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Artisti a cavallo, Zingaro
Galoppatoio di Villa Borghese
dal 19 al 27 luglio 1990
25romaeuropa.net

Bartabas

Cabaret Equestre


Photo © Piero Tauro
Cabaret Equestre

Soprattutto dopo la grande affermazione internazionale al Festival d’Avignone del 1987, Zingaro non ha smesso di girare l’Europa, realizzando centinaia di rappresentazioni e affermandosi come una delle più eclatanti realtà dello spettacolo contemporaneo. Nato per volontà di Bartabas a partire dal suo Cinque Alegre, questa forma unica di “teatro equestre” (capace di mescolare musica e circo, cultura gitana e cabaret, flamenco e miti berberi) approda a Roma, per dieci serate, in una nuova versione, la terza, ricca e fiammeggiante quanto le precedenti, ma dalla maturità performativa e compositiva sicuramente maggiore.
Al seguito di Bartabas, uno stuolo di attori, cavallerizzi, musicisti che, escludendo la piccola orchestra gitana, non sono zingari né provengono dal mondo del circo, ma hanno sposato con un professionismo quasi votivo la causa di questo spettacolo, riunendosi in una vera e propria comunità nomade. Etica ed ideologia, prima di tutto, in uno spettacolo che abbatte i confini fra i generi facendosi “rito”. Malgrado dal 1989 Zingaro disponga di una grande struttura in legno smontabile capace di accogliere 700 spettatori, ad ospitare le esibizioni romane è il Galoppatoio di Villa Borghese, cornice quanto mai appropriata per quello che rimane il protagonista indiscusso delle serate: il cavallo.

 

ARTISTI A CAVALLO
di Bartabas

La mediocrità non fa parte dell’amore e senza amore non si può creare un’opera d’arte.
Nono Olivera (cavallerizzo – filosofo)

Zingaro ama ciò che fa e fa ciò che ama senza altra pretesa che quella di tracciare il proprio cammino.
Zingaro ha scelto il viaggio non per retaggio culturale, né per necessità economica ma guidato dalla volontà di vivere, a suo modo, la propria condizione di artista, totalmente e senza compromessi.
I suoi carrozzoni, la sua musica, i suoi cavalli gli danno l’apparenza del circo ma qui lo spettacolo è un rituale, la musica una vocazione e l’amore per i cavalli una religione.
Quale che sia la disciplina equestre, il suo valore dipenderà dalla qualità delle relazioni che si sapranno instaurare tra l’uomo e l’animale. È qui che il valore tecnico dell’uomo non basta più e che le sue qualità ne fanno un artista in disparte; “l’uomo a cavallo deve essere insieme coreografo e danzatore, egli detiene l’indescrivibile armonia, la grazia gestuale. Fa nascere il ritmo, lo porta in lui e nell’altro, rivela lo stile del suo compagno, scompare: l’artista è il cavallo”.

L’espressione equestre diviene arte equestre quando non si tratta più di produrre un gesto, bensì di lavorare sulla qualità di questo gesto.
Come in tutta l’Arte, la tecnica deve essere assimilata, digerita poi sublimata dalla sensibilità e dall’amore per il cavallo a favore di una emozione. Niente “numeri”, ma un tocco, una nota, un insieme, un momento, un quadro. Alla fine della sua vita Velasquez non dipingeva più le cose definite, ma ciò che compare tra le cose definite: ecco lo Spazio esatto del Teatro Zingaro.
Non possiamo risolverci a non essere che un circo o una compagnia teatrale, ma piuttosto una tribù animata da un solo spirito: la ricerca dell’accordo perfetto tra vita quotidiana e spettacolo; vivere la propria arte al di fuori di una logica basata sulla carriera, abolire le frontiere tra le differenti “creazioni” per un lavoro di tutti i giorni; una ricerca permanente, semplicemente perché gli uomini e i cavalli vivono ed invecchiano insieme.
Più che un buono spettacolo Zingaro è prima di tutto il desiderio di vivere un’avventura totale nel cuore di una storia senza età, al fondo di un fantasma in ebollizione. È l’opera di una tribù di Artisti fino all’ultima unghia, all’ultimo zoccolo. Tutti questi esseri meravigliosi fanno del mito Zingaro una realtà insolente.

