Come di consuetudine, la chiosa alle performance del terzo appuntamento del Waiting for DNA 2014 è assegnata alle riflessioni della scrittrice e studiosa Ada d’Adamo, la quale nella sede dell’Opficio Romaeuropa dibatte la questione dai molteplici aspetti della forma del solo nella danza contemporanea. Gli spettatori hanno assistito durante la giornata a due performance appartenenti a tal genere : Il volume com’era di e con Caterina Basso e Attraversamenti – abstract view n.8 di e con Manfredi Perego. La continuità tra proposte artistiche presentate e dibattiti teorici risulta un elemento innovativo e coadiuvante lo spettatore alla comprensione – o alla semplice conoscenza – dei lavori visionati, spesso di difficile fruizione.
La D’Adamo fornisce una breve storia del genere del solo, iniziando con una premessa linguistica. Si tende generalmente a definire le coreografie che vedono in scena un unico danzatore “assolo”, ma tale uso e abuso pragmatico è da ascriversi a un errore storiografico. Questa forma artistica agli inizi del ‘900 prevedeva sì la caratteristica monadica della composizione, ma la paternità della coreografia era da attribuirsi ad un autore altro dall’interprete: quest’ultimo si limitava infatti ad eseguire una partitura gestuale etero-composta e a nutrirla con la sua interpretazione individuale. Nella danza contemporanea invece, il danzatore è anche autore della coreografia; è opportuno dunque modificare la terminologia corrente che vede abituale l’uso del termine ‘assolo’ – indicante lo staccamento da un gruppo – sostituendovi il più adeguato solo, conferente una sfumatura maggiormente enfatizzante la solitudine e performativa e compositiva del performer/autore.
Arrivando ai lineamenti storici in merito al genere sopra definito è possibile individuarne la fortuna agli inizi del ‘900 come contrapposizione al balletto accademico: in questa fase storica il danzatore esprime la sua poetica corporea e la sua bravura tecnica esibendosi in un esercizio virtuosistico che non manca di una forte nota intimistica. Proprio in virtù dell’opposizione a forme coreutiche tradizionali, il genere dell’assolo rappresenta una rivoluzione etica ed estetica d’avanguardia veicolante la contemporaneità, dove diventa solo e oltre a mantenere come linea distintiva l’espressione dell’intimità del performer/autore assume anche caratteri di parodia, di citazionismo post-moderno e di confronto con il dispositivo tecnologico. Tali intenzionalità drammaturgiche sono riscontrabili in opere cult del genere, ovvero La Argentina sho di Kazuo Ohno (1977), Blue Lady di Carolyn Carlson (1983), Solo mit sofa di Reinhild Hoffmann (1977) e Im bade wannen di Suzanne Linke (1980) – per citare solo alcuni titoli dei più importanti coreografi internazionali del secolo, provenienti da stili e scuole di vario tipo – Ohno guru del Butoh, la Carlson lead soloist della compagnia di Alwin Nikolais, Hoffmann e la Linke antesignane insieme a Pina Bausch del Tanztheater .Estratti dal panorama italiano della danza d’autore degli anni ’80 invece, spiccano i solo di Giorgio Rossi Balocco (1982) e di Raffaella Giordano Fiordalisi (1995). Più recenti infine, due celebri solo simili tra loro : Double Points: One (1999) della Emio Greco_PC dove il coregorafo e danzatore sfida il Bolero di Maurice Ravel e Hunt di Teero Saarinen (2002) – re-interpretazione de La Sacre du Printemps di Igor Stravinsky; in entrambi i fortunati lavori avviene il confronto con la tradizione veicolata dall’interpretazione personale in forma altresì di sfida con il repertorio classico.
Nel passaggio dal solo d’avanguardia a quello contemporaneo è da riscontrare una perdita dell’istanza rivoluzionaria e un accento più marcato sulla condizione di isolamento e autarchia del performer/autore. La conseguenza di tale aspetto è la maggior portata del rischio rappresentato dal giudizio spettatoriale incentrato unicamente sul performer, il quale mostra il suo corpo come unico punto focale dello sguardo altrui e dunque deve possedere un alto livello di esperienza e un rigido controllo di sé. Sul piano drammaturgico, il testo presentato e interpretato è il proprio Io, la propria corporeità, la propria esperienza artistica e tecnica.
