Lo spettacolo firmato da François Raffinot per la sua nuova compagnia, Barocco, è senz’altro un raffinato esempio della originale e sofisticata ricerca attraverso i modelli coreografici secenteschi, che contraddistingue il coreografo francese.
La “comédie-ballet”, come il suo stesso autore la definisce – ma in realtà il genere è antico, si trattava infatti di commedie o pastorali intercalate da danze di tipo esornativo che costituivano la parte principale dello spettacolo – si compone di due parti divise da un intermezzo in forma di colloquio filosofico, tratto da Diderot: il risultato è in realtà un capovolgimento della forma standard del genere, poiché il posto che compete al testo è affidato alla danza e viceversa, con la conseguenza che la spettacolarità barocca viene al tempo replicata e aggiornata, omaggiata e amabilmente tradita, con la complicità di evidenti inserti coreografici contemporanei.
L’atmosfera dello spettacolo ha una forte connotazione erotica ed onirica e la sottile traccia narrativa che si rifà alla favola di Cenerentola, elabora simboli e riferimenti che rimandano all’infanzia come alla mitologia classica: l’audace contaminazione resta tuttavia compatta grazie anche alla trama musicale elaborata da Michael Nyman, autore già felicemente messo alla prova del mondo barocco dal regista Peter Greenaway.
BAROCCO
di Donatella Bertozzi
Garden Party (ovvero, Le sorprese della conversazione) è l’ultima creazione di François Raffinot, talento inconsueto di coreografo che ama alimentare la propria ispirazione al calore dei secoli passati.
A Roma il suo lavoro giunge all’indomani della prima francese, ospitata dalla rassegna “Montpellier Danse 90”, uno degli appuntamenti di maggior prestigio dell’intero panorama europeo. Dopo aver creato, insieme a Francine Lancelot, il fortunatissimo gruppo Ris et Danceries che inventava, secondo moduli rinascimentali, moderne opere coreografiche (riuscendo a sedurre anche il grande Nureyev, che fu da loro magistralmente avviluppato in un fitto e vertiginoso reticolato di antichi passi) Raffinot si è lanciato da qualche tempo in un’altra avventura e con la sua nuova compagnia, Barocco – cui dà il suo contributo di esperto cultore delle danze del passato anche il fiorentino Andrea Francalanci – continuando nel suo bizzarro sistema di vocazioni e rievocazioni di atmosfere e moduli stilistici d’antan secondo disegni di composizione rigorosamente originali e contemporanei.
Nel nome il destino. Façon de dire fin troppo in uso al giorno d’oggi ma, forse, mai come in questo caso calzante. Per Raffinot l’eleganza è un modo di essere. Né potrebbe essere altrimenti. Le danze d’epoca che ispirano il suo lavoro sono un distillato prezioso di ogni sorta di ricercatezze. Preziosi ricami di aristocratiche consorterie del ballo. Ma sono, anche, uno scrigno di materiali pregiati con i quali è possibile riannodare inedite trame di passi secondo il gusto del nostro tempo.
Il sogno di Raffinot è quello di “far risorgere uno stile, rinascere una forma”, ma in termini di sensibilità contemporanea. Il gusto, il pensiero, la visione del mondo dei tempi di prima della rivoluzione che egli esplora nei testi e nei trattati sull’arte della danza secondo gli antichi maestri, diventano, grazie alla sua fervida immaginazione, alla sua infallibile ricercatezza, affilati strumenti di indagine, sensibile scandaglio dei limiti e delle direzioni dell’estetica contemporanea.
“I danzatori – è stato scritto – hanno, grazie a quest’esperienza, l’occasione di muoversi fra il barocco e il contemporaneo. Il lavoro che compiono su un versante arricchisce l’altro, e viceversa. In questo modo si opera la sintesi nel corpo stesso dei ballerini, nel loro piacere di danzare “barocco”, nel virtuosismo, acquisito poco a poco, nel modo di portare avanti le ricerche insieme ai coreografi e d’interessarsi non solo alla ricostruzione archeologica delle danze ma anche alla fusione con la coreografia sperimentale”.