Rassegna stampa

“La terza edizione di Zingaro nasce come una creazione più matura: “Durante questi anni – spiega Bartabas – sono riuscito, assieme alla Compagnia, a rendere più omogeneo lo spettacolo, soprattutto nello spirito. Non esiste una vicenda, non vi si racconta nessun tipo di storia. Compongo ogni lavoro come se si trattasse di una partitura musicale. Conosco le melodie, avverto quali note e virtuosismi mi avvicinano all’animo del cavallo. E questo spartito lo regalo al pubblico nella forma di un dono che bisogna scartare lentamente per arrivare alla sorpresa dei sentimenti”. Nasce con lo spettatore quello che Bartabas definisce “una provocazione d’amore”: Zingaro vuole la vicinanza del pubblico, ha bisogno di sentire il suo respiro. Non a caso l’artista francese accomuna il suo teatro a quello che si nutre delle filosofie orientali. “Sarà l’ultima tournée per Zingaro: il cabaret equestre si fermerà – spiega Bartabas – ho intenzione di mettere in scena un’opera solo con cavalli e l’apporto delle percussioni. Si tratta di un confronto tra due tipi di mentalità nomadi, il popolo della Georgia e quello sudafricano. La considero una evoluzione rispetto a Zingaro, anche se il lavoro avrà un sapore più arcaico”. Con Bartabas è difficile parlare di teatro all’europea. Sente vicino al suo spirito solo Peter Brook: “Non sopporto l’imborghesimento dell’attore e del regista europei che fanno tutto pur di rimanere ‘stelle’: televisione, cinema, pubblicità. Ma dov’è la famiglia nel teatro? Dove sono finiti il messaggio e l’unicità del testo? L’opera teatrale è irripetibile. Non esistono riletture e reinterpretazioni. Il mio linguaggio è un linguaggio inventato, che nessuno potrà ripetere. Rimane l’energia, che è vita e amore, unico testimone per il futuro””.
(Leonardo Jattarelli, Cavaliere dell’immaginazione, Il Messaggero, 19 luglio 1990)

“Lo spettacolo inizia con un brindisi au vin brulé, ma continua con l’entrata in scena di un carro fiorito tirato da buoi che inneggia alla fertilità e al dio cavallo, non a caso sintetizzato, nell’antichità classica, dalla figura del Centauro, lasciva e forte. Dunque Bartabas, pronto a farsi clown nei momenti “civilizzati” della sua performance, non esita a tornare esoterica emanazione del semidio, quando a schiocchi di lingua, e da lontano, guida la danza di un esile puledro avelignese dal mantello rosato. Oppure quando, tutt’uno con la sua cavalcatura, rabbiosamente impone agli spettatori la legge del nitrito e della paglia.
Proprio l’annullamento di qualsiasi coordinata temporale, proprio il non avere né età né patria, amalgama in Zingaro verità e bugia, cioè la formula vincente che lo ha reso celebre. Il campo di Bartabas inghiotte lo spettatore nelle spire di un mondo sopravvissuto, regolato da leggi autoctone, emarginato, pervicace, chiuso, dentro il quale il coltello e la verginità hanno valore come e più del denaro e ogni sgarro ha la sua punizione. Eppure il filtro d’amore non è totale, né completamente avulso dalle necessità del vivere contemporaneo: Bartabas il selvaggio, ad onta del nero d’Inferno di cui si ammanta dall’alfa all’omega, dissemina in pista uno stuolo di servi-guitti dalla comicità anglosassone, che giocano con ponies e somarelli. Ridere beneducatamente aiuta ad apprezzare meglio gli “anacronistici” abissi della passione”.
(Rita Sala, Alla corte di Bartabas, Il Messaggero, 23 luglio 1990)

“Uno spettacolo forte, malinconico ed ironico, dolcissimo e violento come può essere tutto ciò che è naturale, con cavalli domati e domanti che sembrano di seta, possenti; asinelli con valletti in groppa e valletti con in groppa gli asinelli; straordinari acrobati e ragazze con code di cavallo identiche a quelle dei cavalli; contralti; danzatrici di flamenco e animali che le imitano; corse aggressive e languidi momenti; scudisciate; spari a salve; ratti di borsa di signora (ma è soltanto uno sberleffo zingaresco); gag da Buster Keaton e suoni di campane. Colto spettacolo da Camargue-Dalidà che si è inventato almeno sei anni fa Bartabas, cavaliere romantico, intraprendendo con una sua tribù di artisti viaggiatori, una “crociata” teatrale di smussamento di fratture fra i generi: danza, teatro, circo, musica e vita, servendosi di elementi talmente naturali da sembrare esotici: la sabbia, il fuoco, il vino, la passione.
Un circo di grazia ottocentesca, dove scompare la “sciatteria” del nostro circo attuale, che si arricchisce invece, impoverendosi di rozze intermittenze, lustrini esagerati e trucchi da operetta ormai televisiva. Recuperando non solo la meraviglia di un’antica ritualità teatrale e circense, ma soprattutto la meraviglia del rapporto anche sensuale con una serie di animali che appartengono alla nostra, neanche troppo lontana, cultura contadina”.
(Marina Pertile, La notte raffinata e tzigana, Il Tempo, 23 luglio 1990)

