Una piccola, ma ricca rassegna musicale, vede avvicendarsi sei artisti provenienti da sei diverse nazioni dell’area mediterranea.
Al gruppo spagnolo Ketama, dall’omonima città marocchina, considerato dalla critica musicale una delle espressioni più interessanti del “nuovo flamenco”, è seguito, in rappresentanza dell’Italia, il gruppo ‘E Zezi, formato da operai, studenti, lavoratori, musicisti, con un repertorio di tammurriate e canzoni ispirate alla tradizione popolare napoletana e nutrito da temi sociali e politici. E mentre il cantante tunisino Lofti Bushnaq, apprezzato per la particolare versatilità vocale, spazia dal repertorio arabo-andaluso della tradizione tunisina (il malouf) alla scuola siriana ed egiziana (del mawwal, del dawr e del muwashshah), Najat Aatabou, una delle voci più rappresentative del Marocco, canta, sia in arabo che nella lingua nativa, la vita e la dura condizione delle donne marocchine, con canzoni che arrivano dritto al cuore. E dall’Algeria, arriva un vero mostro sacro della sana’a, tradizione musicale araba-andalusa, Mohammed Khaznadji, la cui voce virtuosa ed agile ne ha fatto uno dei massimi interpreti della musica maghrebina.
A chiudere infine questo viaggio attraverso la musica mediterranea, il suono delicato del liuto alternato a quello aspro proprio di alcuni strumenti della tradizione popolare egiziana, abilmente interpretato da Georges Kazazian e dal suo Ensemble Sabil.
PROGRAMMA
Ketama
Musica Martinete, Perla y Rubi, Puchero Light, Loko, Ketama, Se Dejaba Llevar Por Ti, Flamenco, Improvisacion, Habichuela En Ronnie Scoots, Vengo De Borrachera, Ke me Debe, Vente Pa Madrid
Interpreti Antonio Carmona Amaya (voce, cajon), Juan José Carmona Amaya, José Miguel Carmona Niño (voce, chitarra), Luis Jaime Dulzaides (percussioni), Luis Miguel Philip Freyre (tastiere), Juán José Ramós Pinera (basso), M. Terésa Pizarro García (voce), Pedro Agustin Sanchez Largo (voce)
In collaborazione con Istituto Spagnolo di Cultura
Villa Massimo, 7, 8 luglio 1994
‘E Zezi
Musica Auciello ro mio, tammurriate, ballate e canzoni ispirate alla tradizione popolare napoletana e ai temi di attualità
Interpreti Gaetano Caliendo (chitarra), Sebastiano Ciccarelli, Salvatore Iosevoli (tammurra), Marcello Colasurdo, Marzia Del Giudice, Matteo D’Onofrio (voce), Antonio Fraioli (violino), Nando Gandolfi (flauti, ciaramella), Massimo Mollo (chitarra, fisarmonica), Emilio Scognamiglio (batteria, percussioni), Francesco Tarantino (mandola, mandolino), Pasquale Volante (contrabbasso)
Organizzazione Angelo De Falco
Villa Massimo, 12 luglio 1994
Lofti Bushnaq
Musica Il Malouf di Tunisi (Nuba al Asba’ Ayn Sama’i, Muwashshah Istikhbar, Inshad, Draj, Khafif, Khatm), la tradizione del Mashreq (Wasla Sika, Sama’i, Muwashshat, La yali, Mawwal, Dawr, Taktouka)
Interpreti Lotfi Bushnaq (voce, ‘ud – liuto), Bechir Selmi, Fathi Zghonda, Abdelmajid Ben Abdallah (violino), Taoufik Zghonda (qanun – salterio), Abdelkerim Ben Halilou (violoncello), Abdallah Trabelsi (percussioni)
In collaborazione con Ambasciata di Tunisia
Villa Massimo, 14 luglio 1994
Mohammed Khaznadji / Ensemble di musica arabo andalusa di algeri
Nuba Mjenba
Interpreti Mohammed Khaznadji (direttore, cantante, mandola), Hacene Benchoubane (snitra – mandolino), Mohammed Behar (kwitra – liuto maghrebino), Ferguene Boudjamaa (qanun – salterio), Zerrouk Mokdad (kamenja – violino), Fatah Saadi (nay – flauto), Belkacem Si Saber (tar – tamburo a cornice), Arezki Saidi (darbuka – tamburo a calice)
Villa Massimo, 21 luglio 1994
Georges Kazazian / Ensemble Sabil
Interpreti Georges Kazazian (‘ud – liuto), Mustafa Abd El Aziz (arghoul – clarinetto popolare policalamo), Nagah Abd El Hamid (mizmar – oboe popolare), Ibrahim Chahin (salameyya – flauto di canna), Chaker Ismail Hafez (rebab – fidula, e violino), Ragab Sadeq (tabla – percussione)
VOCI MEDITERRANEE DA ALGERI, IL CAIRO, CASABLANCA, MADRID, NAPOLI E TUNISI
di Paolo Scarnecchia
Ciò che caratterizza la musica araba e la distingue da quella occidentale – ancor prima della spiccata sensibilità melodica capace di estreme sottigliezze intervallari – è lo spazio di produzione e di esecuzione: la musica è una presenza viva nella sfera domestica e familiare, soprattutto nelle feste private, mentre al confronto scarseggiano le sale da “concerto” e gli spazi pubblici per l’ascolto musicale. Potremmo parlare di una dimensione “privata” della musica come di un tratto ereditario. Ieri i mecenati erano i sultani, i ministri, i mercanti, ed oggi le famiglie, anche le più modeste, celebrano con la musica i propri eventi familiari, circoncisione o matrimonio che essi siano.
