Il secondo concerto di Pierre Boulez presentato in questa edizione del festival è un percorso lungo quarant’anni di attività compositiva, percorso che spazia da Douze Notations (1945) a Mémoriale (1986) e che viene rivissuto con entusiasmo da un artista che notoriamente mantiene un dialogo sempre aperto con la sua opera del passato. L’ordine di presentazione dei brani non è cronologico e l’esibizione, affidata nuovamente alla sensibilità dell’Ensemble Intercontemporain, ne dimostra l’immutata carica innovativa: basti pensare a Eclat o a quel Le Marteau sans Maître che rivelò appieno il genio di Boulez al mondo e ancora oggi appare come una delle composizioni più decisive di tutta l’avanguardia di secondo novecento. Da segnalare anche le recenti Dérive, scritta per Sir William Glock in occasione del suo abbandono del Bath Festival, e Mémoriale, omaggio al flautista dell’Ensemble Larry Beauregard, scomparso nel 1985 proprio mentre stava lavorando ad una nuova formulazione di Explosante-Fixe, opera di Boulez del 1970.
ÉCLAT – per quindici strumenti (1961-1965)
di Dominique Jameux
Iniziando dalla graziosissima partitura di Éclat, una sorta di primo modulo di un missile a due o tre stadi vettori, si potrà meglio parlare di un’opera in divenire.
Essa fu eseguita nel marzo 1965 a Los Angeles sotto la direzione dell’autore. Lunga una decina di minuti, essa colpisce per lo scintillio sonoro, l’estrema raffinatezza delle proporzioni, il carattere morbido ed insieme preciso della sua plasticità. L’organico strumentale esprime la scelta quasi edonista qui prevalsa: due tastiere (pianoforte e celesta), tre strumenti a corda (arpa, viola e violino), quattro fiati (flauto contralto in Sol e corno inglese per i legni, tromba e trombone per gli ottoni) e sei percussioni (glockenspiel, vibrafono, mandolino, chitarra, cembalo e campane tubolari): in totale quindici strumentisti.
Questo gruppo cristallino, di tessitura media (prediletto da Boulez) e di grandi possibilità virtuosistiche, si divide in due gruppi che determinano la scrittura della composizione. Da una parte un gruppo di solisti il cui suono si spegne più o meno rapidamente e non può essere mantenuto se non con il trillo: pianoforte, glockenspiel, vibrafono, mandolino e chitarra. Dall’altra un altro gruppo di strumenti dal suono sostenuto – flauto alto, corno inglese, tromba, trombone, gli archi – che possono dunque giocare il ruolo di “fondo sonoro” sul quale s’iscrivono gli interventi dei solisti.
Questa bipartizione degli effettivi strumentali rivela in Boulez la volontà di considerare il timbro in sé, di contemplarlo, di entrare nella sua stessa vita: attitudine che il compositore deriva volentieri da una concezione non occidentale dell’ascolto musicale. L’ascoltatore occidentale, sostiene Boulez (in “Le Temps musical”, musicassetta Radio-France, IRCAM, dedicata ad Éclat, presentazione di Jean-Pierre Derrie), é più interessato dallo svolgimento dell’opera che dalle sue pause, più dagli intervalli, dai ritmi, dalle forme che dalla materia sonora in se stessa. Éclat vuole così proporre un’altra scelta di ascolto, confermando l’inclinazione di Boulez verso certe musiche orientali, già mostrata in Le Marteau sans Maître (ma in maniera completamente differente).
A questa prima preoccupazione esclusivamente sonora – che si rivela per l’ascoltatore l’aspetto più seducente – se ne aggiunge un’altra, altrettanto fondamentale, ma che concerne questa volta il rapporto degli interpreti con la partitura ed il direttore. Per il momento in cui è stato scritto, Éclat partecipa naturalmente di quella libertà controllata che le precedenti opere aperte hanno tentato di definire. Boulez non gioca d’azzardo. Non si affida all’improvvisazione né alla semplice proposta sonora la cui realizzazione sarà affidata agli interpreti. Ma egli intende anche rompere la tradizionale ripartizione dei ruoli tra il compositore-direttore d’orchestra onnipotente e gli interpreti-schiavi! Egli nota che nella musica contemporanea di allora le partiture sono divenute così difficili, le indicazioni talmente numerose e costrittive che l’interprete deve impiegare tutta la sua energia ad eseguirle alla lettera: egli perde la sua espressività, la sua spontaneità, il godimento del suonare. Éclat gli offre un testo musicale all’interno del quale può invece operare delle scelte, prendere delle iniziative.
A dire il vero, queste possibilità sono soprattutto concesse al direttore dal compositore. Éclat comprende degli spazi che interrompono il testo principale, spazi nei quali un certo numero di motivi sono ordinati tra loro solo all’ultimo istante: il direttore dà gli attacchi secondo la scelta del momento ed il suo gesto è in parte imprevedibile: ed è da questa imprevedibilità che nasce la necessità di un gesto-riflesso che lo strumentista compirà in uno stato di tensione, di attenzione che ci si può immaginare e che provoca l’éclat dell’interpretazione.
