Eco

Light

Eco

Light

Torna su
Cerca ovunque |
Escludi l'Archivio |
Cerca in Archivio

Villa Massimo
25, 26 luglio 1990
25romaeuropa.net

Günter Pick

Antiche Danze; The Moor’s Pavane; Der Grüne Tisch


Photo © Piero Tauro
Antiche Danze; The Moor’s Pavane; Der Grüne Tisch

L’esibizione a Villa Massimo del Balletto di Monaco conclude il Festival e completa l’ampia panoramica sulla cultura tedesca contemporanea compiuta da questa edizione 1990, anche grazie al determinante contributo del Goethe Institut.
La compagnia, diretta da Günter Pick, propone un programma composito e prezioso, che apre con un lavoro recente dello stesso Pick e prosegue portando sulla scena due classici della danza del Novecento come La pavana del Moro (1949) e, soprattutto, Il tavolo verde (1932): mentre il primo, firmato dal coreografo di origine messicana José Limon, rielabora la vicenda dell’Otello shakespeariano in un quartetto che fece epoca, Il tavolo verde rimane uno dei capolavori assoluti di Kurt Jooss, nonché vertice della danza espressionista tedesca. Ispirata alla serie di dipinti della “Danza della morte” di Lubecca e divisa in otto quadri, l’opera di Jooss è un violento atto antimilitarista, quanto mai attuale negli anni immediatamente precedenti l’avvento del regime nazista, che infatti si affrettò a metterlo all’indice. A tramandare la memoria della coreografia del maestro tedesco, rielaborando il balletto per la compagnia, è la stessa figlia di Jooss, Anna Markard, custode attenta e vigile delle opere del padre.

ARTE COREOGRAFICA DEL NOVECENTO
di Donatella Bertozzi

Se è vero che il nostro tempo ha perduto, o rischia di perdere del tutto, la memoria del suo passato, il pericolo maggiore, in termini storiografici, grava sulla la storia delle arti. In particolare, sulla storia dell’arte coreografica, per sua natura così difficilmente documentabile, tanto che il succedersi degli avvenimenti (se non è più che onestamente indagato) può essere tranquillamente sfigurato, o falsificato, o distorto nelle sue fondamentali proporzioni di valore.
Qualche danno, nel recente passato, è già stato fatto, per via di una corrente d’opinione storiografica – quella americana – tutta tesa, patriotticamente, a dimostrare l’origine esclusivamente autoctona dei movimenti di rinnovamento che avevano agitato le acque tranquille e stagnanti del balletto (europeo) al principio del secolo.
Ciò che è più grave, questa impostazione negli ultimi decenni è stata acriticamente più volte fatta rimbalzare di qua dall’Oceano, condizionando in modo deleterio non solo la sistemazione degli avvenimenti ma anche, in certi casi, la stessa programmazione artistica di festival, teatri e istituzioni culturali di prestigio.
Esistono naturalmente brillanti eccezioni e molte comprensibili ragioni alla base di quest’ultimo fenomeno, prima fra tutte la pesante dipendenza economico-culturale dell’Europa occidentale dagli Stati Uniti d’America nel secondo dopoguerra, mitigatasi soltanto di recente con il profilarsi di una maggiore unità e di un profondo rinnovamento della vecchia Europa.
Ma quali che siano le ragioni, sta di fatto che oggi per fortuna, con sempre maggiore chiarezza, si va affermando di qua e di là dall’oceano, la tendenza a rivedere in modo sostanziale non solo i fatti, ma anche il gioco delle reciproche proporzioni. Di qui il migliore rilievo che vanno via via assumendo, per esempio, nel rinnovato disegno della storia della danza del Novecento, il pensiero e l’opera di un geniale anticipatore e teorico come Laban nonché l’attivita di uno dei suoi più brillanti discepoli, Kurt Jooss.

