Per un incidente occorso ad uno degli interpreti, è stata annullata la prevista rappresentazione di Le Saut de l’Ange, spettacolo del 1987 realizzato a quattro mani da Dominique Bagouet e lo scultore Christian Boltanski.
In sostituzione, il coreografo, uno degli esponenti di punta della Nouvelle Danse francese e direttore del Centre Chorégraphique National di Montpellier, ha offerto una breve antologia di brani comprendente estratti di opere del passato, come Deserts d’amour, e lavori più recenti come Meublé sommairement e Jours étranges (fresco di debutto, nel 1990).
Il caso ha quindi reso possibile un’occasione per ricostruire il percorso evolutivo dell’arte di Bagouet, dall’impostazione classica e quasi calligrafica delle prime coreografie al taglio ironico delle ultime, come mostrano le improbabili coppie riunite in una sala da ballo di Meublé sommairement, e lo spirito quasi “slapstick” che impronta Jours étranges, divertita e scintillante messa alla berlina dei gesti della vita quotidiana sulle note di Strange Days dei Doors.
La serata, nella memoria, diventa ancora più preziosa data la morte che di lì a poco avrebbe colto il giovane coreografo.
INTERVISTA A DOMINIQUE BAGOUET
a cura di Carmela Piccione
(“La mia arte è un’avventura“, Il Tempo, 23 luglio 1990)
Signor Bagouet cos’è il teatro per lei?
Rappresenta il mistero, una sequenza di immagini allusive, provocatorie. Anche la coreografia, all’interno dei miei spettacoli, vuol evocare stati d’animo, situazioni, nulla deve essere raccontato in maniera esplicita.
Un teatro d’élite dunque?
Non credo. A volte il linguaggio della danza contemporanea può apparire difficile perché il pubblico vuol comprendere scientificamente, dimenticando che la danza è essenzialmente poesia, sensibilità, emozione. Bisogna avvicinarsi all’arte con il cuore.
Lei si considera un coreografo?
No, se la parola è circoscritta al campo della danza. Sono un artista che si nutre di spettacolo: amo il teatro, il circo, la letteratura, adoro le arti plastiche, la musica. Mi piace sperimentare sulla scena. L’avventura è il motto. Forse questo è il termine giusto per definire il mio universo spettacolare.
Danza classica o danza moderna, signor Bagouet?
Non ho mai rinnegato i valori della danza classica, ma lo trovo troppo limitata nei codici espressivi; una scienza troppo perfetta legata ad un estetismo fuori moda
Si sente coinvolto o partecipe nel grande fenomeno della “Nouvelle Danse”?
Molte cose sono cambiate in Francia. Grazie ad una politica accorta e generosa (il governo sovvenziona, sostiene e promuove miriadi di piccoli complessi; e per tutto il paese si moltiplicano i seminari, le scuole, i laboratori d’improvvisazione, i corsi d’insegnamento e di composizione) finalmente oggi si può parlare di una identità culturale francese legata alla creazione artistica in cui mi sento protagonista. Siamo riusciti ad assimilare le influenze italiane, il modernismo americano, l’espressionismo tedesco, per rielaborare il tutto in uno stile personale, molto francese. Ma dobbiamo vigilare affinché la nostra identità culturale non si esaurisca per eccesso di vitalità.
LA NOUVELLE DANSE
di Elsa Airoldi
La Francia, che è sempre stata ballerina, non registra certo crisi di vocazioni. Anche lei, come più degli altri, ha il suo bravo bal e la sua sofisticata danse.
Tuttavia, non paga della disposizione danzante della gente di casa, è anche elemento catalizzatore, punto di riferimento, gran madre di tutti gli assetati di bal, danse, danse d’auteur e nouvelle danse che invocano dagli angoli più remoti del globo. Le bal? Oltre al bonario bal musette non scordiamo quello della sous-préfecture o quello dei vampiris. Per non dire, all’epoca in cui il popolo dansait avec Marianne, sotto il Direttorio, dei 644 bals sparsi per la capitale.
