Nam June Paik, prima ancora di battezzare la sua arte nella New York degli anni Sessanta, scopre il velo sul nuovo continente espressivo nominandolo, in Europa, televisione elettronica: per distinguerla, appunto, dalla televisione ufficiale, che di “elettronico” in senso poetico, politico ed espressivo aveva (ed ha) poco o niente. Paik inaugura così un percorso di ricerca radicale su estetiche, pratiche, dispositivi, linguaggi, programmi, performatività, meccanismi psicopercettivi dell’immagine elettronica e della sua audiovisione a distanza e in simultanea, che lo porterà al primo «paesaggio della tv del futuro» (Global Groove, 1973) nonché, negli anni Ottanta, alle prime regie-spettacolo videoartistiche in diretta satellitare transnazionale della storia, da Good Morning, Mr. Orwell in avanti: «Satellite e Tv: arte per venticinque milioni di persone». Tra i suoi allievi i maestri di oggi -Bill Viola, Laurie Anderson, Peter Gabriel- e gli ideatori di Mtv: “Music TeleVision”[1].
«Video non significa vedo, ma volo», sostiene Paik. Ed egli effettivamente vola, approfittando delle tecnologie più avanzate della contemporaneità, come sulle ali di una farfalla che danza sull’aria di Madame Butterfly (un altro incontro tra Oriente e Occidente; e insieme un omaggio alla donna, simbolo come molti altri luoghi paikiani, di unità, di armonia tra diversi, di libertà dagli schemi, di vita).
Inventore della «satellite art», Nam June Paik è stato il primo artista ad appropriarsi -mettendolo a disposizione di un’altra cinquantina di artisti in vari continenti- di un satellite per la diffusione diretta di immagini televisive. E nella performance-live Good Morning, Mr. Orwell tenutasi il 1 gennaio 1984 ha dimostrato -polemicamente, ma con il suo ottimismo di fondo- che un uso democratico e creativo delle tecnologie avanzate coniugato con l’energia degli artisti di tutto il mondo, può rovesciare il mito negativo (e il timore reale) del totalitario «Grande Fratello» televisivo evocato da Orwell.
Ma queste, come anche i successivi «giri del mondo» televisivi -ealizzati da Paik esaltando tramite il satellite le azioni, la messa in onda e la regia in diretta delle immagini- sono anzitutto dei grandi spettacoli di colori, suoni e di possibilità espressive della televisione del futuro. Tutte le culture del mondo, grazie alle possibilità democratiche delle nuove tecnologie forzate in questo senso dallo sguardo particolare di questo maestro contemporaneo, si intrecciano in una città ideale di fine millennio nella quale, lungi dall’omologarsi, si esaltano reciprocamente e soprattutto comunicano tra di loro.
Un ottimismo della volontà che in Paik -come in molti altri artisti e filosofi contemporanei- coesiste non pacificata con il pessimismo dell’intelligenza, con la consapevolezza dei rischi reali che corre un pianeta unificato in «Villaggio Globale» dal «Grande Fratello» tecnologico audiovisivo.
Ma è proprio per opporsi a questo rischio -le cui motivazioni sono all’interno di noi stessi, non solo all’esterno- che Paik da anni accentua nelle sue opere, autentico Leitmotiv di video e video-sculture, il tema della gioia, la fiducia nella vita anche (e lo fa spesso) quando ci parla della morte. Perché, artista che «dipinge» e «scolpisce» nella luce e nell’energia -tali sono infatti principalmente i suoi «materiali»: e video ed elettronica sono luce ed energia per eccellenza- non ha dimenticato il significato profondo e le possibilità trasformatrici insite nell’energia interiore che è in ciascuno di noi. E che egli, con la sua arte, vorrebbe contribuire a rimettere in movimento: cosicché il «flusso» televisivo si possa trasformare in un «flusso» planetario di energia creativa[2].
Dalle ore 18 alle 19 del primo gennaio 1984 quattro reti televisive situate in tre diversi continenti hanno messo in comunicazione diretta via satellite venticinque milioni di spettatori con il più folto gruppo di artisti contemporanei mai raccolto da una trasmissione di Capodanno. Organizzatore, ideatore e regista di questa prima videoinstallazione planetaria -vero e proprio “evento” nella storia della comunicazione artistica- è Nam June Paik, ingegnere, poeta, filosofo, musicista, pittore di origine coreana ma di cultura newyorkese, inventore di una parte della telecamera portatile (grazie alla sua scoperta la Sony ha lanciato sul mercato, nel 1965, il port-pack), padre e primo teorico dell’uso artistico del video e, oggi, in polemica col potere orwelliano degli apparati dell’industria telecinevisiva, «guerrigliero dell’etere», profeta del «diritto alla diretta» da parte degli artisti.
