All’interno dei festeggiamenti per il bicentenario della Rivoluzione Francese, a cui è interamente dedicata questa edizione 1989 del Festival, Romaeuropa propone un concerto che raccoglie l’opera di alcuni compositori gravitanti, spesso per motivi diversi, nella Parigi degli anni echeggianti di impulsi rivoluzionari.
Mozart da Salisburgo, Cambini dall’Italia e il francese Méhul, che forse più di tutti ha legato il proprio nome agli ideali giacobini, seppero nutrire la loro musica con il particolare temperamento che circolava nella capitale in quel tempo: di Mozart viene eseguita la Sinfonia detta “Di Parigi”, frutto del contrastato rapporto con l’impresario Jean Le Gros; di Cambini, che occupava un posto di rilievo nel periodo rivoluzionario (arrivando a scrivere gli inni per le grandi feste organizzate da David), la Sinfonia Concertante: La Patriote (1796), capace di citare le stesse note della marsigliese e vero e proprio saggio dell’incontro fra la musica rivoluzionaria e la “Sinfonia concertante”. La Sinfonia N. 1 in sol minore (1808) e la Sinfonia N. 2 in re maggiore (1808 – 1809) del rinato Mèhul hanno chiuso infine il programma, affidato all’interpretazione dell’ensemble Les Musiciens du Louvre, specializzato nel repertorio barocco e noto per l’utilizzo nei suoi concerti di strumenti rigorosamente d’epoca, necessario veicolo alla resa perfetta delle qualità sonore che tale partiture esigono.
SINFONIA DETTA “DI PARIGI”, IN RE MAGGIORE
di Brigitte Massin
Sappiamo già che alla fine di aprile Le Gros ha fatto sparire la Sinfonia concertante. Per qualche tempo (una quindicina di giorni) Mozart rimane in rotta con Le Gros; in seguito, sotto gli auspici di Raaf, i due si riconciliano e Le Gros gli commissiona una nuova Sinfonia; siamo intorno al 15 maggio.
Se si prende in considerazione la lettera del 9 luglio, Le Gros cerca di farsi perdonare con grande imbarazzo. In realtà, agli occhi di Le Gros, Mozart non è un uomo maturo ma un giovane dal grande futuro; bisogna averne cura, ma non accettare tutti i suoi capricci; e noi possiamo ben immaginare come Le Gros con tutte le cortesie, le circonlocuzioni e le amabilità della sua dannata “cortesia francese” sia riuscito a lasciare intendere al giovane “babbeo-tedesco”: “La vostra Sinfonia concertante sarebbe stata un fallimento completo se avessi commesso la stupidaggine di farla eseguire: troppo lunga, troppo personale, troppo strana; per non contrariarvi ve la compro lo stesso e vi do una nuova possibilità; scrivete per me una nuova Sinfonia, ma questa volta seguendo il gusto del mio pubblico, ed io mi impegno a farla suonare”.
Che cosa avrebbe potuto fare Mozart se non accettare?
Possiamo oggi renderci conto della stupidaggine di Le Gros, che rifletteva quella del buon pubblico di Parigi; e ci diciamo decisamente che al posto di Le Gros, trovandoci di fronte ad un capolavoro come la Sinfonia concertante saremmo stati infiammati dall’eccezionale genio di Mozart ed avremmo deciso di imporlo a tutti e contro tutti.
Mozart avrà certo pensato a ciò, a quel tempo, ma se vuole sfondare a Parigi per meritare Aloysia deve accettare le indicazioni di Le Gros.