Festival a parte, è durante il mese di ramadan che la vita musicale raggiunge il suo picco annuale, ed i concerti si susseguono nelle medine e nei palazzi storici, oltre che nelle abitazioni private.
In altre parole la vita musicale segue strade diverse da quelle dell’ascolto nelle sale da concerto e da quelle dei consumi digitali sofisticati ed estremamente specializzati dei paesi industrializzati.
La partecipazione emotiva è parte integrante dell’esperienza dell’ascolto e l’artista è molto sensibile alle reazioni del pubblico: si alimenta delle emozioni che la sua voce, o il suo strumento, suscitano nella platea, e questa estrema e reciproca ricettività è il segno di una profonda intimità.
La lingua araba possiede una parola – intraducibile – per designare l’emozione dell’ascolto della musica: tarab. Tale emozione sfiora spesso l’estasi ed il termine è divenuto sinonimo di un grado di virtuosismo che solo i grandi maestri possono raggiungere.
Nella letteratura araba classica ci sono molti aneddoti concernenti gli effetti dell’ascolto della musica: pianto, riso, lacerazione delle vesti, estasi, trance, svenimento, fino alla morte. “Se si scoprisse perché gli Arabi hanno sviluppato così fortemente la loro emotività musicale, ciò porterebbe alla luce un aspetto fondamentale della loro civiltà. Il canto arabo mira soprattutto a commuovere o meglio a sconvolgere l’ascoltatore”, ha scritto Gilbert Rouget.
Questo potere però va sempre più attenuandosi e in termini musicali la più grande catastrofe culturale del nostro secolo è quella dell’occidentalizzazione compiuta in nome della modernità e realizzata attraverso l’armonizzazione, il temperamento, e la scrittura di una musica modale e monodica che è arte della memoria e dell’improvvisazione.
Il problema della modernità è un falso problema, poiché nella musica – come in tutta l’arte islamica, dalla calligrafia alla ceramica – la ripetizione creativa e la modularità “caleidoscopica” sono valori universali che rendono di estrema attualità l’eleganza, la raffinatezza, la pregnanza, e la leggerezza di forme tendenzialmente astratte.
L’interpretazione melodica dei più bei versi della poesia araba è il nucleo originario della musica d’arte del mondo islamico, e la sua fioritura di origine medievale è il gioiello di una tradizione giunta fino ai giorni nostri la cui finezza e ricchezza di particolari mostra una sensibilità affine a quella della miniatura. Prendiamo ad esempio il mawwal, termine già in uso nel X secolo, che è l’esaltazione della poesia: i versi del poema sono cantanti reiterando parole e sillabe in un vertiginoso e virtuosistico gioco musicale che lascia gli ascoltatori con il fiato sospeso.
Nel mondo arabo la biografia dell’artista e le parole del critico contano molto meno del repertorio e della voce del cantante. Primato dell’oralità sulla scrittura?
La specificità mediterranea di questa musica è anche tutto ciò, inutile negarlo.
Il repertorio delle suite della tradizione arabo-andalusa (o andaluso-maghrebina) è una delle perle più preziose della musica del Vicino Oriente, ed è stato definito da Mahmoud Guettat “La musica classica del Maghreb”.
Il senso di tale definizione è duplice: da una parte serve a distinguere questa tradizione urbana specificamente maghrebina dalla musica araba egiziana e mediorientale; dall’altra vuole sottolineare la complessità dell’organizzazione e dell’articolazione formale e ritmica delle nubat. Il carattere profondamente unitario dell’alternarsi di brani strumentali e vocali è dato dalla scala modale, la stessa per tutte le parti in cui è suddivisa la nuba, e dai cicli ritmici che procedono secondo uno schema nel quale si susseguono misure binarie e ternarie, attraverso una progressiva accelerazione che tende al raggiungimento di un climax emotivo e psicologico.