“La bravura, il coraggio, l’indovinata clownerie, la perfezione dell’esecuzione non sono il metro unico per giudicare questo spettacolo e capire il piacere che ogni volta riesce a creare negli spettatori. Come più volte ha detto Bartabas, Zingaro non mette in passerella dei semplici “numeri” d’arte equestre, ma teatralizza un dialogo quasi metafisico fra l’uomo e il cavallo.
Non solo: mette in scena mitologie scomparse o sul punto di sparire, è la rappresentazione di una rappresentazione, la copia abilmente falsificata e deformata dai sogni di un “depliant” di viaggio nell’immaginario. E grazie alla consapevolezza di questa ambiguità, di questa finzione ci restituisce meglio delle vere tradizioni conservate sotto vetro, dei balletti balinesi o delle ombre giavanesi formato esportazione, un brivido di autenticità e di poesia”.
(Nico Garrone, Un circo o un’aia contadina?, la Repubblica, 27 luglio 1990)

ZINGARO
di Ugo Volli

Ogni determinazione è una negazione, insegnava Aristotele al primo fiorire della cultura occidentale. E il pensiero europeo, tutto sgorgato da quella fonte, è rimasto per sempre fedele alle distinzioni e alle negazioni. Ancora Ferdinand De Saussure, all’inizio di questo secolo in cui la lingua è stata posta dalla nostra cultura come modello generale di tutte le cose, ammoniva che nel linguaggio non vi sono contenuti positivi, ma solo opposizioni e differenze. L’ossessione della distinzione, della delimitazione, della separazione, si scorge chiaramente sotto il maestoso edificio della nostra scienza come nel nostro modo di mangiare o di organizzare la vita familiare. Intendiamoci, non c’è nulla di male nel coltivare “idee chiare e distinte”, anzi. Da questa nostra passione non viene solo la tecnologia, ma lo spirito stesso della democrazia.
Proprio per questa stessa passione, nel mondo dello spettacolo dal vivo o se si vuole delle arti performative, la nostra tradizione divide in generi diversi e reciprocamente esclusivi ciò che in Oriente è spesso unito e indistinguibile: musica, prosa, danza, circo, racconto epico. Di nuovo, non faccio queste osservazioni per svalorizzare la nostra cultura rispetto a quella indiana o cinese. Voglio solo dire che essa si definisce per opposizione a queste forme, in linea di principio e di fatto più antiche di Gesamtkunstwerk, cioè di opera d’arte totale, per dirla con Wagner. E intendo anche dire che se lo spirito della delimitazione e della negazione ci è connaturato e necessario, il modo concreto in cui queste distinzioni sono state poste è entro una certa misura arbitrario, il frutto di un’evoluzione storico-culturale del tutto particolare. L’opposizione reciproca compiuta di opera, balletto e prosa è un’invenzione che l’Occidente perfeziona fra Cinque e Seicento, fra l’Italia e la Francia; e l’elaborazione del genere culturale “circo” dai suoi antenati di piazza è più tarda ancora, risale solo al Settecento inglese.
Alcuni di questi confini sono stati spesso sfidati negli ultimi decenni: per esempio quello fra prosa e danza è stato attraversato con successo da artisti come Pina Bausch, Tadeusz Kantor, Eugenio Barba, Bob Wilson. L’opera ha sognato con Wagner di farsi opera d’arte totale. Questa rottura delle delimitazioni classiche fra i generi dello spettacolo è una tendenza caratteristica della modernità, che si associa al “recupero” di arti “minori” o “degradate”, allo sviluppo della regia e della direzione di orchestra come attività separate che esprimono il progetto artistico e la volontà di potenza che lo sostiene, e insieme con la consapevolezza crescente che i ritmi e i modi della percezione spettacolare sono decisivi, non i contenuti.