Il pubblico parigino impazzisce già “dopo la prima battuta di archetto”. Mozart se ne burla, ma li accontenta: il pubblico parigino ama le alternanze di forte e piano, i crescendo alla maniera di Mannheim, gli inizi solenni di ouverture alla francese, i “passaggi” brillanti ed inattesi: Mozart gli offre tutto questo e calcola in anticipo quando lo applaudiranno: calcolo che si rivela giusto al momento dell’esecuzione. Ma allo stesso tempo riesce ad inserire una poesia più personale in un lungo andante e conserva una espressione tipica nell’ultimo pezzo. Pensa di essere riuscito a realizzare un compromesso accettabile fra il gusto del pubblico e la sua estetica. Questo è il giudizio che dà della sua opera il 12 giugno, giorno in cui la portava a compimento: “Ne sono completamente soddisfatto. Ma ignoro se piacerà o meno. In realtà me ne preoccupo poco. Perché a chi potrà non piacere?”. È cosciente della contraddizione insita in queste due frasi? È così ansioso del risultato che ha promesso di recitare un rosario se tutto andrà bene. E tutto va bene: si concede un gelato per mandare giù il rosario ed invia dei bollettini di trionfo a suo padre. Ma il successo fu veramente così trionfale?
Solo un giornale menzionò con elogi la Sinfonia e, invece di farne subito una seconda esecuzione, Le Gros domanda a Mozart di rifare l’andante, pur dicendo molto educatamente che questa Sinfonia è la migliore che abbia mai avuta.
È scioccante ricordare con quale naturale modestia il bambino Mozart andava di successo in successo senza porgervi attenzione e vedere come ora invece si attacchi a tutti gli applausi per tramutare, agli occhi di suo padre, un’onorevole accoglienza di stima in una vittoria eclatante. Questo cambiamento, accompagnato da un crescente disprezzo per il pubblico, non è il mutamento di un carattere invaso dalla vanità: in realtà è solo un’accusa contro la società che gli è intorno, mette in luce il divorzio che si crea fra questa e l’estetica di Mozart.
MUSICA E RIVOLUZIONE FRANCESE
(estratti di un’intervista a Nikolaus Harnoncourt di Alain Louy e Helga Fintek, in Art Press, 1789: Revolution Culturelle Française)
Sono stato sempre convinto che non esiste una musica che sia semplicemente “bella” o “buona”, ma che ogni musica, ogni orchestra, ogni compositore è anche al servizio di una causa. Si prenda l’esempio della musica del tamburo, c’è chi ritiene che il tamburo batta e chi ritiene che sia battuto. La musica serve sempre a qualche cosa, alla religione o allo Stato e quasi sempre ciò avviene in modo tale che gli uomini non se ne rendono conto. È così già dal tempo dei Greci, e probabilmente avveniva anche prima; la musica è ancorata a delle realtà sociologiche. La musica di guerra ci fornisce evidentemente l’esempio più tipico; attraverso la musica gli uomini devono dimenticare che fanno qualche cosa di terribile o che hanno paura. E quello che si deve fare è determinato molto precisamente dal punto di vista musicale. Un esempio molto interessante: già nel XVIII secolo, nelle marce francesi, vi è un termine appropriato per indicare ciò di cui parliamo, “slancio di terrore”. L’espressione vuole ritmare sia la velocità di queste marce che incitano una andatura assolutamente contro natura, capace sia di esaltare coloro che marciano che far paura agli altri.
Nella musica del XVIII secolo troviamo un linguaggio musicale che diventa sempre più complicato, sempre più esoterico, che esige una comprensione sempre più grande. C’è molto da imparare nell’ordine della grammatica musicale e della filosofia musicale per capire la musica di Bach o quella di Händel.
È proprio grazie alla fondazione del Conservatorio e alle tesi di Cherubini e di altri compositori, che, a seguito di tutte queste opere di studio (per violino e per strumenti a fiato) viene dichiarato per la prima volta, con la Rivoluzione Francese, che la musica deve essere messa al servizio della politica.
Si deve aggiungere che questa è l’epoca in cui viene elaborato un sistema di studi e di esercizi. Per la prima volta l’educazione musicale è organizzata per tutta una nazione. Si pone fine, proprio in questo momento, all’educazione musicale individuale, impartita da un singolo professore. Fino ad allora ogni buon musicista aveva avuto (come ciascun buon falegname o artigiano) qualche “apprendista” che imparava secondo il suo metodo e lo propagava. Con il Conservatorio tutto questo viene reso omogeneo, centralizzato. Per la prima volta viene creata una istituzione centralizzata, fondata sull’idea che tutti i musicisti di questo paese dovevano essere educati secondo lo stesso sistema. Gli stessi strumenti vengono trasformati per poterli integrare sempre di più in questo sistema unificato.
