L’evento previsto, Bach Cantatas, per la regia di Peter Sellars, è stato annullato per la defezione del mezzosoprano Lorraine Hunt Lieberson, che avrebbe dovuto essere la protagonista assoluta dello spettacolo ma che ha invece rinunciato a lasciare gli Stati Uniti in seguito all’attentato dell’11 settembre. Sellars ha ideato, dunque, una serata “doppia”, ribattezzata significativamente Due concerti tra Oriente e Occidente: ad esibirsi sul palco sono infatti Monâjât Yulchieva, la cantante uzbeka già ospite del festival nel 1997, che con il suo gruppo propone al pubblico un repertorio tradizionale di musica sufi, e l’ensemble Concerto Italiano, diretto da Rinaldo Alessandrini, che esegue le partiture di Bach previste originariamente per la spettacolo del regista americano, la Cantata BWV 82 e la Cantata BW 199. “In teatro possiamo stare insieme a chiunque – puntualizza Sellars -, persino con i Talebani. Il compito della cultura è di creare una struttura più forte della separazione. In questo senso, il teatro è un dono prezioso. Solo incontrando l’Oriente, l’Occidente potrà recuperare le sue vere radici. Lo stesso Bach ha realizzato arabeschi e sarabande senza mai muoversi dalla Germania. Evidentemente aveva subito da lontano l’influenza di altre culture. Ma è necessario anche cercare di ristabilire un equilibrio, e un dialogo alla pari con le altre civiltà” (Corriere della Sera, 24 ottobre 2001).
JOHANN SEBASTIAN BACH: CANTATA ICH HABE GENUG BWV 82
Cantata composta per la festa della Purificazione di Maria, testi di anonimo
creazione 2 febbraio 1727, Leipzig
La Cantanta BWV 82 è divisa in cinque sezioni – tre arie che si alternano con due recitativi – ed è affidata ad una voce solista. Quest’opera fu scritta, in origine, per una voce di basso, ed è stata successivamente rimaneggiata per soprano, nel 1731, ossia quattro anni dopo la prima versione. Il testo è una successione di parafrasi sul “nunc dimittis”: parole di Simeone il vecchio, che aveva ricevuto da Dio la promessa che non sarebbe morto prima di aver veduto il bambino Gesù.
Il tono iniziale, con le aperture dell’oboe, immette immediatamente l’ascoltatore in un contesto funebre: ma la consolazione non tarda a venire, grazie alla dolce berceuse della seconda aria, Schlummert ein, ihr matten Augen, ossia “Lasciate che il sonno vi invada, prostrati occhi”. Se l’ultimo recitativo, l’addio al mondo, ricorda la gravità di un simile momento, l’aria finale, con i vocalizzi sulla parola “freue” (mi rallegro), impone l’idea essenziale: una morte a lungo attesa e accettata con gioia come l’adempimento di una promessa.
INTERVISTA A PETER SELLARS
a cura di Gioia Costa
La sua curiosità per gli incontri fra culture lontane l’ha portata a esplorare forme diverse. Perché ha scelto Bach, che sarà eseguito anche nel nuovo concerto?
Ho passeggiato tutto il giorno, e il barocco è morbido come il corpo umano, come le strade di Roma, mentre l’America è dritta, alta, razionale. Le architetture decidono l’anima di chi abita la città. Ecco il primo incontro. Bach è più antico: con un gruppo di musicisti a Boston ho lavorato dieci anni in una chiesa nella quale, ogni domenica, si suonavano le cantate di Bach. Sono duecento, e pochi le conoscono. È lui il grande maestro e la sua musica aiuta a capire la vita. Ogni cantata ha un tema, non è mai un intrattenimento. Purtroppo Lorraine Hunt Lieberson non se la è sentita di venire: la paura bisogna vincerla ma, quando c’è, va rispettata. Bach è sopravvissuto per secoli, resisterà anche a questo. Invece i due concerti saranno un appuntamento spirituale.
Perché ha unito Bach nella direzione di Rinaldo Alessandrini alla musica sufi della cantante uzbeka Monâjât Yulchieva?
Monâjât è una delle grandi interpreti del mondo, e la musica sufi è basata su una disciplina che parte dall’interno: noi occidentali siamo abituati a qualità esterne, e lavoriamo sulle tecniche, mentre nella loro tradizione il suono nasce dalla concentrazione, dall’apprendimento del respiro, dalla disciplina del fiato che insegna l’estasi. Nella musica sufi la voce si innalza in volute, come fa Borromini. In questo, somiglia a Bach: il loro senso della calligrafia vocale tocca le forme più alte della rappresentazione spirituale. Ciò che si vede nell’architettura, nella scrittura e nella musica islamica, esiste anche nel barocco europeo. Questi due concerti uniscono Oriente e Occidente per ricreare un dialogo che si è interrotto solo negli ultimi cinque secoli, che storicamente non sono molti.