Zingaro, un gruppo di gente di circo che ha base in Francia, lavora da qualche anno nella direzione dell’eliminazione di una barriera molto meno frequentata, quella fra arti circensi e in particolare fra spettacolo equestre e teatro. Non si tratta ovviamente di “recitare” il circo o di introdurvi degli elementi di finzione o di narrazione che nella sua vita tradizionalmente sono assenti; ma piuttosto di “mettere in scena” la magia del circo, recuperandone la tradizione ma anche valorizzando la distanza fra pubblico e spettacolo, insomma di costruire un vero e proprio teatro musicale equestre. Zingaro lavora dunque con attenzione sulla sistemazione del pubblico, sui ritmi dello spettacolo, sull’aspetto degli artisti, cercando di evitare i luoghi comuni e di ritrovare l’emozione originaria del rapporto fra uomo e cavallo.
In Teoria della performance, uno dei saggi fondamentali della moderna estetica dello spettacolo, Richard Schechner distingue in ogni fatto teatrale tre livelli distinti di testualità: c’è il “testo drammatico”, la pagina scritta di parole o note, il solo oggetto che noi siamo abituati a considerare testo; poi c’è il “testo dello spettacolo”, che comprende coreografia, scene, ritmi e spazi, regia e luci, insomma tutto quanto appartiene a una particolare realizzazione di un certo testo drammatico, o in genere di un certo spettacolo, e si ripete più o meno esattamente a ogni replica. Infine c’è il “testo della performance“, che regola il tempo e lo spazio dello spettacolo, la disposizione del pubblico e l’etichetta della rappresentazione, i rumori e i comportamenti ammessi nel contesto e le reazioni degli spettatori, il complesso gioco di convenzioni che permette – di solito senza farsi notare da chi lo subisce – a ogni genere spettacolare di realizzarsi come tale.
Nel caso del circo il testo drammatico è per lo più molto povero, mentre è ricchissimo e preciso il testo dello spettacolo. La gente del circo non vende al pubblico contenuti o storie, e neppure l’esecuzione di capolavori complessi e articolati di per sé come nel caso della danza o della musica. Gli offre invece delle competenze, delle abilità, dei “saper fare” non comune, mette in mostra i limiti dell’abilità degli uomini e degli animali. Da questo punto di vista il circo è uno spettacolo tipicamente segnato dalla cultura illuministica e positivista: richiama le esposizioni universali, le enciclopedie, i musei della scienza e della tecnica. Fanno spettacolo la pazienza, l’ingegnosità, il coraggio, l’astuzia, la forza, la bravura, la determinazione, la volontà, l’agilità, insomma le Facoltà dell’Uomo. Nel caso degli acrobati volanti o dei grandi felini, l’emozione si offusca di un colore più torbido, c’è il sospetto che il pubblico aspetti con paura/desiderio l’errore o la tragedia, e che goda infine per il sollievo di una tensione superata.
Ma Zingaro elimina queste componenti spurie, il suo testo dello spettacolo è ridotto al più classico repertorio equestre e il desiderio o la paura del rischio non hanno una componente importante nello spettacolo. La differenza non sta dunque tanto su questo piano dei contenuti tecnici della rappresentazione (anche se alcuni numeri sono di grandissima classe). Piuttosto è la connotazione generale, l’atmosfera, il gusto di tutti gli esercizi ad essere sottilmente modificato, verso una dimensione arcaica, volutamente primitiva. La natura positivista del circo induce naturalmente una contraddizione: da un lato vi si esercita il culto del progresso nelle prestazioni, dell’altius, citius, fortius che è il motto orgoglioso dello sport moderno; dall’altro le regole del gioco sono tradizionali, antitecnologiche per eccellenza, e dunque non consentono un progresso indefinito. Zingaro si pone decisamente da quest’ultimo lato della contraddizione. Il lavoro sui cavalli vi è presentato con un gusto arcaico che ne sottolinea con voluta (“teatrale”) esagerazione la violenza, il conflitto di volontà fra lo splendido animale selvaggio e l’uomo che lo costringe all’obbedienza. Questo senso di lotta primitiva e quasi rituale fra la selvaggia ed elegantissima potenza del cavallo e la decisione altrettanto elementare dell’uomo che comanda è ingentilita ma non contraddetta da altri elementi rustici: galline che starnazzano in mezzo alla pista, vecchie canzoni sentimentali, semplici giochi di relazione e di ruoli fra i membri della troupe. Il risultato è straordinario: uno spettacolo potente, formalmente assai violento, ricco di sorprese e di colpi di scena, con un aspetto insieme barbarico e sontuoso, antico e intemporale.