La danse? Beh, la prima accademia, quella fondata da Luigi XIV nel 1661, è nata qui. Mentre il genere del balletto si fa convenzionalmente nascere da quel Ballet Comique de la Reyne rappresentato (per altro a cura di un italiano, Baltazarini da Belgioioso) al Petit Bourbon di Parigi nel 1581. Nel nostro secolo le orde “barbariche”di Diaghilev, le mille avventure dada piuttosto che “istantaneiste”, le invasioni delle compagnie e delle stelle. Via via sino al giro di boa del bicentenaire allorché l’Opera “sfratta” (sì, perché in fondo il vecchio Palais Garnier ci pare meglio) la lirica nella nuovissima Bastille e monopolizza il mondo del balletto.
Oggi tutti i linguaggi convivono in serenità. Bal a parte, sempre padrone di campagne e città, la danza teatrale classica abita a Parigi, ma anche a Tours, Nancy, Cannel, Bordeaux, Lyon; persino a Vichy e in luoghi ancora più remoti quali Le Creusot in Borgogna. E non dobbiamo scordare chi, ufficialmente all’estero, è francese d’area ed estrazione; come il Balletto di Losanna formato e diretto da Béjart, o quello di Montecarlo, distaccamento dell’Opéra. Non meno generosa è la geografia dei seguaci della nouvelle danse. Aria svelta e atteggiamento disinvolto, spesso provocatorio, i nuovi profeti sciamano per il territorio, fanno notizia, nascono, muoiono, raggiungono la gloria. A volte, e allora sono proprio arrivati, diventano l’anima di una qualche paludata “Maison”. La Maison de la Danse di Lyon, Grenoble, Créteil, Montpellier. Chi e quanti sono? Tanti, non catalogabili.
L’avventura inizia vent’anni fa, sul finire degli anni Sessanta, allorché alcuni “accademici” decidono di tentare la sperimentazione. Il romeno Caciuleanu, per dirne uno, che da quel dì vaga ammiccante tirandosi appresso stranezze e un opuscolo dal francesissimo titolo Le Gigi Illustré, insomma la Caciuleanu’s Story. Più tardi si afferma un gruppo di veri e propri maestri del contemporary: tra di essi Viola Faber, Hideyuki Yano, la stessa Carolyn Carlson responsabile di aver ufficializzato la sperimentazione fondando, su richiesta di Rolf Liebermann, quel Group des Recherches Théâtrales che poi sarebbe divenuto il Group de Recherche Chorégraphique de l’Opéra de Paris. Insomma l’avanguardia nella roccaforte “classica” del Palais Garnier. La nouvelle danse si afferma nel momento in cui dagli States non arrivano più segnali credibili. Il modern e i suoi post hanno esaurito il discorso. Un discorso comunque diverso, piuttosto asettico, matematico, magari filosofico. Magari anche di “moda”. Frutto delle trovate che tanto entusiasmano la Grande Mela. Anche se piccole piccole e destinate a sgonfiarsi presto nel nulla. Certo, nessuno ha mai rinnegato i mostri sacri, che sono e rimangono veneratissimi. Ma Martha Graham, piuttosto che Merce Cunningham e Alvin Nikolais hanno radicalizzato il messaggio. Possono solo ripetersi o “rifluire” in situazioni meno dogmatiche. Tuttalpiù sono un modello, almeno a parole. Ché, quanto alla pratica, la vecchia e individualista Europa, da quell’orecchio ci sente poco.
Mentre in Germania grida la voce di Pina Bausch che appartiene solo a se stessa, la Spagna muove i primi timidi passi, l’Italia stenta a sprovincializzarsi, i paesi dell’Est non “esistono” ancora e quelli del Nord, divisi tra conservatori e modernisti, fanno caso a sé, rimane solo la Francia. Punto di riferimento universale. Quale spirito ansioso di sapere non ha compiuto il suo pellegrinaggio a Montpellier, Avignon, Lyon? Quale artista non ha ambito a una benedizione di premi, critica e pubblico di Angers, Chateauvallon, Bagnolet?