“Il barocco del XX secolo — ha scritto Guy Scarpetta — ritorna, si reinventa e raggiunge oggi un punto di effervescenza. Non un ritorno al barocco storico (una moda retro in più) ma un nuovo modo, attuale, di far giocare l’eccesso contro la misura, la seduzione contro l’ascetismo, il lusso contro la purezza, lo spreco contro la funzionalità, il movimento ribollente o la pulsazione contro l’ordine, la profusione contro il minimalismo. Questo barocco, il nostro, è conseguenza diretta dell’esaurirsi delle estetiche “d’avanguardia”, del loro purismo, del loro radicalismo… Dovremmo vedere in questa riabilitazione o reinvenzione del barocco un segno di “decadenza”? No. Sappiamo ormai che i piaceri della memoria non sono incompatibili con quelli dell’invenzione.”
E fra i piaceri della memoria quale più dolce, familiare, e insieme frizzante, inquietante di quello racchiuso nella fragile, antichissima struttura delle favole? Ecco allora Raffinot rivolgersi con sicura, maliziosa pertinenza alla favola di Cendrillon, capolavoro di Perrault nonché caposaldo della letteratura – anche coreografica – francese. Quasi con nonchalance, con apparente ingenua spensieratezza, la sua “pièce per nove danzatori e due attori” disperde fra i profumi delicati del giardino l’atmosfera erotica e movimentata, gira intorno ai celebri punti-chiave: la perdita della scarpetta, il lento trascorrere delle ore, il colpo di fulmine, la perdita dell’amata, l’assenza, il fortunoso ritrovamento. Lo sfondo barocco della fiaba, gonfio di implicazioni psicologiche e sentimentali ben si adatta a una féerie, a un “divertimento” un po’ crudele riferito al nostro tempo. Eppure, ugualmente, l’illusione d’essere trasportati altrove, in un tempo lontano e fantastico, rimane: le tre scansioni dell’azione – Matines, Aube, Nocturne – paiono studiate apposta per dissolvere le nostre più recenti categorie temporali, fatte d’attimi che s’inseguono all’infinito, tutti uguali, fuggiti per sempre dal giorno e dalla notte.
E l’apparizione di due filosofi che si incontrano nel giardino, all’alba, non ci impensierisce forse? Perché mai, sembra dire l’autore, che mira a catturare la ribollente complessità del nostro mondo imprigionandola metaforicamente nelle robuste trame dell’antica gestualità delle danze e nei leggiadri via vai di conversazione.
Anche oggi avremmo il tempo di filosofeggiare se solo potessimo accorgerci di come sia possibile farlo. Per questo probabilmente Raffinot ha tratto spunto per il suo Intermezzo Teatrale da Denis Diderot, affidandolo a Jean-Marie Boeglin e a Mirentxu Housset, i due attori della compagnia. Forse aveva in mente che il conclamato ateismo del filosofo di Langres e il suo possibilismo scevro di qualunque pregiudizio potesse guidarci ed esserci d’aiuto anche nella degustazione di una gradevole – ma non certo facile – comédie-ballet del nostro tempo.
Rassegna stampa
“Anche questo delizioso Garden Party, che a pochi giorni dal debutto al Festival di Montpellier è arrivato per Romaeuropa a Villa Medici (e mai cornice avrebbe potuto dimostrarsi più in sintonia, nella scenografia fortuita da festa a corte dentro il parco), non si propone come uno spettacolo d’epoca, ma come una ricerca di sensibilità, di trame invisibili, di ideali corrispondenze con un mondo di mitologie dorate e di aristocratici fantasmi. […]
A questa festa riccioluta ed edonista, tutta saltelli rapidi e ariosi ricami gestuali, i ballerini partecipano nelle incantevoli mises di Hermès: gonne ad ombrello e calze arancio intrecciate di nastri sui polpacci, uomini angelici con fregi d’oro sopra il corpo, colori accesi di soli e primavere nella prima parte, vestiti neri e oro da odalische nella seconda. Un tripudio di fiori, tinte in contrasto, idee saporite in ogni dettaglio ed accessorio, dalle scarpette fino ai guanti e ai copricapo. Garden Party è una storia di farfalle atemporali che nell’iconografia leggiadra di una fiaba esoterica ci sanno dire di un’estraniazione e di un’assenza, di una fuga dal tempo e contro il tempo, nella scansione di un attimo infinito”.