Contro le immagini, i suoni e i colori delle tv di tutto il mondo che, in ogni istante, fanno torto alle possibilità espressive dell’elettronica; contro gli slavati «collegamenti» dei telegiornali e la spettacolarità ipnotizzante delle trasmissioni del sabato sera. Perché nella simultaneità elettronica e nelle fantasie visuali che consentono il tubo catodico e il computer c’è un principio di libertà che va colto prima che gli apparati multinazionali dell’informatica, la società dello spettacolo e la censura politica se ne approprino completamente e lo annientino.
Perché in ogni trasmissione tv, con o senza satellite purché in diretta, in ogni videoinstallazione e in ogni «videoscultura» si costruisce, in gradi diversi, una ridefinizione radicale dello spazio, del suono e delle immagini; della percezione degli oggetti e di se stessi in rapporto al paesaggio circostante. E perché, nel governare questa ridislocazione della percezione, c’è la sfida fra l’utopia di libertà degli artisti e il potere della pubblicità.
Per questa follia -omaggio al lucido pessimismo di Orwell, provocatorio contro gli apparati dell’Est e dell’Ovest quanto lo era stato, anche allora nei due sensi, quel romanzo distopico- si sono mossi infatti solo gli artisti. Charlotte Moorman, Joseph Beuys, John Cage, Merce Cunningham, Hermann Braun, Shirley e Wendy Clarke, Allen Ginsberg, Peter Orlovsky, Ken Hakuta, Wacky Wallwachers, Kit Alloway, Sherrie Rabinowitz, Laurie Anderson, Mitchell Kriegam, Leslie Fuller, Philip Glass, Dean Winkler, George Plimpton, Astor Piazzolla, John Sanborn, Yves Montand, Salvador Dalì, Robert Rauschenberg, stilisti di moda estrema, gruppi musicali impegnati (Thompson Twins, Olingo Boingo, capitanati dal futuro premio Oscar Danny Elfman, Emile Ardolino [allievo di Paik, più tardi famoso come regista di Musical e di film di successo quali Dirty Dancing (1987) e Sister Act (1992). Ndr], i musei d’arte contemporanea di Parigi e New York, i servizi culturali francese, coreano e della città di New York, venti gallerie d’arte e quattro televisioni di media potenza (France 3, Parigi; Wnet 13, New York; Wdr 111, Colonia; Kbs 1, Seul) hanno sostenuto finanziariamente il progetto Good Morning, Mr. Orwell e affittato il satellite. Sfidando e beffando, con la regia di Paik, l’industria televisiva sul suo terreno privilegiato: il Grande Spettacolo di Musica e Colori, ipercodificato, convenzionalizzato ad hoc per un immaginario alienato dagli Usa all’Estremo Oriente. Solo l’Italia, ovviamente, non si è mossa. La Rai non ha partecipato all’iniziativa e non ha mai trasmesso il nastro; nessun Ente locale ha inserito questa trasmissione nella sua effimera “estate”. In gennaio, grazie a un collegamento via cavo, la visione in diretta dell’opera si è resa possibile a Ferrara grazia all’iniziativa militante di Lola Bonora, ideatrice e Direttore del Centro Videoarte di Palazzo dei Diamanti. E solo alcuni, a Roma, in marzo, hanno potuto vedere i quattro nastri (Parigi, New York, Seul, Colonia) montati in una videoinstallazione di diciotto monitor curata dallo stesso Paik perché l’iniziativa è stata presa da un gruppo di artisti: la Zattera di Babele diretta da Carlo Quartucci, Carla Tatò e Rudi Fuchs […][3]
Nel 1982-83 Paik progettò un modo del tutto originale -e particolarmente rischioso, sia sul piano finanziario che su quello creativo e tecnologico- di celebrare la data-simbolo delle utopie negative sulla comunicazione di massa in relazione ai media elettronici, quel famoso anno 1984 indicato dallo scrittore inglese George Orwell come la data della definitiva vittoria del totalitario “Grande Fratello” sulla società civile e della tirannia elettronica sul pianeta.