Di Jooss e della sua opera si studia e si comprende meglio, ora, il significato e il valore, né è un caso che questi riconoscimenti giungano tanto da chi può considerarsi erede dei suoi sforzi e dei suoi principi – gli artisti europei e in particolare i tedeschi – quanto, con molta frequenza e regolarità, dagli americani, come testimoniano le numerose riprese, da parte di diverse compagnie, di suoi lavori come Grande città, Pandora e, soprattutto Il tavolo verde, considerato unanimemente il capolavoro di Jooss e in assoluto, uno dei vertici artistici raggiunti dal movimento espressionista nella danza (il solo Joffrey Ballet, che lo riprese nel 1967, lo tenne poi in repertorio ininterrottamente per undici anni e lo ha poi nuovamente ripreso nel 1981 in una nuova edizione).
Quando nel 1932 Kurt Jooss accettò l’invito di Rolf de Maré – fondatore degli Archives Internationales de la Danse e mitico mecenate dei Ballet Suedois – a partecipare al primo Concorso di Coreografìa di Parigi da lui patrocinato, era già un coreografo affermato, direttore – dal 1927 – di una fiorente istituzione pedagogica, la Folkwangschule di Essen e, dal 1928, di una piccola ma apprezzata compagine di danzatori, la Folkwang Tanzbuhne.
Nato a Wasseralfingen nel 1901, egli si era avvicinato alla danza per caso, dopo iniziali studi di musica al Conservatorio di Stoccarda, affascinato da Laban, incontrato nel 1920, e dalle sue rivoluzionarie teorie sull’arte coreutica. La sua carriera era stata fulminea e già nel 1924, su invito di Hans Niedecken-Gebhardt, Jooss era direttore del ballo del Teatro di Münster. Nel frattempo aveva incontrato Sigurd Leeder, suo ideale compagno d’arte per tutta la vita, e Aino Siimela, danzatrice estone, che diverrà sua partner e collaboratrice e che sposerà nel 1929.
Organizzatore, su invito di Laban, del secondo Congresso tedesco di danza, a Essen, nel 1928 egli vi aveva tenuto la relazione di apertura, nella quale, indicando con chiarezza i limiti tecnici della danza libera rispetto al balletto, auspicava che si giungesse a una fusione fra i due linguaggi, così da giungere a un’arte che fosse più ricca nei principi e più duttile nella tecnica.
A queste idee si ispirerà in seguito tutto il suo lavoro (circa una cinquantina di creazioni nell’arco di oltre cinquant’anni) che costituisce indubbiamente, come ha scritto Lorenzo Tozzi “un nodo focale nel teatro di danza novecentesco, poiché in un momento in cui la danza accademica e quella moderna sembravano ormai allontanarsi sempre più e sempre più negativamente per gli opposti settarismi delle contrastanti fazioni, egli dimostrò non solo la possibilità, ma la necessità di una conciliazione fra i linguaggi”.
Maturata, come ci dice lo stesso Jooss, in un arco di tempo di oltre dieci anni, Il tavolo verde è una “danza di morte” (ispirata alla Danza della Morte di Lubecca, una serie di dipinti che illustrano personaggi d’ogni sorta che danzano con la Morte), realizzata da Jooss in otto scene con il fondamentale contributo dei suoi più stretti e assidui collaboratori, il musicista Fritz Cohen e lo scenografo Hein Heckroth.
Il debutto avvenne il 3 luglio 1932 a Parigi, al Théâtre des Champs Elysées, in occasione appunto del Primo Concorso di Coreografia, che gli assegnò il primo premio e ne decretò lo strepitoso successo internazionale.
La struttura del balletto è circolare, il sipario si apre e si chiude sulla stessa scena: un’accolita di grotteschi e inquietanti “signori in nero”, con il volto coperto da maschere, si giocano intorno a un tavolo verde il destino dell’umanità, mentre la Morte – personaggio onnipresente e storica interpretazione dello stesso Jooss -, imprime il ritmo alla danza rimanendo costantemente sullo sfondo.
Un colpo di pistola – al tavolo della conferenza per la pace – annuncia la guerra. Irrompono sulla scena gli orrori e i massacri che l’umanità subisce per l’imbecille avidità di chi governa: la partenza dei soldati, gli eccidi inevitabili, la dura sorte dei profughi, di chi per vivere non può che vendere se stesso; tutti, malvagi e non, devono arrendersi alla Morte che trascina ugualmente con se la giovane donna e la vecchia, così come il ricco trafficante d’armi. Poi i signori della guerra, tornano a riunirsi al tavolo della pace, così che al prossimo colpo di pistola, tutto possa orribilmente ricominciare.
“Non sapevo allora e ancora adesso non so chi siano “i signori in nero” – ha detto Jooss – […] ma credo che rappresentino tutti quei potenti che da una guerra ci possono guadagnare, quelli che, in fin dei conti, la guerra la provocano con le loro macchinazioni”.