(Leonetta Bentivoglio, Le farfalle di Raffinot, la Repubblica, 11 luglio 1990)
“Si tratta dunque, nelle intenzioni, di un’opera contemporanea costruita con una sintassi antica di due secoli, la sintassi barocca. In opposizione allo scabro “funzionalismo anglosassone” – come lo definisce Raffinot – che ha dominato per decenni la scena coreografica internazionale, egli propone di tornare ad un’equilibrata e intellettualmente ben temperata commistione di linee di spinta funzionali – quelle che presiedono alla formazione dinamica del movimento – e di ornamenti, pura e semplice, e raffinata decorazione del movimento nella sua forma più essenziale.
L’ipotesi è seducente e la realizzazione assai interessante, tutta giocata sulla falsariga della favola antica di Cendrillon (Cenerentola), rubata solo per immagini-chiave custodite nella nostra comune memoria infantile e riprodotta per frammenti, così da tener desta l’attenzione e la tensione drammaturgica pur senza però mai accordarle una formalizzazione risolutoria”.
(Donatella Bertozzi, Vi racconto Cenerentola ballando, Il Messaggero, 14 luglio 1990)
“Purtroppo il ponte lanciato tra il Settecento e il Novecento rimane solo nelle note del programma, nelle parole del coreografo e nella scansione coreografica in quadri che se rispondono nello spirito alle “Entrée” barocche, risentono del procedere frammentario della nouvelle danse francese. Per il resto il barocco non viene rielaborato ma appare come citazione dotta nelle immagini della vanità e della nostalgia, frequenti nella pittura ad esempio in Dürer, con i danzatori immobili in atteggiamenti melanconici, nella scenografia, un giardino all’italiana, nel linguaggio, dove le settecentesche posizioni delle braccia, gli “entrechat” e i “pas de bourrée” vengono assemblati ma non amalgamati a “arabesque” classici e a cadute e recuperi di peso presi in prestito da Merce Cunningham.
La mancanza di fusione avviene anche con la musica di Michael Nyman: ai crescendo e accelerando della partitura, corrisponde una danza raggelata, che scorre piatta e priva di energia, animata solo dai costumi kitsch firmati da Hermes, che a citazioni barocche unisce gli anni cinquanta e grandi mantelli hollywoodiani”.
(Francesca Bernabini, Solo una citazione dotta della vanità e della nostalgia, Corriere della Sera, 11 luglio 1990)
Crediti
Ideazione e coreografia François Raffinot
Ensemble Barocco
Musica Michael Nyman
Regia Marcellin Aubin, Vincent Combret
Scenografie e allestimenti Ma-Jo Coppens
Suono Emmanuel Chuilon
Ideazione e realizzazione dei costumi Ateliers Hermes-Parigi, con la direzione di Tan Giudicelli
Luci Vincent Combret
Assistente ai costumi Guilène Lloret
Assistente alla coreografia Jean-Christophe Boclé
Interpreti Jean-Christophe Boclé, Claire Chancé, Shona Hammonds, Simone Hecquet, Miretxu Housset, Bruno Lehaut, Marie Geneviève Massé, Virginie Mirbeau, Priscilla Newell
Produzione Festival International Montpellier Danse 90, Arsenal de Metz, Théâtre Contemporain de la Danse, ADAMI
Direttore di produzione Guilène Lloret