E proprio perché -di là dalla finzione romanzesca- non mancavano in quegli anni segnali evidenti di una tendenza analoga a quella descritta dalla science-fiction politica di Orwell, Paik decise di rovesciare l’assunto orwelliano e, con analogo amore per la libertà individuale -da sempre simbolizzata nella libertà di creazione artistica- decise di dimostrare che le tecnologie (e le audio-visioni) più avanzate possono, a certe condizioni, non tradursi (come invece accade quotidianamente) nel puro e semplice dominio dell’industria culturale multi-nazionale sul pianeta.
Il progetto consistette nella ricerca di un milione di dollari finalizzato all’affitto per un’ora di un satellite intercontinentale per telediffusione; e nell’idea di realizzare un’ora di spettacolo televisivo in diretta fra tre continenti (Asia/Europa/America) nel quale artisti di tutto il mondo avrebbero potuto liberamente esprimersi entrando in rapporto diretto con il pubblico a migliaia di km di distanza da esso. Un gesto polemico contro l’espropriazione quotidiana del “ diritto alla diretta” che tenacemente persegue -a dispetto delle sue “possibilità” tecnologiche e comunicative- il sistema televisivo mondiale; contro l’emarginazione degli artisti in quello stesso sistema, contro una programmazione che certo in nessuna parte del mondo fa onore all’intelligenza del pubblico. Un gesto polemico contro il vero “Grande Fratello”, insomma, condotto sul filo dell’ironia dal più grande performer del mondo nella più impegnativa performance fino ad allora (e a tutt’oggi) mai realizzata. “Arte & Satellite”; “Arte per 25 milioni di persone”; “Trasmettere e Ricevere”; “Diritto alla Diretta” furono i quattro slogan sui quali si articolò il progetto. Il quale ebbe l’appoggio immediato e generoso non solo del gruppo storico del movimento Fluxus e della Beat Generation ma dei maggiori artisti che nel mondo avevano partecipato ai movimenti di rinnovamento e di avanguardia cresciuti dagli anni Sessanta in poi.
Cosi nell’ora di Capodanno del 1984 -dopo che Paik, Merce Cunningham, Joseph Beuys, Allen Ginsberg e John Cage ebbero anche vendute litografie stampate “ad hoc” per finanziare il progetto- la trasmissione “Buongiorno Signor Orwell” venne finalmente realizzata. Su tre Continenti -con la regia in diretta di Paik, che visse lo spazio dell’intero pianeta come uno studio televisivo, in una straordinaria performance spazio-temporale, con base nei maggiori musei d’arte contemporanea del mondo e con la partecipazione (sempre in diretta da satellite) di cinquanta e più “vedettes” dell’arte e dello spettacolo internazionale. Considerando il globo come un’unica e libera città, il tempo come una variabile ormai non più rilevante, le nuove tecnologie dell’audio-visione come uno strumento di comunicazione multipla, era nata -tra l’altro- la “satellite art”: un’altra delle rivoluzioni possibili del secolo scorso. Mimando con leggerezza, e con l’ironia e l’autoironia propria degli artisti veramente grandi, quello che in genere è il più banale degli spettacoli televisivi: il Grande Varietà di Capodanno[4].
“Videoarte” non è video sull’arte. Se non a rare condizioni: la memoria di un passato irripetibile; la documentazione molto originale di eventi e persone perdute; cronaca in atto ma immediatamente reinterpretata espressivamente come, a esempio, in Good Morning Mr. Orwell[5].
[1] In Passaggi teorici dal cinema alla videoarte (2002); cfr. Kinema. Il cinema sulle tracce del cinema, Exorma, Roma 2012
[2] da Trent’anni di arti elettroniche. Le videografie di Nam June Paik, in Rétrospective Nam June Paik. Vidéographie 1963-1993, a cura di Marco Maria Gazzano, VideoArt Festival di Locarno, edizioni Flaviana, Locarno (CH) 1993
[3] da Good Morning Mr Ejzenštejn, “Cinema Nuovo”, a. 34, n. 2 (294), Bari, aprile 1985, p. 45
[4] Good Morning Mr. Orwell (Orwell Revisited) in Rétrospective Nam June Paik. Vidéographie 1963-1993, a cura di Marco Maria Gazzano, VideoArt Festival di Locarno, edizioni Flaviana, Locarno (CH) 1993; p. 28
[5] in Videoarte”: etimologia e genesi di un concetto controverso); cfr. Kinema. Il cinema sulle tracce del cinema, Exorma, Roma 2012