Dopo alcune stagioni di assenza, questo 1989 ha visto tornare a Roma Trisha Brown, con una nuova compagnia e ben tre coreografie, tra cui il recente Astral Convertible. Il lavoro, presentata al Festival in prima europea (1989), è arricchito dalla rinnovata collaborazione con l’artista americano Robert Rauschenberg, uno dei maestri della pop art, che, come già avvenne per Glacial Decay (1979) e Set and Reset (1983), ne ha curato la scenografia: nove torri d’alluminio, collocate sul palco, reagiscono ai movimenti dei danzatori ed alle variazioni della musica grazie alla presenza di numerosi sensori che accendendo e spegnendo diversi fari di luce bianca, ridisegnano continuamente la spazio scenico.
Lateral Pass e Opal Loop, che affiancano Astral Convertible, hanno mostrato in modo esemplare l’evoluzione artistica della coreografa che, negli anni ottanta, è andata sempre più nella direzione di una ancora maggiore precisione del gesto e di una più compatta geometria strutturale; Opal Loop, soprattutto, danzato senza musica d’accompagnamento e da un organico ridotto a soli quattro ballerini, resta una delle vette della creatività della Brown, limpida e articolata al tempo stesso: “Un viaggio sul silenzio a quattro corpi”, scrive Leonetta Bentivoglio, “per una sinfonia gestuale che vibra d’invenzione. Una piccola gemma di avarizia e intelligenza” (Trisha a corpo libero, la Repubblica, 6 luglio 1989).
LA NECESSITÀ E L’UTOPIA
di Jean-Marc Adolph
“Trisha è il risveglio della percezione”: dopo essere entrata nella compagnia di Trisha Brown, una ballerina ritiene di aver imparato a guardare in maniera differente la pittura “guardando un quadro posso ora percepire molte più cose che in passato, sono divenuta più sensibile”. Bisogna credere che anche lo spettatore partecipi a questo “risveglio della percezione”. Raramente si ha una percezione diretta del movimento, come con la danza di Trisha Brown. Si avverte un piacere immediato, una pienezza, il senso di una libertà fisica che non appartiene alla categoria del virtuosismo.
Le coreografie di Trisha Brown hanno la forza esultante del principio di libertà. La sua opera non si può riassumere in una tecnica, in un vocabolario. Ricca di folle musicalità, la sua danza è un flusso inarrestabile di corse sospese, di cadute impreviste, di slanci giocosi, di prese schivate, il movimento è in costante attività, in una estrema e mobile fluidità di tutte le parti del corpo. Un’onda di vita attraversa in tutti i sensi la sua danza.
In contrasto con questo puro dispendio di energia, Trisha Brown coreografo è rigorosa, come pochi altri nel gioco delle forme, nella costruzione e nel gioco prospettico delle strutture della composizione; un po’ come una matematica libertaria che cerca attraverso differenti processi alchemici, il numero d’oro: “Per lei il corpo del ballerino è il valore ignoto X, disposto a sottomettersi a tutte le combinazioni: addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni, ripetizioni, accumulazioni, equazioni, proiezioni in tre dimensioni, e tutto questo a partire da una vera e propria geometria dello spazio” (Marcelle Michel, Trisha Brown, le calcul et la grâce, in Festival d’Autunno 1972-1982).
Il “movimento browniano” (secondo una formula usata da Guy Scarpetta nel 1979 in “Art-Press”), non è lineare. È un focolaio di rotture, a volte perfino un “collage bellicoso i cui elementi si affrontano”: “il paradosso di un’azione che cerca il suo opposto mi interessa molto” dice Trisha Brown. Fra la prima e la seconda rappresentazione di Accumulation la durata dello spettacolo è passata da 4 minuti e mezzo a 55 minuti: “All’inizio, l’addizione dei movimenti si faceva in maniera numerica, ma più tardi, dei movimenti hanno iniziato ad intercalarsi e lo spettacolo è andato avanti in diverse direzioni”. Le strutture ci sono per essere superate, liberate: “la danza parte sempre da dove meno si aspetta”; “la mia danza è imprevedibile, improbabile, continua”.
Non c’è nulla di meno sorprendente di ciò che Trisha Brown cerca di esprimere in maniera semplice “come un muratore pieno di senso dell’umorismo”: “infine, si potrà dire che una danza è stata colata nelle spaccature di un’altra danza”.
La storia di Trisha Brown ha inizio, in grande parte, negli ateliers di improvvisazione che Ann Halprin teneva in qualche parte sperduta della California; in seguito nell’avventura collettiva e leggendaria del Judson Dance Theater degli anni 60. Vi erano riuniti un gruppo di ballerini, di pittori e di performers pronti a tutte le audacie e tutte le investigazioni. “Il pubblico era ristretto, ma eravamo tutti in armonia, ci conoscevamo a fondo”, racconta Trisha Brown.
