Unico spettacolo teatrale presente in questa edizione del festival, suona anch’esso come una riflessione politica sugli ideali della Rivoluzione Francese, a partire dai testi di un autore che con essa ebbe un rapporto quanto mai lucido e contrastato, Vittorio Alfieri. Renato Nicolini, già parlamentare e assessore alla cultura del Comune di Roma per nove anni, si cimenta infatti in una rielaborazione drammaturgica di quattro delle sei commedie alfieriane, L’uno, I pochi, I troppi e, soprattutto, L’Antidoto: i temi in questione, neppure a dirlo, riguardano le varie forme di governo, dibattute in forma di commedia con la vicenda del Re Pigliatutto dell’Isola Felice, che, in attesa di un erede dalla Regina, si sente prevedere da un mago la nascita di uno di tre mostri, il senza gambe, il senza braccia, il senza testa. Grazie all’antidoto della Libertà, comunque, il lieto fine arriverà con la nascita di una bella ragazza già in età da marito. La pièce, che si giova anche di canzoni e intermezzi poetici scritti per l’occasione da Nicolini e dal musicista Arturo Annecchino, viene rappresentata, su progetto di Navello, in dodici luoghi diversi dei giardini di Villa Medici, lungo un percorso itinerante che ne sottolinea ulteriormente la natura allegorica e moralizzante di “comte philosophique”.
NOTA A TRE VELENI
di Renato Nicolini e Beppe Navello
Premessa
Tra il 1800 ed il 1803, il conte Vittorio Alfieri di Ventimiglia (da Asti) scrisse sei commedie. Poi morì, morì in piedi, come Tacito racconta dell’imperatore Marco Aurelio, aggrappato alla colonna del letto per non cadere.
Una morte classica, adatta ad un eroe delle sue tragedie. Eppure da tempo il Conte non riusciva più a scriverne, di tragedie. Continuava a “limare” quelle già stampate da anni. Il mondo, così come era, dopo la Rivoluzione Francese, lo faceva ridere di un riso amarissimo e per nulla divertito. Dopo la fuga da Parigi del ’92 aveva viaggiato senza mete per l’Italia, prima di stabilirsi definitivamente a Firenze, sul Lungarno. Da lì aveva indirizzato versi sarcastici e feroci contro i francesi, i “giacobini”, i “philosophes”, nutrendosi quasi esclusivamente di cioccolata, chiuso in casa, senza voler ricevere nessuno.
Di questo umore atrabiliare sono intrise le commedie che scrisse. Quattro di queste sono conosciute come le commedie politiche dell’Alfieri. Nell’ordine, in una stesura faticosa che lo impegnò dall’8 luglio 1802 al 21 ottobre 1802, segnata da notazioni come “svogliato, ammalazzato” e “riavutomo un poco della gamba”: L’uno, I pochi, I troppi, L’antidoto.
Una sorta di rassegna, malinconica e sarcastica, nella quale il “tragico” assume le vesti ed il linguaggio del “comico”, non solo della recente Grande Rivoluzione, ma di tutte le rivoluzioni dalla Persia di Dario, alla Roma dei Gracchi, all’Atene di Demostene, è dunque l’ultima commedia della tetralogia politica alfieriana. Viene quarta, infatti, dopo, come i titoli spiegano già troppo bene, le allegorie teatrali sui governi monarchico, aristocratico e democratico. Attraverso grottesche vicende di sapore e linguaggio aristofanesco, si irride alla speranza illuministica del “buon governo”. Non c’è scampo: in tutte e tre le storie, la corruzione, la stupidità e l’inettitudine dei governanti creano comici quanto apocalittici disastri.
L'”antidoto” a questi veleni, quale può essere? Nell’ultima commedia, il conte Alfieri prova ad immaginarselo, e noi seguiremo le sue tracce.