Esaminando la scena italiana contemporanea, emerge un paradosso. Spesso infatti il solo non è un punto d’arrivo per un coreografo ma un punto di partenza – eppure si è appena sottolineata la necessità di grande esperienza e alta formazione. Ora, visto che sul piano della produzione artistica questo genere è estremamente abbordabile come costi e allestimento, appare inevitabile il legame di causa-effetto tra i due fattori. Il quadro si completa e si complica con una riflessione di carattere sociologico. In un periodo storico di forte crisi economica – dove i finanziamenti alla cultura sono sempre più scarsi e mal riposti – forse il solo torna ad avere carattere rivoluzionario nel senso di dare voce a chi si vorrebbe far tacere ? Nel dubbio che questa condizione derivi da una scelta artistica o da convenienze produttive , rimane il dato della garanzia dell’espressione della sua visione personale in merito alla qualità del corpo in movimento, e alla danza in generale. Lo stato delle cose che si è delineato comporta la scelta di una diversa tipologia di dispositivo scenico differente dal teatro – centri sociali, luoghi site specific, spazi adibiti a uso performativo ma originariamente destinati ad altri usi – oltre a far vertere la ricerca dell’autore su ciò che il corpo ha a disposizione in maniera più immediata, ossia lo spazio, la gravità, il volume, il vuoto.
I ragionamenti fin qui descritti vengono chiariti ulteriormente dagli interventi di Manfredi Perego e Caterina Basso al termine del dibattito. Sollecitato dalla d’Adamo in merito al tema dell’impronta autoriale del suo lavoro e sulla sussistenza di una drammaturgia alle spalle di esso, Perego sostiene che la sua è una ‘drammaturgia della necessità , intima, che si confronta soprattutto con lo spazio personale dell’animo’ elemento immancabile – come già evidenziato – nella forma del solo. In merito ad un eventuale collaborazione con un dramaturg, Perego afferma che potrebbe essere importante, anche nell’eventualità di invasione nel suo spazio e di scontro con la sua poetica; un rapporto da calibrare appropriatamente in futuro per ‘aprire e chiudere finestre‘ . Inoltre il suo lavoro Attraversamenti costituisce già un progetto artistico dotato di una drammaturgia, seppur a-narrativa: fondamentale è il rapporto con il luogo site specific dove si ambienta di volta in volta la sua performance di improvvisazione – potrebbe dunque definirsi come una ‘drammaturgia del momento, del qui ed ora‘. Manfredi racconta inoltre, quale suggestione coreografica, come nel suo lavoro il contatto con lo spazio performativo inneschi una reazione istantanea e spontanea, veicolata dal tappeto sonoro costituente un appiglio ma non una linea direttrice prevaricante. La partita infine, si gioca tra il performer e lo spazio scenico.
Caterina Basso è al suo primo solo – Il volume com’era -. e sostiene che la danza ‘va vissuta e non capita’. Il fascino di tale forma artistica è proprio il suo essere anti – intellettualistica, ambigua, portatrice di significati non affatto univoci, dove il corpo segna un sottile confine tra astrazione e narrazione. La performer e autrice spiega al pubblico che nel comporre un solo, per il danzatore che si fa autore, è inevitabile un forte auto-giudizio, nonché la presenza di una serie di limiti drammaturgici – uno fra tutti la completa solitudine nel comporre una partitura gestuale. Lo spazio ovviamente ha un ruolo fondamentale così come il tempo e il suono; la direzione – secondo la Basso – è spesso quella di seguire un ‘filo personale‘, individuando una tappa di ricerca per la formazione di un linguaggio proprio.
Tra interessanti nodi di ricerca e ragionamenti socio-artistici estremamente attuali, si conclude il fortunato innesto tra visione delle performance, lineamenti teorici e sguardo degli artisti.
Angela Bozzaotra