Per questo Éclat si presenta oggi come un diamante appena tagliato, dai riflessi sempre cangianti. Nei dieci minuti di durata la composizione si articola in alcuni momenti facilmente riconoscibili. La partitura si apre su una bella cadenza del pianoforte per poi proseguire, nell’alternanza tra il testo principale e gli spazi di cui si è parlato, fino ad una sezione di maggiore tensione – sempre riservata ai solisti – dove il fraseggio diviene più incisivo. La sezione termina con un’esplosione di trilli che introducono alla parte seguente, la quarta ed ultima dell’opera, che vede l’entrata degli strumenti “di fondo” dal suono continuo.
Un movimento continuo si delinea tra i violoncelli per proseguire poi rapidamente verso il flauto contralto, la tromba, il corno inglese, la viola: prefigurazione ancora accennata di Multiples interrotta da un bel éclat del pianoforte, come se quest’ultimo volesse riprendere il gioco delle pagine precedenti. Vanamente, poiché comincia allora una sezione dai colori decisamente diversi dall’inizio e dal seguito di Éclat. Condotto questa volta dagli strumenti “di fondo” in uno stile veemente e frammentario, un discorso nuovo è formulato in quel momento: sarà lo stesso di Multiples qualche misura dopo. La sezione costituisce una sorta di transizione tra le due parti dell’opera, prima che un gran tutti fiammeggiante non intervenga a concludere con splendore la piacevole partitura.
LE MARTEAU SANS MAÎTRE
di Jacques Lonchampt
L’immediato e clamoroso successo di quest’opera fu tale che per lungo tempo ha rappresentato quasi da sola non solamente la produzione del compositore, ma anche tutta un’epoca di musica contemporanea europea. Le Marteau sans Maître di Pierre Boulez fu eseguito dopo un acceso scontro all’interno del comitato di selezione francese al Festival della SIMC a Baden-Baden nel 1955, Festival nel cui ambito era stata eseguita, cinque anni prima, a Londra, la Seconda Cantata di Anton Webern, riferimento essenziale nell’evoluzione del pensiero compositivo di Boulez. Dopo aver parzialmente eclissato la restante produzione, a Marteau sans maître ha nuociuto senza dubbio ciò che in gran parte gli aveva assicurato il successo, ossia una formazione strumentale molto caratterizzata, fondata su un gioco sottile tra identità e differenza, fluttuante nei diversi brani in base alle necessità dell’esecuzione (pizzicato/arco, bacchetta dura/dolce etc.), diretta da una percussione la cui varietà valorizza il ruolo di guida formale che ritroverà per esempio in Rituel (1975). Infatti il colore sonoro è l’aspetto più datato dell’opera ed in particolare lo è il suo riferirsi ad una strumentazione orientale. Essa è certamente legata alla relativa distensione del linguaggio di Boulez che ritrova un discorso più melodico, una piacevolezza auditiva che contrasta molto con la quasi contemporanea composizione del primo libro di Structures pour Piano (1952), caratterizzato da un’austerità aggressiva e didattica.
Le Marteau sans maître s’ispira apertamente al Pierrot Lunaire di Arnold Schönberg (1912), da cui trae la divisione dell’opera in tre cicli e la “geometria variabile” che caratterizza il complesso strumentale riunito al completo solamente nell’ultimo brano. Il terzo pezzo, per flauto e voce, è inoltre una citazione strumentale dal settimo del Pierrot. Questo omaggio è tanto più rilevante in quanto due anni prima Boulez scriveva un articolo molto polemico – Schönberg è morto – nel quale teneva conto, a dire il vero, soprattutto della produzione più tarda del compositore, preservando proprio opere quali il Pierrot Lunaire. L’affiliazione è d’altronde più apparente che reale, in quanto la successione dei tre cicli esclusivamente vocali, di sette pezzi ciascuno, fa posto qui alla compenetrazione di tre cicli insieme vocali e strumentali di dimensioni variabili: il primo, di quattro pezzi (2.4.6.8) regolarmente distanziati, il secondo di tre pezzi (1.3.7), con il terzo brano vocale preceduto da un “avant” e seguito da un “après”, ed il terzo ciclo composto da due versioni successive (5.9) di uno stesso testo. Le tre poesie sono estratte dalla stessa raccolta di René Char, poeta al quale Boulez aveva già attinto per Visage nuptial nel 1940 e per le Soleil des Eaux nel 1947. Si deve segnalare infine l’ammirazione nutrita verso quest’opera da Igor Stravinskij, che aveva ugualmente reagito al Pierrot Lunaire, e dal 1912, con le Trois Poésies de la Lvrique Japonaise.
Avant l’Artisanat Furieux inizia come un doppio duo tra flauto e vibrafono da un lato e chitarra e viola dall’altro; i quattro strumenti, dopo una breve cadenza della viola, si fondono più liberamente.
Commentaire 1 de Bourreaux de solitude segue grosso modo una ripartizione ternaria. L’inizio, di grande piacevolezza sonora, vede un lungo assolo del flauto sostenere il dolce mormorio degli altri strumenti. Una sezione contrastante per la sua aggressività è condotta dalla xilomarimba, seguita da un breve ritorno del flauto, in un ambiente meno disteso.
