Dal capolavoro The Yellow Shark, alla nuova creazione di un maestro del teatro internazionale come Peter Brook, per approdare ai ritmi scatenati di Hofesh Shechter, REf18 si prepara a giornate intense di grande teatro, danza e musica. Giorni in cui progetti apparentemente distanti s’incontrano mostrando diverse facce di una stessa realtà, raccontandoci mondi fatti di energia, intimità, parole sussurrate oppure taglienti come coltelli agitati nell’aria.
Il 10 ottobre in Auditorium Parco della Musica è il Maestro Peter Rundel a dirigere, per la seconda volta dopo il suo debutto a Francoforte nel 1992, musiche dall’opera immensa The Yellow Shark firmata da Frank Zappa. A eseguirla sarà l’Ensemble Giorgio Bernasconi dell’Accademia Teatro alla Scala. Un vero e proprio appuntamento con la storia della musica che alle 20:30 sarà anticipato da un’introduzione a cura di Ernesto Assante e lo stesso Rundel nell’ambito dei talk realizzati in collaborazione con Robinson – la Repubblica.
Dalla musica al teatro con Peter Brook e la sua ultima creazione The Prisoner, creata con Marie-Hèlène Estienne, in scena al Teatro Vittoria dall’11 al 20 ottobre. Un cast multietnico per affrontare i temi della punizione, della giustizia e del crimine: «Il punto di partenza è un’esperienza che ho vissuto personalmente e che ho raccontato anche nel mio libro I fili del tempo. Ero in Afghanistan, quando incontrai l’uomo a cui poi nello spettacolo ho dato il nome di Ezechiele. Quest’uomo mi invitò, con insistenza, ma senza nessuna spiegazione, ad andare a far visita a un suo allievo, colpevole di un crimine impronunciabile. Andai dunque a cercare questo giovane e lo trovai seduto, immobile, all’aperto, di fronte a un’enorme prigione. Scambiai con lui qualche parola, mi offrì del cibo che non ebbi il coraggio di accettare. Rimasi con lui per un po’. Tante erano le domande che avrei voluto porgli, ma una su tutte: quale colpa hai commesso per meritare una tale punizione? Ma non osai fare né questa, né altre domande. Non ho mai più rivisto quell’uomo, ma la domanda è rimasta viva in me per tutti questi anni» ci ha raccontato Peter Brook. E qui alcune immagini tratte dallo spettacolo.
Un piccolo salto nel futuro (ci spostiamo alla prossima settimana e precisamente al 17 ottobre) con l’energia trascinante e irresistibilmente rock di Hofesh Shechter e il suo Grand Finale, un valzer per la fine dei tempi (come lo ha definito il The Guardian) allo stesso tempo comico, cupo e meraviglioso eseguito da una potente tribù di dieci danzatori accompagnati da sei musicisti. Afferma Shechter: «Grand Finale è un titolo che volevo usare da tempo. Ho pensato che fosse meglio farlo adesso che sono giovane. Per me è molto divertente! Mi eccita questa sensazione, una nave che sembra affondare, ma che in realtà rimane sempre a galla. Apre il campo all’orribile e al meraviglioso allo stesso tempo, alla speranza e alla tristezza. Che lo spettacolo ti intristisca o ti sollevi, dipende solo da te. È così anche nella vita…».
E (moving backwards) se fino al 14 ottobre di vite ai margini continuano a raccontarci Daria Deflorian e Antonio Tagliarini – qui intervistati da Anna Bandettini su la Repubblica – con il loro Quasi niente ispirato a Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni (a proposito proprio domenica vi aspettiamo in sala per l’appuntamento con Post it, incontro con gli artisti al termine dello spettacolo condotto da Lorenzo Pavolini); di identità e d’incontro con l’altro ci parleranno l’iraniano Ali Moini e la cinese Wen Hui.
Quanto è veramente possibile avvicinarsi a un’identità distante da noi? È da questa domanda che nasce la performance My Paradoxical Knives dell’iraniano Ali Moini, eclettico coreografo nato a Shiraz nel 1974. Il 13 e il 14 ottobre presso l’Accademia di Francia a Roma – Villa Medici lo vedremo impegnato con dei coltelli affilati tra i movimenti alla base della pratica roteante dei dervisci e le poesie di Rumi, poeta Sufi del XIII secolo, per interrogare la forza delle tradizioni, ma anche le misure di sicurezza poste nella relazione tra artista e pubblico o la percezione di minaccia dinanzi a una cultura diversa.
E non sarebbe sbagliato pensare che dalle stesse domande parta la coreografia Red – A Documentary Performance della cinese Wen Hui. Un’altra cultura, un’altra parte del mondo, un’altra lingua: siamo ora nella Cina di Mao, quella della rivoluzione culturale cinese, così ben rappresentata dal balletto The Red Detachment of Women da cui nasce lo spettacolo in scena il 13 e il 14 ottobre al Teatro Vascello. Corpi diversi certo, quelli delle donne che presero parte a questo balletto e di quelle più giovani che oggi ci si confrontano… eppure, nella carne, nel movimento tra questi mondi, sembra giacere una stessa domanda che ci riguarda tutti, che riguarda la nostra memoria e la nostra identità: chi siamo? Cosa custodiano e proteggiamo? Cosa comunichiamo all’altro con le le nostre parole e con i nostri corpi?
A cura di Matteo Antonaci
INTANTO…
Riapriamo la Sala Santa Rita (Via Montanara, 8) con una nuova installazione site-specific interattiva e gratuita a cura di Robert Henke. È proprio questo spazio a spingere l’artista, musicista e ingegnere informatico tedesco a creare un vero e proprio dialogo tra l’architettura e un organismo elettronico animato ancora una volta dai laser e dal suono.
Fasci di luce accarezzano le pareti, punti e griglie saltano sul pavimento e cercano di comprendere, in una danza algoritmica senza fine, i meccanismi che rendono vivo lo spazio. «Questa non è un’installazione» afferma d’altronde lo stesso Henke «ma qualcosa di vivo, una geometria che respira lentamente all’interno di una forma solida».