I frutti di tutto questo lavoro si trovavano, in quel momento, nell’Orchestra del Conservatorio.
Wagner fu entusiasta di questi musicisti che suonavano seguendo uno stesso sistema, quello dei grandi movimenti di archetto. In seguito, ormai anziano, dirà che non aveva mai compreso così bene le grandi figure musicali della 9° Sinfonia di Beethoven come con l’Orchestra di Parigi, con il suo grande legato (era la sua concezione di questa Sinfonia). Diceva che erano loro ad avere l’idea più moderna del legato, dell’esecuzione unificata.
Bisogna proprio dire che i Tedeschi non avevano adottato questa, che possiamo chiamare, filosofia della nuova musica […]. Mentre Wagner era ancora vivo, in Germania si suonava in maniera ancora più “barocca” che in Francia. Ed ecco, è questa, secondo me, la trasformazione più essenziale che ha coinvolto la musica di questo periodo.
I compositori hanno poi cercato di lavorare in questa direzione. Mi sembra che anche Beethoven ne sia stato in qualche modo influenzato, dal momento che inizia ad indirizzarsi verso il grande legato nelle sue opere tardive, e credo che sia stato influenzato anche da queste terribili marce francesi: per esempio, le marce nel Fidelio vanno fortemente in questa direzione (il più delle volte, al giorno d’oggi vengono suonate troppo lentamente, ma la loro concezione è proprio quella).
La Rivoluzione Francese, sul piano artistico, non è un semplice punto di partenza, è anche il risultato di una evoluzione. Oserei dire che l’evoluzione di Goethe si muove nello stesso senso naturalista e romantico. Queste idee di esemplificazione erano già là presenti. Ma forse non erano state altrettanto esplicitamente esposte.
L’Italia è un caso a parte, non significativo nell’evoluzione generale. Certamente la Francia e la Germania sono state influenzate in qualche maniera dall’Italia, ma in Francia vi è stata sempre una grande opposizione nei confronti di questa influenza italiana. Si diceva, è il caos, noi vogliamo la chiarezza, l’ordine, e gli italiani ci portano solo il caos; c’è troppa fantasia, le idee sono troppo slegate fra loro.
Ci troviamo di fronte ad una grande differenza nella maniera di pensare: da una parte la ricerca di una chiarezza cristallina, di una idea che possa essere seguita nella sua argomentazione, la cui complessità supponga un ordine e, dall’altra parte, al contrario, il modo italiano, un modo di pensiero fiorito e fantastico, che potrebbe apparire disordinato.
È un’opposizione di cui possiamo seguire le tracce con Lully e Rameau, fino a Gluck e Puccini.
Ciò che colpisce, è che la codificazione elaborata dalla scuola francese del Conservatorio è ancora oggi alla base di tutto l’insegnamento per gli archi. Questo comporta, allo stesso tempo, un grande rischio, perché chi impara oggi a suonare il violino su questa base, suona Bach, per esempio, alla stessa maniera. Cosa che è evidentemente sbagliata.
L’antica tecnica è stata realmente cancellata e ci è voluto un tempo relativamente lungo per ricominciare ad amare e stimare musica complessa. Penso per esempio a Berlioz, che scrive una musica che si può definire molto semplice […]. È una musica che si può suonare con mille uomini nell’orchestra, all’aperto, e che è capace di entusiasmare una città intera, senza problemi.
Una generazione più tardi, abbiamo Brahms, dopo poco meno di una generazione c’è Schumann, che ricominciano già a divenire più complessi, a sfidare l’ascoltatore.
Penso che un processo di semplificazione simile si sia verificato duecento anni prima, agli inizi del Barocco. Immaginate la complessità dell’arte dei mottetti e dei madrigali del XVI secolo e la semplicità della monodia all’inizio del XVII. D’improvviso, qualche decennio più tardi, ritorna tutto più complesso, viene elaborato un nuovo vocabolario barocco. All’epoca della Rivoluzione, l’idea di base è che la musica deve essere molto semplice perché tutti possano capirla e che il valore emotivo deve essere molto forte. Ma questo non basta, si finisce sempre per aver bisogno di tutte le possibilità della musica ed è per questo che si ritorna all’emotività pura.