I tre veleni
Immaginiamo di poter disporre di Versailles, o di un luogo simile, un grande parco con al centro uno specchio d’acqua. Alle 18, davanti ai cancelli di Versailles, tre banditori aprono il loro banchetto. Si tratta di tre banditori assai particolari. Il primo è privo di gambe. Veste l’insegna dell’Uno, e comincia a decantare i pregi ed i meriti della monarchia assoluta. La stessa Versailles non ne è forse un prodotto?
Il secondo è fornito di gambe, ma ha tre teste e gli mancano le mani. Veste l’insegna dei Pochi e decanta i pregi dell’oligarchia. Non era un’oligarchia a governare l’antica Roma, quella delle virtù repubblicane?
Il terzo banditore è privo di testa. Veste l’insegna dei Troppi, ed invita ad entrare nel parco per la strada della democrazia. Esalta l’antica Atene. Dietro di lui, però, si intravede (o si intuisce soltanto?) l’ombra della ghigliottina.
Alle 19 si aprono i cancelli del parco e gli spettatori entrano per assistere allo spettacolo, ciascuno per la via da lui scelta, tra le tre possibili, dunque per il Cammino dell’Uno, o per il Cammino dei Pochi, o per il Cammino dei Troppi.
Lungo le strade gli spettatori si imbattono in azioni, ripetute più volte, o recitate una sola volta, o che si intrecciano, secondo uno stile metà Orlando di Ronconi, metà avanspettacolo (Ambra Jovinelli, clowneries, Fellini).
II pubblico che è entrato non è obbligato a restare sulla via prescelta, può cambiare, mescolarsi, assistere alle performances che avvengono su altri cammini. Tuttavia per quanto sia curioso e svelto sarà sempre obbligato ad una scelta, non potrà mai vedere “tutto quanto avviene”.
Lungo i tre cammini vengono proposte – pressoché senza adattamento – a volte tradotte, a volte nel testo originale – le parti “basse”, aristofanesche, plautine, delle tre commedie dell’Alfieri alle quali i cammini sono intitolate.
Un po’ prima delle 21, all’improvviso, compare un uomo mascherato in costume del Settecento. Anzi, più uomini mascherati in quel costume. Uno è legato alla sedia, un altro, con in volto i segni della malattia e quasi della morte, si aggrappa ad una colonna di un letto; che d’altra parte si trascina dietro, come del resto l’altro, la sedia a cui è legato. Nella sua Vita, il Conte Vittorio Alfieri ricorda un curioso episodio: di come, attratto da un manifesto che annunciava la recita di una sua tragedia si recasse a vederla; e di come, non sopportando il modo in cui i suoi nuovi versi venivano rappresentati, l’avesse interrotta. Con le stesse parole e lo stesso sdegno, le ombre dell’Alfieri interrompono gli attori lungo i tre cammini, e fanno segno agli spettatori di procedere oltre, verso lo specchio d’acqua al centro del luogo.
Una sola delle ombre li accompagna; si svelano le gradinate di un teatro all’aperto e gli spettatori vengono accompagnati al loro posto. L’Alfieri slega dall’ormeggio una barchetta, ed a remi si allontana dalla riva. Le luci rivelano il palcoscenico, sul quale avrà luogo la rappresentazione, in forma di isola piramidale, a tre livelli. Sbarcando sulla scena, l’Alfieri si trasforma nel Gran Mago Mischach, deus-ex-machina della rappresentazione che avrà luogo, L’Antidoto.