Avignone, il festival più glorioso e tradizionalmente consacrato alla prosa, da un paio d’anni vanta una robusta sezione danza: addirittura affidata a un coreografo cui è concessa carta bianca, Carte Blanche. La prima volta è stata di Karine Saporta: adesso tocca ad Angelin Prejocaj, un albanese allievo di Dominique Bagouet previsto pure a Spoleto. Sarà anche un genio, Angelin. Tuttavia fa sorridere l’illazione maliziosa che, in fondo, se gli States hanno i “pensierini” la Francia ha inventato il prêt à porter.
La nouvelle danse, sviluppata e cosmopolita, pare priva di un filo conduttore, nel senso che ciascuno fa per sé. Citiamo i nomi più in vista. Capofila è Maguy Marin, l’ex béjartiana padrona di casa della Maison di Créteil. È connotata da serietà e spessore, da esiti contrastanti. Splendida e graffiante l’aggressività di May B., irritante la grevità di Hymen o di Calambre. Jean Claude Gallotta non è nemmeno un ballerino. Frequentava l’Ecole des Beaux Arts e voleva anche farsi prete. Ricordiamo l’alienazione della pièce con la quale ha debuttato da noi: Ivan Vaffan. Un lavoro che solo i più benevoli hanno fatto scivolare nella categoria dello psicodramma: io, io ausiliari, pubblico. Ma poi è tornato guarito, con l’elegante e credibile Les Louves e Pandora. Decorato al merito, gli è stata affidata la Maison di Grenoble. Questo della Maison è davvero un grande affaire. Se Gallotta è eleganza e assieme trasgressione anche a causa di un gruppo (Emile Dubois) “fuori misura” per peculiarità psicofisiche, Regine Chopinot strizza l’occhio alla griffe. A quella di Jean Paul Gaultier, fantasma incombente di Via.
Nouvelle danse è anche l’americano del New Jersey Andrew de Groat, uno che prende di mira il grande repertorio uccidendolo: forse per eccesso d’amore. Uno che in ogni caso nulla ha che spartire con l’altro iconoclasta Mats Ek; il nordico figlio di Birgit Cullberg che utilizza i classici per trasformarli in oggetto di denuncia sociale.
Nouvelle danse è pure il sudafricano di Johannesburg Peter Goss, artista attratto dal culturale e tecnicamente innestato sui lessici statunitensi.
Scarpe pesanti, calze, braghe. Sui calzoni un kilt scozzese, sulla canottiera una maglia sbrindellata. E ancora: piedi nudi, polpaccio peloso e candido tutù; testa tirata a gel. È la mise di Mathilde Monnier e Jean François-Duroure in Pudique Acide-Extasis, titolo fondamentale della nouvelle danse. E ancora nouvelle danse è la tutina gialla e nera che sbalza la plasticità di Michel Kéléménis, colto mentre omaggia Nijinskij ed è un qualcosa che sta a metà tra il Discobolo di Mirone e l’Apollo del Belvedere.
Sempre nuova danza francese Francine Lancelot e François Raffìnot, anima del gruppo “Ris et Danceries”: due esperti in barocco, intenti a gettare un ponte tra la danza illuministica e disimpegnata e le recenti tecniche compositive. Altri nomi? Daniel Larrieu, Susan Buirge (lei arriva da Minneapolis), Philippe Découflé, Elinor Ambash, Jacques Patarozzi, Jean Mare Matos, Georges Appaix, Josette Baiz, Kilina Crémona, Nicole Mossoux, Marc Monnet, Mark Tompkins, Jan Fabre. Tutti francesi, no? E si potrebbe continuare all’infinito. Se non avessimo un protagonista obbligato, Dominique Bagouet: uno che conta, titolare di Maison.