Coreografa intrepida, fa andare i ballerini alla deriva su delle zattere, sulla superficie di un lago; li fa camminare in verticale su un muro e dissemina una coreografia sui tetti di New York! Era l’epoca delle sperimentazioni, un terreno di avventure dove non bisognava gestire una compagnia, né soddisfare un grande pubblico. Venuti tutti da questo stesso vivaio, Steve Paxton, Trisha Brown, Yvonne Rainer, Lucinda Childs hanno poi tutti seguito vie separate. Vedendo oggi Trisha Brown appare chiaro che l’anelito di libertà che prevaleva nel passato non è sfumato nelle sue recenti rappresentazioni fatte per vari teatri. “II paradosso di Trisha Brown, è che il riciclaggio di elementi classici non ha prodotto nella sua arte un “ravvedimento”, ma, al contrario, un abbandono dell’ascetismo, un aumento dell’insolenza e dell’esuberanza” (Guy Scarpetta, L’impurità).
Nel 1980, con Opal Loop la coreografa inizia un nuovo ciclo. Lei che aveva sempre scelto di danzare in silenzio, introduce la musica (di Bob Ashley) in Son of Gone Fishin’ (1981). Due anni più tardi, una composizione originale di Laurie Anderson accompagna la creazione di Set and Reset, un puzzle di energie sparse che si sottraggono nell’accelerazione di un movimento vivo o nella lentezza di una posa intorpidita, fino a quando iniziano a sfilare sui lati di un prisma sospeso al di sopra dei ballerini, un flusso di immagini disegnate da Robert Rauschenberg.
Nel 1985, il tempio della creatività “uptown” riconosce Trisha Brown: il pubblico del City Center acclama Lateral Pass (scenografia di Nancy Graves, musica di Peter Zummo); gioco dallo spirito vivace, per il quale le figure si spostano in forma di cascata. Newark è l’ultima opera di Trisha Brown. I ballerini, in giustacuore grigio, si delineano sopra delle tele dai colori monocromi che coprono tutto il quadro della scena, successivamente cadono delle centine. Questo scenario “minimalista” ma fortemente suggestivo (potremmo dire che la psicologia è data dai colori) è stato creato da Donald Judd. Newark è un commovente condensato dell’arte di Trisha Brown. La totale libertà di movimento che sfonda la sua gestualità è in questo caso alle prese con i tratti di una scrittura estremamente precisa e rigorosa. Newark è il dualismo in scena. La coreografia comunica con dei duetti che scivolano, si incrociano, si comunicano un incessante scambio di felicità. Un flusso di scrittura che senza dubbio ignora i vuoti del dubbio, ma che cerca di non tralasciare nient’altro; qual è il rilievo di una danza, quale può essere la sua profondità di campo, la sua tonalità? Queste sono alcune delle domande che Trisha Brown si propone di risolvere con le scenografie di Don Judd, ma senza dare una risposta, unica e totale: lasciandole in sospeso. Il movimento è per lei una invenzione permanente, che è sempre pronto a ricrearsi. Newark – opera della maturità – esprime perfettamente il suo alfabeto del “linguaggio coreografico”: a volte necessità e a volte utopia.
Penetrare “nell’atelier del coreografo” significa, per Trisha Brown, seguire gli appassionanti meandri di un pensiero in movimento. Non è forse lei che dice: “Senza il pensiero, ci sono solo gli exploit fisici”?
Rassegna stampa
“Sorridente, irriverente, con scanzonata nonchalance, Trisha Brown è tornata a incantare e a irritare i romani martedì sera, nella prima di tre serate a Villa Medici. Un pubblico fittissimo, decretava alla compagnia americana il tutto esaurito fin da un’ora prima dello spettacolo. Fitto ma non omogeneo, così che l’esito della serata poteva dirsi incerto, nonostante l’eccellente qualità dei lavori presentati.
La Brown si è presentata a Roma con una compagnia nuova di zecca, sorprendente per armonia stilistica, affiatamento e perfetta corrispondenza ai criteri-guida che informano il lavoro di una delle maggiori esponenti del postmodernismo coreografico statunitense. Antiteatralità, assoluto e radicale superamento del ruolo e della funzione dell’interprete in quanto distinto dalla persona in carne ed ossa – chiara eco del radicalismo artistico americano degli anni 60 -, studio del movimento in sé e per sé, sono questi alcuni dei cardini sui quali si impernia la ricerca di Trisha Brown, uno dei pochi “inventori” che abbia ancora la danza, in un fine secolo che vede risorgere e trionfare la ricombinazione ad oltranza dei vecchi sistemi, “classici” o “moderni” che siano”.