Questo repertorio, che è il cuore della tradizione musicale maghrebina, ha origini medievali e nella sua struttura ancora troviamo l’eco di aspetti simbolici che integravano, come in una cosmogonia, la successione dei suoni agli elementi, ai temperamenti, ai colori, alle stagioni, e così via. Si dice che in passato esistesse una nuba, e dunque un modo, per ciascun momento della giornata.
I poemi cantati, muwashshat e zajal, parlano d’amore, della terra andalusa e delle sue città – Cordova, Siviglia e Granada – descrivendone la bellezza, parlano del dolore della diaspora e dell’esilio, del viaggio e del mare, e della nostalgia dei colori e dei profumi perduti. Ogni città del Maghreb ha la sua scuola, le sue varianti ed il suo stile vocale – il malouf di Tunisi, il sana’a di Algeri, e via di seguito – che risalirebbero alla originaria cittadinanza dei musulmani e dei moriscos progressivamente espulsi dalla Riconquista cattolica.
L’Andalusia è un riferimento musicale fondamentale nella geografia sonora del Mediterraneo ed è il luogo dove sono confluite “la disperazione filosofica dell’Islam, la disperazione religiosa dell’ebreo e la disperazione sociale del gitano”, come hanno affermato Carlos e Pedro Caba.
Il flamenco è uno stato d’animo e una filosofia di vita che solo la musica riesce ad esprimere: un grido, un interrogativo, un’allucinazione, una vertigine e soprattutto una ferita della memoria.
Pur non potendo esibire le prove di un rapporto consanguineo con la musica araba, il flamenco, misterioso e inafferrabile, mostra una sensibilità melismatica a fior di pelle. Oggi, tuttavia il dolore e la cupezza della “pena” vengono diluite dalle nuove generazioni di musicisti che sfruttano la sua carica improvvisativa per la creazione di un ibrido, frutto dell’innesto con il linguaggio del jazz e del pop.
Quando si parla del sud del Mediterraneo ci si dimentica spesso che la cultura berbera è uno degli elementi più originali ed antichi di questo crogiolo di civiltà. Oltre all’attaccamento alle radici e al fascino della affabulazione della cultura orale che trova nella musica un’importante forma di espressione, bisogna ricordare che i musicisti berberi sono stati i primi – molto tempo prima della comparsa dell’etichetta merceologica world music – a sperimentare l’incontro tra musica tradizionale e pop music per raccontare, tra l’altro, l’oppressione di una minoranza e il dolore dell’emigrazione.
Tra i paesi arabi il Marocco presenta una grande varietà di tipi musicali che corrispondono alla presenza delle tre culture, berbera, araba e africana. La vocalità berbera è molto diversa da quella araba ed ha un sapore arcaico e misterioso che gli imdyazen tramandano da generazioni e generazioni.
L’originalità e la diversità della musica marocchina consiste da una parte nella convivenza distinta di numerosi generi appartenenti a ciascuna cultura, e dall’altra dalla loro fusione che costituisce un amalgama, secondo differenti gradi di caratura, di elementi così diversi.
Nel Maghreb, pur essendo l’espressione di una minoranza, la musica berbera gode di una grande vitalità creativa ma la sua diffusione nel mondo mediterraneo è limitata dalla arabofonia dei mezzi di comunicazione.
Nel campo della musica si potrebbe parlare di “cairofonia”, tale è stata la centralità culturale della capitale egiziana. Il Cairo è stato il baricentro della vita musicale del mondo arabo. Le compagnie discografiche, l’industria cinematografica, la radio, la televisione, hanno diffuso dall’Atlantico all’Oceano Indiano le voci e i volti dei grandi interpreti e compositori del Novecento. Ma nella capitale egiziana oggi si produce e si ascolta una musica che deve sovrastare il rumore frastornante di una delle più grandi metropoli del mondo arabo.
Persino la musica d’arte si è dovuta adeguare sostituendo al takht di cinque o sei solisti, orchestre di trenta o quaranta musicisti costretti a leggere e a solfeggiare ed impossibilitati o incapaci di improvvisare.
Memoria, immaginazione, improvvisazione ecco i segreti di una civiltà musicale orale che nonostante tutto possiede ancora la capacità di esprimersi anche attraverso il silenzio.
(in Catalogo Romaeuropa Festival 1994)