ironici.
[…] Per loro Gallotta inventa uno stile che è quanto di più originale e compiuto la “nouvelle danse” ci abbia sinora offerto. I suoi personaggi, danzando, sono insieme ridicoli e veri. I loro movimenti spezzati, molleggiati, buffi e intensi, da film hollywoodiano rivissuto in un desolato camping sul mare (i deserti dell’Arcadia) scimmiottano la vita con la V maiuscola ma proprio in questo scimmiottare la esprimono e vi restano attaccati”.
(Carlo Monotti, Bravò Rintintin, Corriere della Sera, 8 luglio 1987)
“Il ritmo e il dinamismo dell’invenzione, oltre alla dimensione narrativa, caratterizzano il lavoro di Gallotta. Non c’è angolo dello spazio che non sia reso vivo e presente agli occhi di chi guarda, e non c’è emozione e stato d’animo che sfuggano alla cura registica dell’autore. Come in Pina Bausch anche in Gallotta la danza si fa strumento di descrizione di un micro-universo che rimanda continuamente al nostro universo quotidiano. Ma, diversamente dalla Bausch, Gallotta resta fedele ad una espressione in termini di danza. I suoi ballerini ballano dal principio alla fine, e per la riuscita del lavoro ogni più piccolo particolare danzato – dalla punta dei piedi al disegno dell’erbaccia – è curato con meticolosa attenzione come nella più astratta delle composizioni di Cunningham o di Balanchino”.
(Donatella Bertozzi, Il corpo e lo sguardo raccontano la tradizione europea, Il Messaggero, 9 luglio 1987)
Crediti
Coreografia Jean-Claude Gallotta
Ensemble Compagnia Emile Dubois
Musica Henry Torgue
Interpreti Eric Alfieri, Mathilde Altaraz, Muriel Boulay, Cristophe Delachaux, Jean-Claude Gallotta, Pascal Gravat, Déborah Salmirs, Viviane Serry, Robert Seyfried
Produzione in collaborazione con E lucean le stelle e il Centro Ricerche Spettacolo Il Labirinto