Lei propone un incontro tra culture lontane in un periodo di ibridazioni fra arti diverse: cosa pensa della contaminazione tra generi e stili?
In Cina un poeta è anche un pittore, in India un musicista è anche un ballerino, fa parte della loro tradizione. Anche in Grecia tutto era suono e danza e poesie e musica. Abitiamo lo stesso pianeta, e dobbiamo imparare a condividerlo. Come fare?, è questa la domanda. Anche nell’arte, dobbiamo trovare il punto d’incontro. Non ci sono più confini economici, politici, linguistici: eppure la vicinanza ha generato insicurezza. Se solo ci perdiamo di vista ci sentiamo storicamente soli. Il capitalismo si sposta come il mercato, con facilità, ma i singoli sono paralizzati dalla paura, pensi a Lorraine a New York. Il compito dell’arte è aprire le frontiere.
Secondo lei, cosa può dare l’Occidente all’Oriente in questo momento, e cosa può prenderne?
Molto, come ha sempre fatto. Ma gli incontri dipendono dal grado di intimità, nella vita e nell’arte: la non conoscenza impone gentilezza e uno scambio formale. […] Bisogna vincere la sfiducia, che è profondissima. Serve pazienza e lo sguardo rivolto lontano. Un po’ di lungimiranza.
Qual è il ruolo dell’arte oggi?
È successa una cosa importante, nella creazione: non esiste più la firma sotto l’opera, il capolavoro come idea. Quei tempi sono finiti. Ogni opera è un corpo a lavoro, e nulla si può separare, nulla si conclude. L’arte indica, aiuta a scegliere, a vedere, ma è il singolo che decide. L’arte fa capire dove si arriva prendendo una direzione… offre una visione. È importante e delicato, il suo ruolo.
Intende una visione del mondo o uno squarcio?
Ciò che manca nel mondo e nella politica è l’Utopia. Inibiamo ogni slancio sotto uno scetticismo che offusca tutto. Basta cambiare livello per ritrovare la voglia di fare. Il cinismo è delle società ricche, quelle povere lo ignorano. Compito dell’arte è dare ideali, ispirazione: questa è la visione. Siamo circondati da miracoli e non li riconosciamo, vediamo solo coincidenze. Mandela dopo ventisei anni di prigione è diventato il presidente del Sudafrica: l’arte deve ricordare alle persone che accadono cose straordinarie, come quella che è successa a Mandela.
Lei frequenta il cinema, la televisione, la musica, il teatro. Quali sono le loro diverse specificità?
Ogni forma ha le sue leggi: io arrivo sempre da un’altra esperienza e posso chiedere cose che altri non potrebbero. Conosco le leggi del cinema, ma non le possiedo. Quindi sono libero, è un felice paradosso. Posso chiedere alla musica di pensare con la mente del cinema. Ma il mio grande amore è il teatro, perché è una combinazione di musica, gesto, pittura. È la forma più sintetica che esista, e questo lo rende infinito. Come gli uomini: si formano con gli incontri, con il tempo che dedicano alle cose. Per questo è importante scegliere chi ci accompagna […].
(Gioia Costa, Caro Bach, il canto sufi fa per te, l’Unità, 25 ottobre 2001)
JOHANN SEBASTIAN BACH: CANTATA MEIN HERZE SCHWIMMT IM BLUT BW 199
Cantata composta per l’undicesima domenica passata la Trinità;
testi di Georg Christian Lehms (1711) e Johann Heermann (1630);
creazione 12 agosto 1714, Weimar
Si conoscono ben quattro versioni di questa cantata, ciascuna delle quali presenta differenze nella strumentazione: prova che Johann Sebastian Bach amava profondamente quest’opera e, malgrado i pressanti ritmi di produzione cui era soggetto, cercò continuamente di lavorarvi nella prospettiva di un “miglioramento”.