Lo stesso Cherubini ha composto molte Odi rivoluzionarie, fra le quali l’Hymne du Panthéon, per il trasferimento delle ceneri di Marat. D’altra parte si è trovato ad avere dei grandi conflitti come direttore del Conservatorio.
Cherubini è un compositore tipico che, in questo periodo di transizione, parla già una nuova lingua musicale, ma rimane difficile dire fino a che punto vi si è identificato personalmente.
Possiamo quindi affermare che i musicisti hanno pienamente partecipato alla Rivoluzione. Hanno accettato con molto entusiasmo il metodo del Conservatorio. Se poi si siano identificati con i suoi retroscena, questo non posso saperlo.
Rassegna stampa
“Da giovedì è cominciato a Villa Medici un ciclo di concerti che prende in considerazione “Le musiche della Rivoluzione”. Ed è una bellissima cosa perché, se non lo si fa adesso, quando mai? Dubitiamo che il tricentenario permetta ai sopravvissuti delle alghe e di non si sa quali altri disastri ecologici di ascoltare compositori recuperati per l’occasione. Chi ci farà riascoltare la Sinfonia Concertante La Patriote di Giuseppe Maria Cambini, livornese virtuoso di violino e viola, già allievo di padre Martini, catturato dai pirati e venduto come schiavo durante una traversata tra la città natale e napoli? La sua Patriote non è che una sinfonia come più classicamente usuale non si può, ma con il correttivo che, di tanto in tanto, vi si incorporano le note della Marsigliese, e così si giustifica il titolo.
Più interessante della Sinfonia di Cambini, è il trait d’union tra il compositore italiano e il Mozart venuto a Parigi a presentare la sua Sinfonia. Cambini gli fece una grande guerra, soprattutto dopo che Mozart lo mise in stato di inferiorità durante un incontro salottiero. L’episodio è quello del film di Forman, solo che a farne le spese è l’innocente Salieri.
In conclusione la Prima Sinfonia di Étienne Méhul, il musicista che più di tutti incarna gli ideali artistici della Rivoluzione. Pressoché obliato, le sue chances sono rinate col bicentenario, insieme alla speranza di risentirlo, perché se lo merita, per un’infinità di ragioni tra cui principalmente l’invenzione ritmica. Gran successo del concerto, grandi applausi”.
(Ivana Musiani, Quando Mozart dava da pensare, Paese Sera, 22 luglio 1989)
“Alle pendici dell’austera Villa Medici, nella frescura dolce degli aristocratici giardini, il Festival Romaeuropa ’89 ha presentato un concerto di autori “rivoluzionari” o considerati tali perché attivi attorno a quel fatidico 1789 di cui ricorre il fantasmagorico bicentenario. Wolfgang Amadeus Mozart, Étienne-Nicholas Méhul e Giuseppe Maria Cambini si sono trovati così fianco a fianco in un’atmosfera che si vorrebbe rivolgitrice e che, a ben ascoltare, si rivela invece legata a leggi musicali piuttosto lineari e non certo sconvolte dall’avvento del Terzo e Quarto Stato. […]
Les Musiciens du Louvre, compagine parigina specializzata nell’esecuzione di repertori antichi, mostrava, nelle intenzioni del suo direttore e fondatore Marc Minkowski, una buona duttilità ed un discreto equilibrio fra le sezioni, anche se la forza delle pagine proposte non sempre risultava adeguatamente trasmessa agli ascoltatori”.
(Carlo Boschi, Una “rivoluzione” di dolci note, Il Messaggero, 22 luglio 1989)
Crediti
Musica W.A. Mozart (Sinfonia detta Di Parigi in re maggiore), Giuseppe Maria Cambini (Sinfonia Concertante: La Patriote), Étienne-Nicholas Méhul (Sinfonia N. 1 in sol minore; Sinfonia N. 2 in re maggiore)
Direzione musicale Marc Minkowski
Ensemble Les Musiciens du Louvre