Quanto mai opportunamente Günther Pick, direttore del Balletto di Monaco, ospite di questa edizione del Festival Romaeuropa, ha voluto accostare al Tavolo verde di Jooss un capolavoro come The Moor’s Pavane (La pavana del Moro) di José Limon. Esponente di spicco, fra quelli della terza generazione del modernismo coreografico americano, Limon, già dedito a studi di pittura – come anche Laban – si infiammò di passione per l’arte della danza dopo aver assistito a un unico concerto del grande ballerino e coreografo tedesco Harald Kreutzberg – allievo della Wigman e di Max Terpis. Dunque, almeno inizialmente, egli fu, sia pure solo da un punto di vista emozionale e visuale, influenzato dalla corrente di rinnovamento coreografico proveniente dall’Europa.
Limon, di origine messicana, (era nato a Culiacan, nel Nuovo Messico, nel 1908) fu poi allievo – il più brillante – di Doris Humphrey, e nella sua opera artistica e pedagogica portò a piena maturazione i principi motori – fall e recovery – della nuova visione della danza della sua maestra e ispiratrice. Non senza arricchire gli ariosi equilibri e disequilibri dinamici della maestra di atmosfere e invenzioni espressive di radice latina: come testimonia la stessa Pavana del Moro, considerata uno dei suoi capolavori e anch’essa, come Il tavolo verde di Jooss, entrata nel repertorio di molte importanti compagnie (dal 1977 Il tavolo verde è nel repertorio della Limon Dance Company).
La pavana del Moro rievoca con elegante economia di tratto la vicenda shakespeariana di Otello e Desdemona. Nel cast originario, la sera della prima – il 17 agosto 1949, al Palmer Auditorium del Connecticut College, New London – figuravano lo stesso Limon, nelle vesti del Moro, Lucas Hoving in quelle dell’Amico del Moro, Betty Jones come Moglie del Moro e Pauline Koner come Amica di Lei. Un quartetto di fuoriclasse per una coreografia destinata a entrare nella storia. Benché i personaggi non siano designati secondo la classica onomastica shakespeariana, la vicenda, sinteticamente delineata, rimane la stessa della grande tragedia. Come scrive Don McDonagh in The complete Guide to Modern Dance, “nessuno [dei personaggi] lascia mai la scena durante gli “a parte”. Quelli che non partecipano all’azione drammatica semplicemente si irrigidiscono immobili come fossero sospesi nel tempo in attesa di riprendere la danza. È questo un brillante espediente che esalta immensamente l’intensità del lavoro”.
A questi due indiscutibili capolavori del Novecento, Günther Pick ha voluto premettere, a mo’ di introduzione, e anche per riequilibrare la durata dello spettacolo, una propria coreografia, Antiche Danze. Si tratta di un lavoro nel quale, dice Pick, “il movimento ha un ruolo di primo piano rispetto alla musica di Ottorino Respighi. Antiche Danze non racconta una storia. È la prima volta che lavoro a una coreografia senza uno sfondo letterario. Naturalmente vi sono delle situazioni e associazioni possibili, ma io voglio lasciarle alla fantasia dello spettatore per non limitare le possibilità. In questo lavoro, ho ripreso certe forme della mia origine. Niente punte né tutù. Ne risulta così anche una relazione formale con La Pavana di Limon e Il tavolo verde di Jooss”

KURT JOOSS, A PROPOSITO DI DER GRÜNE TISCH
(intervista a cura di Tobias, da “Dance Collection”, New York Public Library, settembre 1976, ora in Catalogo Romaeuropa Festival 1990, Giunti Editore)

Pensavo di iniziare con il suo primo lavoro, con Der grüne Tisch.

Questo lavoro nacque da fonti diverse che, alla fine, senza il mio intervento si unirono diventando un tutt’uno. Io credo che la preparazione nel suo complesso, il concepimento del libretto, sia durata più o meno dieci anni – non che io abbia lavorato per dieci anni all’idea Grüne Tisch -, avevo visto la famosa danza della morte a Lubeck, un susseguirsi di scene che rappresentavano uomini di tutte le condizioni che danzavano con la morte che aveva le sembianze di uno scheletro. Gli uomini nel medioevo si occupavano di tipi di danze che simbolicamente esprimevano il concetto secondo il quale ogni uomo così come era vissuto sarebbe morto: in una scena la morte danzava con un mendicante che portava una cornamusa. Era una danza molto gradevole, una danza apertamente gaia. In un’altra scena la Morte danzava con una contadina di mezza età che aveva un bambino tra le braccia, evidentemente un bambino nato morto e la madre probabilmente morta di parto, questa era una danza molto delicata nel movimento […]; in un’altra scena la Morte danzava con una cortigiana ed era piuttosto feroce con lei, ballava ancora con un vescovo o un cardinale che non era stato senz’altro un ottimo vescovo! e poi ancora con un re o un imperatore, o qualcosa di simile. Allora pensai che fosse un tema affascinante, un vero e proprio progetto di danza […].