L’Antidoto
La scena, come abbiamo detto, è su tre livelli. La sua forma rimanda un po’ all’idea della montagna del Purgatorio come la descrive Dante nella Commedia. Odisseo-Alfieri sbarca su di essa e con Odisseo-Alfieri sbarca la Rivoluzione. Chissà se la sorte di Alfieri sarà diversa dalla sorte dell’Odisseo dantesco. Fatti non foste a viver come bruti… La scena contamina la situazione immaginata dall’Alfieri nell’Antidoto, per cui il primo livello, il più basso, è il regno dei Guastatutto, i plebei, che si affannano a pescare con le sole mani; il secondo livello, più alto e ristretto, è il regno dei Pigliapoco, gli aristocratici, che pescano con la lenza; e il terzo livello che li corona è il dominio di Pigliatutto, il sovrano, l’unico a possedere una rete; una memoria di quanto è accaduto in Francia, dopo la Rivoluzione, a partire dal ’93, data in cui l’Alfieri lasciò Parigi. Così al livello più basso vedremo alcuni segni del Terrore; al livello intermedio, mescolati, segni dell’Ancien Régime e del Direttorio; al livello più alto, l’aquila napoleonica e le insegne del Re Sole. Il linguaggio della rappresentazione tenterà di mantenere nell’adattamento, lo spirito originale: quotidianità, scherzo, tanto più amaro in quanto nella quotidianità e nella ripetizione non c’è responsabilità di catarsi. Il mago Mischach mette in moto azioni che sono – nella prima parte dello spettacolo – soprattutto rivelazioni del significato dei tre luoghi, salendo dal basso verso l’altro. Ma ecco che, in cima alla piramide, si annuncia il tema dell’azione drammatica. Piglianchella, moglie di Pigliatutto, deve partorire ma non può. E non perché “è chiuso e conficcato della pregnante l’utero, strachiuso” per effetto del povero incantesimo del mago Pigliarello e di sua moglie, la levatrice Saviona. Ma perché – come rivela il mago Mischach: “cagion più alta vuoi per ora così“. Piglianchella non potrà partorire finché suo marito, il Re Pigliatutto, non avrà scelto tra le tre possibilità che gli si offrono. Il fatto è che: “Maschio, se il vuoi; ma un mostro or dè assolutamente di tua moglie nascere“. Tre possibilità sono date da scegliere, che ci rivelano il significato dei tre mostri-banditori, che abbiamo visto ai cancelli del parco. La prima è che il figlio del Re nasca “perfettissimo e di mente e di corpo“, “men soltanto / le gambe entrambe, ch’egli non avrà“. Mischach ammonisce il Re che, in questo caso, cresciuto e divenuto erede del Regno, suo figlio “in grande smania verrà di aver le gambe anch ‘ei di suo; / quindi ebbro di potere a centinaia / farà tagliarne altrui, sempre sperando / che troverà quel paio che s’adatti“. La seconda è “aversi un par di gambe come noi, / e aver di più tre teste in vece d’una, / e non gli mancan altro che le mani“. In questo caso, “invidioso della mani altrui /farà troncarle a tutti“. La terza è che “il nasca di corpo robustissimo, e di forza / senza pari, ma il busto senza testa“. L’inconveniente è che al suo tronco “ogni più iniqua testa / or questa or quella, si appiccicherà” tanto “ch’egli il padre e la madre ammazzerebbe / a bella prima adolescenza” e successivamente “non mai frenabile / da niuna forza, quanto troverebbe / tutto sterminerebbe“. Mischach chiama successivamente, per risolvere il dilemma, le ombre di Dario, re di Persia, che parlerà dell’Uno, cioè della monarchia assoluta, del mostro senza gambe; di Caio Gracco, che parlerà dei Pochi, cioè dell’oligarchia, del mostro con tre teste e senza mani; ed infine di Demostene, che parlerà dei Troppi, del mostro senza testa. In questo modo si svela il significato e si completano le storie viste come un avanspettacolo lungo i tre cammini. Le tre azioni con le ombre del passato si svolgono ciascuna al livello di pertinenza, così che si ridiscende la piramide-scena fino a ritrovarci al livello più basso. A questo punto dell’azione siamo giunti alla mezzanotte.
La nascita della libertà
A mezzanotte improvvisamente nel parco esplodono i fuochi d’artificio, nei tre colori, blu, bianco e rosso, della Repubblica Francese. È festa. Sorpresa, meraviglia; perché l’azione drammatica sembra invece giunta ad un punto senza sbocco. Cos’è successo? Anziché uno dei tre mostri, è nata (anziché un maschio) “una femmina celeste“. È la Libertà, antidoto ai mali del sistema politico. Anche se, come ella stessa avrà ad ammonire gli spettatori concludendo la rappresentazione, mentre inizia, e potrà protrarsi lungo la notte, la festa del Bicentenario:
In fin che saggi
Sarete voi, non mi darete nome,
Paghi appien voi di solo possedermi.