L’aspetto tradizionale del circo è rinnovato ancora più profondamente altrove, e precisamente nel terzo livello, quello del testo della performance, che definisce il ruolo e le regole del pubblico. Nella nostra cultura lo spettacolo circense è un divertimento per famiglie, popolare e un po’ trascurato. La gente si ammucchia alle entrate, si arrampica su gradinate di legno, vive lo spettacolo con attenzione intermittente mobilitata da rulli di tamburo, drastici salti di luce e altri mezzi altrettanto primitivi.
Zingaro lavora per restituire carattere cerimoniale al circo, tentando qualche volta anche soluzioni estreme, come far passare gli spettatori per un percorso fra le stalle, prima di portarli al loro posto sotto il tendone. Altri mezzi agiscono durante lo spettacolo, come una sistemazione del pubblico, più accogliente e “antica”, nella semioscurità, intorno a tavolini illuminati da abat-jour, o la generosità di servire un misterioso cocktail azzurrognolo come bevanda.
Tutti questi modi di organizzare la presenza del pubblico possono variare, a seconda delle circostanze, delle opportunità e delle esperienze, come variano i numeri dello spettacolo. Quello che non cambia è l’idea centrale di questa sistemazione, un’idea molto moderna del recupero di un momento elementare e dunque “antico” di comunità e di meraviglia; la costruzione di un tempo forte intorno alla semplice prestazione del circo, la messa in scena non solo di certi numeri, ma del rituale circense in sé, attraverso la manipolazione dello sguardo, dell’attenzione, del modo di essere dello spettatore.
In ciò Zingaro corrisponde molto bene a certe grandi tendenze del teatro contemporaneo, in particolare di quelle correnti che puntano a valorizzare, contro lo strapotere dei mezzi di comunicazione di massa, proprio il suo aspetto naturalmente rituale e mitico; ma per far questo hanno bisogno di ridurre all’essenziale i mezzi tecnici, di ritornare ad una situazione estremamente primitiva della scena. Quando dico primitiva, non intendo dire né realmente vecchia, né povera di sofisticazione.

Certamente non c’è mai stato, prima di Grotowski e di Peter Brook, un modo di far teatro così essenzialmente concentrato sulla verità del corpo e del linguaggio dell’attore; e altrettanto certamente i circhi dell’Ottocento, o i piccoli tendoni familiari che ancora girano per certi luoghi come il sud della Spagna, non sono mai stati così rituali e puri come Zingaro. Ma non importa, perché il recupero del carattere arcaico del circo è qui un atto concettuale, che si confonde con la sua trasfigurazione in teatro di se stesso. Ma tutta l’intera operazione, così sofisticata e culturalmente complessa, si regge perché, in un senso molto concreto, riesce ad essere vera, perché Bartabas – regista, patron e primo cavaliere dello spettacolo – riesce davvero coi suoi compagni a darci l’emozione di un mondo diverso, misterioso e forte.
Paradossalmente, così si fondono il rifiuto della determinazione tradizionale dei generi e la più nitida e precisa individuazione di uno fra essi, la modernità e la tradizione, la ricerca e l’arte antica del cavallo. Il fascino di Zingaro sta esattamente in questa felice e antiaristotelica conciliazione.

 

Crediti

Artisti a cavallo Zingaro
Regia Bartabas
Ensemble Thèâtre Zingaro
Strumenti cembalo, violino, fisarmonica, contrabbasso, chitarra, berimbao, percussioni, organo, cornamusa, voce, derbouka
Interpreti La tribù si compone attualmente di: 24 attori, musicisti, cavallerizzi, danzatori, dresseur, sognatori e tecnici; 16 cavalli di dodici razze diverse, 1 giumenta, 3 asini, 2 muli, 2 buoi; alcune oche e tacchini
Produzione Centro San Geminiano di Modena, Centro per la Sperimentazione e la Ricerca Teatrale di Pontedera, Zingaro/Thèâtre Equestre et Musical, Festival d’Avignon
Organizzazione Proscenio/Progetti per lo spettacolo