E per quanto riguarda il contenuto politico?
In quel periodo leggevo molto una rivista tedesca, “Die Weltbühne” edita da Ossietzky, uno dei principali collaboratori era Kurt Tucholosky. Era un uomo molto importante, un giornalista politico che ininterrottamente scriveva: “Non credete, non credete – a questi discorsi pacifisti – sono tutte assurdità, fumo negli occhi – stanno preparando segretamente una nuova guerra”. Era a conoscenza di fatti che potevano dimostrare che aveva ragione. […] Io non sapevo allora e non so adesso chi siano i padroni del gioco. Io non credo che siano diplomatici, forse ce n’è qualcuno fra di loro, penso invece che siano tutte quelle forze che possano trarre profitto da una guerra e quindi con i loro intrighi la provocano.

Lei intende i fabbricanti di armi?
Sì, o l’alta finanza o adesso il petrolio, non so […].

Per questo portano delle maschere?
Veramente no, il vero motivo è un altro. Avevamo solo sedici ballerini e la scena doveva cambiare velocemente, i ballerini dovevano cambiare il costume e non c’era quindi possibilità di trucco. Non potevano avere lo stesso aspetto di quando, più tardi, avrebbero interpretato le scene umane, dovevano avere un aspetto grottesco.
E quindi cosa fare? Portare delle maschere! […] Il motivo era puramente pratico.

THE MOOR’S PAVANE
di Walter Terry

Di tutte le coreografie di José Limon, The Moor’s Pavane è la più conosciuta e popolare.
È la storia di Otello in forma di danza. Per la composizione di questo dramma il coreografo si è servito della tecnica della danza moderna, ma ha rivestito il dramma, così come suggerisce il titolo, di una forma di danza cortigiana. I quattro personaggi – Otello, Desdemona, Jago ed Emilia – si muovono con grande eleganza fra modelli di ballo formali che vengono brutalmente distrutti, spezzati da primitive esplosioni di bricconeria, di truffa, di odio, di vendetta e in fine dall’assassinio. In The Moor’s Pavane si intrecciano le più alte tradizioni teatrali con un ricercato percorso attraverso i moderni principi della danza, in un insieme di grande forza, nutrito dal totale controllo dell’impulso esteriore ed interiore.
Nell’andamento della musica, ora lirica, ora passionale, di Purcell, che guida le forme coreografiche o favorisce la messa a nudo delle emozioni, le quattro figure si affrettano verso la loro rovina.
Di The Moor’s Pavane fu realizzata anche una versione per lo schermo, mentre il balletto fu introdotto stabilmente, nel 1969, all’interno del repertorio dell’American Ballet Theatre come un classico della danza, a dimostrazione della crescente interdipendenza tra balletto e danza moderna […].

Rassegna stampa

“Chiusura a Villa Massimo di RomaEuropa e nel migliore dei modi per ciò che concerne la danza: due capolavori di un secolo che sta per finire, due pietre miliari nella storia del balletto. Incominceremo da Il tavolo verde di Kurt Jooss che è il più vecchio anche se chiudeva la serata. Sono ancora oggi straordinarie la semplicità e essenzialità di mezzi impiegati per questa “danza macabra”, capostipite del movimento libero centroeuropeo, nella quale, al primo sparo di rivoltella di uno dei politicanti a congresso (il tavolo verde: tavolo da gioco dei potenti) prende l’avvio la funebre farandola della guerra scandita dal gesto terribile della Morte, come di falce manovrata da mano invincibile. […] La satira è violenta ma non più di tanto, anzi c’è in tutto il lavoro, di chiara marca espressionistica e di un grottesco senza eccessi, una qualità rara: la misura. Oggi più di ieri, quando il lavoro si proponeva come satira politica, si coglie un avvertimento, un monito alla luce e alle ombre dei contrasti terribili che vive la Germania del Muro.
Sono stati bravissimi i ballerini dello Staatstheater Am Gärtnerplatz di Monaco qui come nella Pavana del Moro (1949). Colpiscono ancora la stringatezza drammatica, la finissima intuizione di questo passo a quattro modulato su musiche seicentesche di Purcell a guisa di danza di corte che nasconde fra le pieghe degli abiti e fra le riverenze ossequiose il veleno delle schermaglie amorose e degli odi. […] Una compagnia ottimamente preparata, affiatata, guidata dal direttore Günter Pick. Avremmo fatto volentieri a meno, ad apertura di serata, del suo balletto Antiche Danze (sulla ben nota musica di Ottorino Respighi) di gusto pesante, travisate nelle loro più riposte significazioni storiche e, soprattutto, di una banalità imbarazzante. Accoglienze calorosissime agli interpreti”.
(Alberto Testa, La guerra a passo di tango, la Repubblica, 28 luglio 1990)