La Cantata si apre con una confessione di violenza estrema. È la confessione di un peccatore, disperato per la gravità dei peccati che ha commesso. Sangue, mostri, tortura, vizi e disperazione: queste sono le parole che Bach mette in musica nel primo recitativo, Mein Herze schwimmt in Blut, ossia “Il mio cuore è sommerso di sangue”. Si avverte, però, un modo estremamente riservato di accostarsi ad una materia così bruciante, un narrare quasi privo di pathos, come se solo la dignità possa giustificare la veridicità della confessione. Il resto della cantata, come questo incipit, è scritto per voce solista: non fa eccezione neppure il corale.
La Cantata è come la scena di un’opera di tema spirituale: narra il percorso di un’anima sulla via del pentimento. Così l’aria che segue è dedicata alle silenziose lacrime del peccatore. È un momento in cui Bach utilizza, con straordinaria e suggestiva economia, i mezzi che mette in gioco: un continuo assai sobrio, un canto d’oboe, assolutamente necessario, che contrappunta sapientemente la voce.
Nel corale, che rappresenta il momento in cui l’anima sembra aver trovato una rinnovata serenità, la voce, circondata di particolare sollecitudine, si libera dalle leggi della gravità. L’opera si conclude quando l’anima è certa della salvezza: l’aria finale non è solo il momento più gioioso della cantata (e forse il solo), ma è anche il momento in cui il canto si espande più liberamente. Il momento in cui Bach, pur restando fedele alla scelta di una struttura essenzialmente minima, conferisce al tessuto orchestrale uno spessore sorprendente e di struggente fascino.
Rassegna stampa
“L’esperimento è riuscito sia per la perizia degli esecutori che per il momento attuale, scelto a dimostrare, secondo il regista, che è possibile nel nome dell’arte un’intesa fra mondi anche differentissimi, contando sui valori dell’uomo e sui suoi comuni grandi sentimenti. È così che il folto pubblico ha applaudito calorosamente prima l’ensemble semplice, tradizionale e concertistico dell’Alessandrini, impegnato con clavicembalo, flauto oppure oboe, archi e il cortese soprano Gemma Bertagnolli, a interpretare il mondo cristiano, logico e passionale di Bach e poi la Yulchieva con il suo complesso multicolore (in costume uzbeco) e fornito di liuti, percussioni e fiati locali a perdersi negli sconfinati deserti o nelle suggestive notti e luci di Allah. La cantante ha sciorinato davvero incredibili inflessioni nasali, insolite tessiture, effetti d’eco, portamenti ancestrali, pescando nella tradizione sufista e nei segreti del maqam; i concertisti italiani si sono tuffati nel perfetto stile di arie alternate ai recitativi evocando l’intimo del cristiano peccatore sollevato, o pago, nell’agonia, della vista di Gesù”.
(Renzo Bonvicini, Sellars, la musica e le culture diverse, Il Tempo, 27 ottobre 2001)
“In alternativa, è nato un parallelo ideologico tra Oriente e Occidente, un confronto tra i due mondi, le due culture. Il misticismo, la spiritualità, il senso della morte di entrambi. Ma ciò che gli è venuto a mancare era proprio il tessuto connettivo della vocalità di Lorraine. Il fattore espressivo, che in fin dei conti aveva motivato la sua regia [di Sellars, ndr], alla fine gli era rimasta l’arma affettiva, la fiducia nell’incontro fra i popoli. E, soprattutto, il deterrente musicale delle cantate di Bach, il suo impareggiabile contrappunto. Ma anche l’imbarazzo di trovarsi a dissertare ancora, nel terzo millennio come già nel secondo, sulla separazione (il divorzio) tra la Forma e il Contenuto. Il Messaggio, la scintilla tra le due culture sarebbe scoccata comunque se Rinaldo Alessandrini si fosse appropriato dello Spirito dei Tempi, conferendo alla sua orchestra maggiore intensità, visto che le diavolerie dei quattro virtuosi asiatici e la vocalità misteriosa di Monâjât Yulchieva avevano quasi offuscato la vocine limpida e la civetteria del grazioso soprano Gemma Bertagnolli. Il contrappunto di Bach e gli unisoni d’accompagnamento dei liuti asiatici erano comunque troppo distanti fra loro per potersi trovare in sintonia”.
(Mya Tannenbaum, Bach fra i liuti, Corriere della Sera, 27 ottobre 2001)
Crediti
Ideazione Peter Sellars
Musica Johann Sebastian Bach (Cantata BWV 82, Cantata BW 199), Canti della tradizione Uzbeka
Ensemble Concerto Italiano
Direzione Rinaldo Alessandrini
Interpreti Monâjât Yulchieva (mezzosoprano), Gemma Bertagnolli (soprano)