Ma se ricchezza, e la fatal sua figlia
Insolenza, vi fan di sé mai ebbri,
Nome allor mi porrete Libertà;
Stolti, allor ch ‘io con voi non sarò più.
Rassegna stampa
“Uno sciame di motivati spettatori ha perlustrato e talvolta anche occluso i corridoi di alte siepi entro cui il regista Beppe Navello aveva stanziato madrigali e recitativi e entr’actes con alterni stazionamenti in radure da fiaba, da visione, da cabale settecentesca. S’è ottenuto l’effetto, non volendo, di far “spiare” un’arte del sarcasmo e del libello, con giocose lacune di senso, e con cesure che in fondo rispettavano l’assunto di uno spettacolo ancora in divenire, se è vero che la veste definitiva, salvo un prologo alludente ai primi tre testi (L’uno, I pochi, I troppi), riguarderà più e meglio la quarta parte, L’antidoto, con programmazione invernale al chiuso.
Questionare sulla percezione, si badi bene, vuol solo essere testimonianza di un rammarico, perché la materia è poi allettante: come non gradire lo scetticismo dell’Alfieri post-Rivoluzione (scrisse la tetralogia nel 1802) avverso al concetto della monarchia, ostile all’idea dell’oligarchia demandata a pochi, non senza una riserva ironica anche contro la democrazia polverizzata nelle mani di troppi? E perché non constatare che la vena dadaista-aristofanesca di Nicolini, inventore di reminiscenze moderne salvo a pescare anche nella Vita, nelle rime e nelle satire di Alfieri, si diletta di profanazioni come fece Voltaire che scherzò con Giovanna d’Arco?
Nel contenitore verde e notturno di Villa Medici non c’era da cogliere un significato, bensì, piuttosto, miriadi di smascheramenti della cultura e dell’etica letteraria”.
(Rodolfo Di Giammarco, Nicolini il “giocoso”, la Repubblica, 21 luglio 1989)
“Le tre principali platee, in cui lo spettacolo si svolge, il “Giardino della Monarchia”, il “Giardino dell’Oligarchia” e il “Giardino della Democrazia”, si allargano dopo intimi vialetti, intasati di spettatori itineranti, sicché il deflusso è lentissimo, l’aria è impedita dalle alte siepi di bosso, e stagnano gli olezzi dell’estate. E giovani impazienti si fanno largo controcorrente, ansiosi di guadagnare l’uscita: ciò che non torna a lode né della loro curiosità artistica, né delle forme dello spettacolo, progettate dal regista Beppe Navello, di cui non abbiamo dimenticato una arriffata serie da I tre moschettieri allo Stabile dell’Aquila. Naturalmente il regista sa, o almeno intuisce le difficoltà dello spettatore volenteroso, e cerca, forzando la voce degli attori e incrementandola con altoparlanti, di farla giungere anche a chi vede poco o non vede del tutto; ma ciò a comprensibile detrimento della espressività degli interpreti di una intricata favola labirintica”.
(Giorgio Prosperi, Spezzatino alfieriano alla Nicolini-Navello, Il Tempo, 20 luglio 1989)
Crediti
Testo Vittorio Alfieri
Drammaturgia Renato Nicolini
Regia Beppe Navello
Musica Arturo Annecchino
Scenografia Luigi Perego
Interpreti Carlo Simoni (il re), Laura Lattuada (la regina), Lombardo Fornara (Alfieri), Patrizia Scacchi (la dama delle buona educazione), Gianluigi Pizzetti (il senza braccia), Fabio Grossi (il senza gambe), Renzo Rossi (il senza testa), Enzo Turrin (il buon mago), Ilaria Galgani, Beatrice Palme, Luca Giordana, Stephen Kramer, Karen Jones
Produzione Beat ’72