“Chi ama la danza ha molte ragioni per amare Il tavolo verde di Kurt Jooss. Concepito per il concorso di coreografia parigina del 1932, questo balletto è difatti un rarissimo esempio di danza espressionista, mirabile in quanto rara eredità di quella scuola e di quello stile illustrato dalle teorie e dalle opere di Rudolf Laban e dei suoi diretti allievi Jooss e Mary Wigman. […] A Roma, almeno a memoria d’uomo, questo importante documento coreografico non lo si era mai visto. I più attenti ed i più fortunati lo avevano visto in tv alla benemerita Maratona di Danza o magari alla Fenice di Venezia in una retrospettiva interamente dedicata a Jooss. Lo riconduce ora alla ribalta di Villa Massimo lo Staatstheater Am Gärtnerplatz di Monaco di Baviera in un’edizione curata dall’erede spirituale del maestro espressionista, Anna Markard. […] Accanto a questo capolavoro non c’era posto per altre presenze. Il primo balletto della serata era concepito dal direttore della compagnia sulla falsa-antica partitura respighiana delle antiche Arie e danze. Günter Pick ne fa un’insulsa congerie di sciocchezze, che vorrebbero essere perfino spiritose, sul tema di un confronto, a suon di muscoli e di esibizionismo culturistico, tra forte e gentil sesso. Un biglietto da visita assolutamente inadeguato alla serata, specie se paragonato al resto, di ben altra portata e vastità tematica. Al centro del programma era invece la celebre Moor’s Pavane (1949), di José Limon, uno dei capiscuola dello stile “modern”. […] Chi ha visto l’originale, danzato dall’autore a suo tempo o anche più recentemente dalla compagnia americana che ne eredita il nome, avrà stentato a riconoscere in questo “passo a quattro” le caratteristiche precise del movimento di Limon. Infine, fortemente applaudita, la grande esplosione del Tavolo Verde, una delle novità più gradite dell’esterofilo festival RomaEuropa di quest’anno”.
(Lorenzo Tozzi, Un gran tavolo verde contro tutte le guerre, Il Tempo, 27 luglio 1990)

“Assistere ad una rappresentazione del Tavolo verde è difficilissimo per non dire quasi impossibile. La figlia di Jooss, Anna Markard, unica ripetitrice autorizzata, è infatti assai parca nei suoi placet. Il balletto in otto scene, sottotitolato “danza di morte” e ispirato al famoso ciclo di Lubecca, unisce all’importanza storica della forma che gli merita il ruolo di manifesto dell’espressionismo, l’attualità dei contenuti. Si tratta di una denuncia feroce contro la corruzione del potere (eterno tema) maturata quasi spontaneamente nella mente di Jooss in anni ben memori degli strazi della prima e prossimi agli orrori della seconda guerra mondiale. […] Der grüne Tisch non pesa, non annoia, non ha età. Continua ad essere un capolavoro per fattura e drammaturgia. Al suo fianco impallidisce anche la splendida Moor’s Pavane di Limon, e si svuota il divertissment Antiche Danze: un Pick su musica di Respighi. Il trittico vola via veloce sbalzando almeno due tra i bravissimi interpreti: Dinko Bogdanic e Johannes Huber”.
(Elsa Airoldi, Danza tedesca a Villa Massimo. Roma riscopre “Il tavolo verde”, Il Giornale, 29 luglio 1990)

Crediti

Ensemble Staatstheater Am Gärtnerplatz di Monaco
Solisti Dinko Bogdanic, Johannes Huber, Tatjana Berini, Lioba Schoneck

ANTICHE DANZE
Coreografia Günter Pick
Musica Ottorino Respighi

THE MOOR’S PAVANE
Coreografia José Limon
Musica Henry Purcell

DER GRÜNE TISCH
Coreografia Kurt Jooss
Musica Fritz A. Cohen
Rielaborazione Anna Markard