(Donatella Bertozzi, Il desiderio diventa invenzione, Il Messaggero, 6 luglio 1989)
“Il sodalizio [con Robert Rauschenberg, N.d.R.] s’è rinnovato quest’anno con Astral Convertible, un’argentea e sensazionalmente elegante coreografia, che la Brown, con la sua bella compagnia di danza, presenta in questi giorni a Roma per il festival di Villa Medici.
Qui il più vincente tra i pittori della pop-art, oggi passato a tutt’altra ricerca nel campo del visivo, concentrata sull’analisi della percezione e la provocazione sensoriale, popola la scena di parallelepipedi d’alluminio, torri svuotate al centro e imprigionanti un complesso meccanismo di sensori capaci di reagire al movimento dei ballerini aprendo e chiudendo sia la pista della musica (di Richard Landry) che quella della luce.
È l’immediata consistenza e verità della danza in un gioco sovversivo delle più consuete scale di valori teatrali, a produrre, stimolare, condizionare, variazioni luminose e sonore.
Purtroppo poi, lo spazio estivo di Villa Medici costringe Trisha Brown a modificare molto la struttura di Lateral Pass, balletto non inedito per l’Italia, su musica eccitante e appassionatamente brutale di Peter Zummo. Impallidisce il senso contrastato del discorso senza le integranti scenografie appositamente create per quest’opera dell’85, con coloratissima furia post-moderna, dalla pittrice Nancy Graves.
Opal Loop, un pezzo dell’80, è il titolo che completa la serata. Un viaggio sul silenzio a quattro corpi (Trisha è tra loro, quasi una firma), per una sinfonia gestuale che vibra d’invenzione. Una piccola gemma di avarizia e intelligenza”.
(Leonetta Bentivoglio, Trisha a corpo libero, la Repubblica, 6 luglio 1989)
“Opal Loop, del 1980, segna il punto di passaggio tra la vecchia e la nuova concezione dello spettacolo browniano. Senza musica, quattro danzatori tra cui, splendida per il rarefatto movimento la stessa Trisha Brown, esplorano lo spazio con brevi, contenute incursioni, mescolano i loro corpi in intrecci e contatti, si sfiorano senza posa, in un continuum nobile ed esaltante.
Meno interessante, forse anche perché troppo patinato, Astral Convertible, l’ultima creazione della Brown cui fanno da scena degli allestimenti metallici (genere ponteggi Innocenti) che portano luci fredde, manovrate a mezzo di fotoelettriche, dal movimento stesso dei danzatori. Rauschenberg ne è l’autore. La musica è di Richard Landry. Probabilmente, ma è solo un’ipotesi, qualcosa non deve aver funzionato nel gioco tecnico e la coreografia ne è risultata appiattita, smorta.
Straordinari i ballerini, tutti pervasi della qualità di movimento che è caratteristica principale della coreografia. Il maggior piacere della serata è stato senz’altro quello di veder danzare a questi livelli”.
(Elena Grillo, Trisha Brown. L’avanguardia è per tutti, Avanti!, 6 luglio 1989)
“In mezzo al mosaico interrotto di suoni, i danzatori continuano le loro traiettorie senza fermarsi a lungo, illuminati a singhiozzo da barbagli di luci che sfiorano i corpi grigi, le tute di colore metallico. Ma la cosmogonia di questo universo astrale, spaccato tra tecnologia e poesia, si legge male tra tubi di alluminio e spot di luce a intermittenza. Tutto assume un sapore troppo caotico in quel rifluire indiscriminato da movimento del danzatore a sensore, poco chiaro alla percezione visiva dello spettatore per essere interpretato come codice. Astral Convertible cattura senza trattenere lo sguardo più profondamente, come un testo di buone idee un po’ sgrammaticato, una tavolozza sbaffata artisticamente”.
(Rossella Battisti, Per Trisha l’astratta un passaggio casual, l’Unità, 6 luglio 1989)
Crediti
Coreografia Trisha Brown
Ensemble Trisha Brown Company
LATERAL PASS (1985)
Scenografia Nancy Graves
Musica Peter Zummo (da Six Songs: Sci-fi, Slow Heart, Song VI, Song IV)
Luci Beverly Emmons
Danzatori Trisha Brown, Lance Gries, Nicole Juralewicz, Gregory Lara, Carolyn Lucas, Diane Madden, Lisa Schmidt, Shelley Senter, Will Swanson, David Thomson
ASTRAL CONVERTIBLE (1989)
Scenografia Robert Rauschenberg
Musica Richard Landry
Luci e allestimento tecnico Ken Tabachnik
Danzatori Lance Gries, Nicole Juralewicz, Gregory Lara, Carolyn Lucas, Diane Madden, Lisa Schmidt, Shelley Senter, Will Swanson, David Thomson
OPAL LOOP (1980)
Costumi Judith Shea
Luci Beverly Emmons
Danzatori Trisha Brown, Lance Gries, Carolyn Lucas, Diane Madden