A sentire i biografi (Bagouet di Chantal Aubry, fresco di stampa per i tipi delle Editions Bernard Coutaz), Dominique, trentanove anni tondi, è già consegnato al mito.
Questa la apertura della Aubry: “Angoulême, anni cinquanta. Una famiglia senza storia. Il padre è responsabile di una piccola azienda di maglieria, eredità di famiglia. La madre è, come si dice, casalinga. Una sorella, un fratello e, le voilà, il 9 luglio 1951, Cancro con ascendente Acquario, appare all’orizzonte l’ultimo bimbo di una famiglia molto unita”. Chantal poi divaga su avi e paesaggi, segni del destino. Non omettendo nemmeno il carattere di un immaginario infantile all’Alain-Foumier.
La formazione di Bagouet è classica: Rosella Hightower, Balletto di Ginevra, Félix Blaska, Maurice Béjart. Ma uno spirito inquieto cerca ovunque parole nuove e attuali da coniugare e opporre a una tradizione troppo straniata dai fatti della vita. I nomi sono Carolyn Carlson, Peter Goss, Jennifer Muller, Mercé Cunningham, Kilina Crémona. Nel 1976 arriva, inaspettato, un primo premio del Concorso di Bagnolet. Lo stesso anno vede nascere la Compagnie Dominique Bagouet. Seguono invenzioni varie, anche per il Teatro Municipale di Montpellier, città che nel 1980 invita Bagouet a dirigere il Centre Chorégraphique Regional. Dopo Les Voyageurs creato per il Centro di Ricerca Coreografica dell’Opera di Parigi giunge l’invito a dirigere il primo Festival Internazionale di Montpellier sezione Danza.
A questo Festival ogni anno sarà dedicata una creazione. Nel 1984 la Compagnie Dominique Bagouet diventa Centre Chorégraphique National Montpellier Languedoc – Roussillon. Nel 1987, nell’ambito del festival Montpellier Danse, viene creato un campus, sorta di università della danza, della quale Bagouet assume la direzione didattica. Dal 1976 il gruppo è impegnato in tournée in Europa, America e Asia. Ricchissima ne è la produzione nella quale si riconoscono le tappe fondamentali di Les Voyageurs (1981), Insaissies (1982), F. et Stein (1983), Désert d’Amour (1984), Crowl de Lucien (1985), Assai (1986), Saut de l’ange (1987), Petites Pièces de Berlin (1988).
Rigoroso nella ricerca e fantastico nell’immaginazione, Dominique Bagouet firma un teatro che è agli antipodi del naturalismo. Lo stile è elegante, sorretto da grande tensione interiore e contraddistinto da un fraseggio secco, conciso, ripetuto. Grazia e iterazione minimal gli hanno meritato il soprannome di “Watteau della danza”.
Bagouet, che dichiara di lavorare parallelamente al fatto musicale, anzi di subirne i condizionamenti, ha utilizzato, accanto ai contemporanei, anche Mozart e Beethoven. Per lui hanno scritto Pascal Dusapin, Marc Monnet, Tristan Murail, Gilles Grand. Con lui hanno lavorato gli scultori Christine Le Moigne e Christian Boltanski. Per la sua compagnia hanno creato Jean Rochereau, Catherine Diverres, François Deniau, Susan Buirge, Michel Kéléménis, Angelin Preljocaj. Tra gli allievi che si riconoscono nella sua creatività “neobarocca”, Preljocaj, la Diverres, Bernardo Montet.
Rassegna stampa
“In questa piccola suite ricavata da Meublé sommairement non c’è gioia, i gesti sono un po’ meccanici e un po’ melanconici, come tutto nella vita, ieri come oggi, ed anche come se fosse stato anestetizzato per non fare soffrire, con un’unica componente finale vittoriosa: l’eleganza.
