La nuova elettronica ha trovato in Ben Frost uno dei suoi interpreti più sensibili e celebrati tanto da riuscire a imporsi grazie alla ricchezza dei suoi interessi: con “Aurora” presenta la sua ultima avventura nel suono, tra percussioni, guerre e Africa. Tipo curioso Ben Frost, nel vero senso della parola, cioè di inquieto ricercatore spinto dalla curiosità: australiano residente in Islanda, per la sua musica si è ispirato al minimalismo sinfonico americano quanto al rock progressivo e al punk. Nella sua carriera ha realizzato dischi originali, ma si è anche ispirato a film e romanzi (“Solaris” a esempio), ha poi creato colonne sonore per cinema (come per “Sleeping Beauty” di Julian Leigh), musica di scena per balletti e perfino curato la regia di un adattamento teatrale del romanzo di Lain Banks “La fabbrica degli orrori”. La sua ultima avventura, “Aurora”, nasce da un lungo soggiorno in Congo nel 2012 assieme al video artista Richard Mosse che voleva documentare il sanguinossissimo conflitto in corso nel paese africano. In questo clima nasce “Aurora”, scritto inizialmente su un computer portatile e poi sviluppato e inciso nel 2013 con Greg Fox, Shahzad Ismaily, e Thor Harris, batterista degli Swans. A differenza del passato qui non ci sono chitarre: ad animare l’elettronica di Frost stavolta è la forza e l’energia delle percussioni, un dissimulato amore per la musica africana, probabilmente retaggio del suo soggiorno in Congo e della sua collaborazione con Brian Eno, di cui è stato discepolo nel Rolex Mentors and Protégés Initiative. Pur diviso in vari brani, “Aurora” si presenta come un’unica arcata al cui centro troviamo “Venter”, ispirato al biologo e imprenditore statunitense Craig Venter, che con la sua équipe ha per primo pubblicato la sequenza del genoma umano, vale a dire la radice della vita come pulsazione profonda tra echi di guerra e la grande madre Africa.
Crediti
elettronica Ben Frost
batteria e synth Shahzad Ismaily