L’Artisanat furieux – si è già detto – cita la strumentazione (flauto e voce) di Der Kranke Mond del Pierrot Lunaire. Si noterà l’alternanza di sovrapposizioni ed intrecci di linee melodiche.
Commentaire 2 è il solo brano a fare a meno del flauto. È notevole per la successione di pezzi di durata diversa, separati da pause esse stesse più o meno lunghe e traversate talvolta dalle risonanze del vibrafono. Una sezione in cui la viola, fino ad allora esclusivamente in pizzico, ritrova il suo archetto ed un discorso più melodico è seguito da un passaggio volubile al quale partecipa alla fine il triangolo.
Bel édifice et les pressentiments alterna instabili sezioni strumentali a degli interventi vocali accompagnati in modo più omofono.
Bourreaux de solitude è il brano più lungo e più austero di tutta la composizione. Si noterà all’inizio un gioco di ritmi complementari fra i diversi strumenti, forse ripreso dalla Sinfonia, op. 21, di Webern.
Après l’Artisanat furieux, il più breve, è simile al suo pandant, il primo brano. Scritto per tre strumenti, è caratterizzato da un gioco ritmico di grande leggibilità.
Commentaire 3 somiglia a Commentaire 1 al quale sembra aggiungere l’assolo di flauto e le rudi doppie note della xilomarimba. Si noti ancora il ruolo formale della percussione (successivamente claves, doppia campana e bonghi).
Bel édifice et les pressentiments (versione 2) potrebbe inizialmente evocare – per il suo “Tempo libero di recitativo” e per le sue citazioni dai brani precedenti – il finale della 9° Sinfonia di Beethoven, anche se la polarizzazione armonica sul Mi bemolle è forse un riferimento a Stravinskij (Es = Mib), come nel caso di …explosante-fixe… e soprattutto di Rituel. La voce, subito “libera” dal testo, impiegando a momenti lo “sprechgesang” e in seguito dialogando in vocalizzi sostenuti dall’orchestra con il flauto accompagnato da alcune percussioni (due tam-tam e il gong), conclude in un ambiente raccolto.
Rassegna stampa
“Molti anni fa Boulez dichiarò di voler dare alla musica “un nuovo impulso diretto verso la modernità” e che la differenza “fra la vita musicale quale è concepita sul piano dello smercio dei capolavori e la vita musicale quale è concepita dai compositori” stava appunto nella “trasmissione”, poiché “bisogna rimettere in discussione le proprie acquisizioni costantemente” per non restare “in ritardo sul proprio tempo”.
Ecco: l’altra sera ha dimostrato che compositore e direttore sono rimasti fedeli a tale programma. I pezzi (Dérive, Notations, Mémoriale, Éclat, Le Marteau sans Maître) presentati in quest’ordine che non è quello di composizione, confermano, come si è detto, la sua coerenza ma anche la sua disponibilità a rinnovarsi. L’esecuzione, superlativa, che ha affascinato la platea in cui molti erano i giovani, sottolinea inoltre l’importanza della trasmissione nella musica d’oggi.
I solisti dell’Ensemble Intercontemporain che da anni collaborano con Boulez e con l’Ircam, hanno ormai raggiunto la perfezione. Impossibile nominarli tutti, ma sono da ricordare almeno i percussionisti, la celestiale flautista Sophie Cherrier, il sensibilissimo pianista Alain Neveux. Bella e calda anche la voce di Phyllis Bryn-Julson nel Marteau. È un trionfo per tutti”.
(Landa Ketoff, Boulez, i suoni dell’intelligenza, la Repubblica, 29 luglio 1988)
“In tutte le composizioni della prima parte della serata ha dettato legge la continua, quasi implicita, mobilità delle piccole strutture della musica. Un farsi e disfarsi, sempre però razionale sotto ogni punto di vista. Ed in tutti i lavori, compreso quell’autentico capolavoro che è il Marteau sans Maître, l’ininterrotta necessità di esecutori attentissimi, che siano tutti dei solisti. Il che nell’Ensemble Intercontemporain è esattamente la realtà, vivificata in ogni momento dalla funzionalissima, incisiva e tesa direzione di Pierre Boulez. Nessuna meraviglia, di conseguenza, che l’altra sera ogni lavoro abbia conosciuto una dimensione interpretativa straordinaria. Andrebbero ricordati tutti i nomi degli strumentisti francesi. Non si può prescindere però dal citare il pianista Alain Neveux e la flautista, dall’aspetto sottilmente androgino, Sophie Cherrier. Lunghe ovazioni”.
(Luigi Bellingardi, Il tagliatore di diamanti, Corriere della Sera, 29 luglio 1988)
Crediti
Musica Pierre Boulez
Direzione musicale Pierre Boulez
Ensemble Ensemble Intercontemporain
Solisti Phyllis Bryn-Julson (voce), Alain Neveux (pianoforte), Sophie Cherrier (flauto)