Tutt’altra atmosfera si respira nell’ultimo balletto della serata Jours étranges, i giorni nei quali si fanno le cose più strane e tante sciocchezze, è un poco la storia del nostro vissuto, del quotidiano. C’è naturalmente anche l’amore, lo si scopre senza scoprirsi come se si procedesse per tentativi e c’è la violenza frammezzo a toni talvolta garbati, gentili che si alternano ad altri trasandati, dimessi, sommersi da una musica fragorosissima che fa poi vacillare i ballerini nell’uscita verso l’ignoto, il tutto sempre in un alone di grande ubriacatura, sottolineata da luci multicolori, violente anch’esse che, a tratti improvvise, sembrano aggiungere al quadro impeti di follia.
Alla follia dei danzatori (tutti bravissimi, attori compresi del loro gioco, capintesta Bagouet) ha risposto la follia del pubblico in una notte bellissima, calda, alitata dalla frescura e dallo scorrere scintillante della fontana di Villa Medici”.
(Alberto Testa, Così Bagouet ha disegnato i segreti dell’amore, la Repubblica, 25 luglio 1990)
“A quanto pare, consapevole o no, il suo uso dello spazio – che è forse ciò che lo distingue di più e meglio, stilisticamente – sembra una riuscita e originale combinazione di spunti bauschani e cunninghamiani. Nel disporre le azioni sulla scena, sempre in luoghi precisi e spiazzati rispetto al centro, alla prospettiva e alla simmetria, Bagouet pare riprendere il concetto di Cunningham che non esistono punti fissi nello spazio e dunque che ogni punto ha lo stesso valore sul palcoscenico, ma anche quella disposizione di studiato disordine che scompagina dall’interno ogni organizzazione gerarchica dei ballerini come personaggi, propria della Bausch. In questo, per quanto si è potuto vedere, sta l’aspetto più interessante del suo lavoro”.
(Donatella Bertozzi, Perfezione nel disordine, Il Messaggero, 25 luglio 1990)
“Suggestivo è il duo ricavato da Deserts d’amour, dove s’intrecciano in silenzio Hélène Cathala e Catherine Legrand. Seguite solo da chioccolio sommesso della fontana, le danzatrici evocano piccoli incanti, immagini minute, subito fugate dall’affastellarsi di saltelli, battements, brevi girotondi. […]
Più corale, anche se meno originale, la piccola suite da Meublé sommairement, il secondo pezzo in programma che risale all’anno scorso (Deserts d’amour è del 1984). Il “riassunto” necessario della coreografia toglie omogeneità al lavoro, talvolta lasciando trapelare incongruenze di sviluppo. Da una prima parte astratta si passa così bruscamente a uno scenario più concreto, una sorta di sala da ballo dove le coppie si slanciano sulla pista esprimendo il proprio carattere. C’è la coppia sensuale, che si appoggia su un tango slabbrato, quella spiritosa che sbeffeggia il valzer o quella timida che approda a un “lento” tanto statico da fermarsi. L’ironia migliore di Dominique Bagouet emerge proprio in questi ritratti, ricchi di spunti birichini strapprati alla quotidianità. Meublé sommairement risulta anche un ottimo banco di prova per i danzatori della compagnia, tutti eccellenti e di intensa personalità.
Courts et moyens métrages chiudeva la sua piccola antologia coreografica con Jours étranges su musica dei Doors. Ma se la lunghezza temporale del brano poteva definirsi “media” (40 minuti), la sua qualità è risultata “corta”. Come se, dall’inizio poetico dei “deserti d’amore”, Bagouet fosse approdato alla gestualità scabra e smorfiosa di giorni alienati. Privi dell’alito di Puck”.
(Rossella Battisti, Il “bestiario” incantato di Dominique, l’Unità, 25 luglio 1990)
Crediti
Ensemble Compagnie Dominique Bagouet (Centre Choréographique National Montpellier Languedoc-Roussillon)
Coreografia Dominique Bagouet
Interpreti Dominique Bagouet, Hélène Cathala, Claire Chance, Jean-Charles Di Zazzo, Silvie Giron, Bernard Glandier, Olivia Grandville, Catherine Legrand, Orazio Massaro, Dominique Noel, Fabrice Ramalingom