Dopo il grande successo internazionale di Napoli, variazioni su un tema di August Bournonville, la compagnia Napoli Dance Theatre torna con uno spettacolo che vuole essere una sorta di lungo viaggio intorno al concetto di “demone”, ossia a ciò che nella storia dell’uomo hanno significato il proibito e la trasgressione rispetto alla formazione di un immaginario collettivo.
Demoni, questo il titolo della coreografia, che conta sulla presenza della stella della danza russa Vladimir Derevianko, parte dall’antico culto di Dioniso fino ad arrivare a Mozart – personificazione del genio artistico reietto -, passando per le immagini del giudizio di Paride e dei condannati per stregoneria negli anni bui del medioevo.
“L’ossessivo bisogno del mito – scrive il coreografo Luciano Cannito- l’indispensabile rappresentazione delle paure, la costante ricerca del divino, hanno sempre convissuto con la razionalità. Il misticismo e la razionalità non fanno che alternarsi nella storia del pensiero e dell’uomo. Demoni indaga il mondo dell’immaginifico da sempre compagno del mondo “reale””.
NAPOLI DANCE THEATRE
di Donatella Bertozzi
“L’ossessivo bisogno del mito, l’indispensabile rappresentazione delle paure, la costante ricerca del divino hanno sempre convissuto con la razionalità. Il misticismo e la razionalità non fanno che alternarsi nella storia del pensiero e dell’uomo”.
Partendo da questo assunto, che nel richiamo all’alterna vicenda delle passioni umane intende echeggiare il Vico, e che nella sua sinteticità lancia un ponte dalle origini della nostra civiltà fino ai nostri giorni, Luciano Cannito ha costruito il suo nuovo balletto, Demoni, come un’opera a tema, che “indaga il mondo dell’immaginifico, da sempre compagno del mondo reale”. Opera intensa, ambiziosa, di molteplici suggestioni.
Attraverso una fitta selva di simboli – che scelgono non il lineare rincorrersi diacronico, ma un più intricato coesistere sincronico – la danza offre a chi guarda innumerevoli connotazioni espressive, le quali, se sono facilmente decifrabili (perché Cannito non ama il simbolo oscuro ed esoterico) si propongono anche come patrimonio di indicazioni, programmaticamente disparate, che ciascuno può ricomporre a piacimento formulando un suo personale punto di vista sull’opera.
Quattro sono gli assi principali del discorso coreografico, attorno ai quali ruota la vicenda, corrispondenti alle fasi diverse, – appunto, alterne – della relazione che l’essere umano intrattiene da sempre con ciò che viene considerato “oltre la regola”. Si parte dal mito di Dioniso, visto come “il trasgressore, il Dio del proibito”. La proibizione sul divino della paura e della libido, compagne inseparabili dell’umanità.
Del dio superbo si disegna un ritratto fiammeggiante, ambientato in un luogo rituale che grazie a un accorto meccanismo scenografico rimanda il pensiero a scene campestri, all’ebbrezza che aleggia d’intorno alle cerimonie di spremitura del vino, bevanda sacra al figlio di Semele.
Nel trascorrere delle immagini la tempesta dionisiaca sembra placarsi nel mito classico della bellezza, in un frammento plastico che evoca il celebre giudizio di Paride. Ma nel repentino accavallarsi delle connotazioni simboliche la mela che elegge Venere e quella che seduce Eva si sovrappongono, foriere l’una di guerra, l’altra della fatica che ci impone, col sudore della fronte, di guadagnarsi il pane. È la sofferenza che sgorga dalla vena dell’orgoglio umano, dalla sfida al divino, dalla volontà di dominio sulla paura.
Con il frantumarsi dell’olimpica cosmologia del mondo – o per l’irrompere sulla scena del peccato – il serpeggiare della paura si annida nel cuore dell’umanità, producendo mostri. Il Medioevo, con la sua forte aspirazione alla trascendenza mistica, e a un misticismo purificatore, popola i sogni, le notti, i boschi di dèmoni e streghe, congiunti in carnale complicità, intenti a gettare il maleficio su un’umanità inerme che proietta allora su poveri esseri “altri da sé” la malvagità, l’aggressività, la paura, da cui vorrebbe separarsi, che vorrebbe esorcizzare, allontanare per sempre.
Di qui il sabba misterioso e demoniaco con il quale culmina la scena di una circolare processione, mentre un nuovo tempo di misurata ragione si profila all’orizzonte dell’umanità.
È l’alba dell’era moderna, il Settecento geometrico e riformatore che sacrifica agli dei della scienza e della ragione. Di questo Settecento, governato dalle limpide e severe regole del calcolo matematico e dell’armonia, è il genio di Mozart a simboleggiare lo spirito.
Genio come dàimon, alla greca, come energia magnificamente vivificatrice dalla scabra legge della ragione.
Anche la danza si fa calcolato e geometrico intreccio di linee e di passi, canone ritmico di sequenze ordinate. Esprime dunque, in sé e per sé, il senso di questo tempo raziocinante.
Ma già il dissolversi, nostro contemporaneo, delle rigide categorie della mente, si affaccia al proscenio nei movimenti contorti e angosciosi di una figura solitaria che ci rappresenta tutti: scossi come siamo dai dubbi e dai tormenti della mente, che grazie all’esercizio metodico dell’introspezione abbiamo imparato a riconoscere come parte di noi stessi.
Quello che si disegna alla ribalta di un palcoscenico ora ripartito in tre zone distinte è l’uomo contemporaneo. Dietro di lui l’angoscia e l’incertezza, rappresentate da un primo piano spaziale agitato di figure in caotico movimento, che corrono, cadono, si intrecciano e da un secondo piano sul quale scorrono personaggi bendati.
Dall’uomo stesso, che appare quasi sorvegliato da una figura di spalle – forse una presenza terapeutica, forse no – rinasce allora il dàimon, il groviglio antico delle paure.
La quarta barriera temporale – dopo il tempo antico, il Medioevo e il Settecento – delimita la terza esplosione solistica del lavoro pensata, come già le due precedenti, per il protagonista, il sulfureo Vladimir Derevianko.
Nella personificazione delle nostre paure non si conclude però la vicenda dell’uomo. Quando il dèmone si riacquista dentro di lui, il segno dell’antica congiura fra streghe e demoni, un panno rosso, gli rimarrà addosso, simbolo di una ciclicità in perenne ricorso.
Sono state numerose le letture che hanno preceduto e accompagnato la composizione di Demoni, e fra i testi che hanno maggiormente influenzato il suo cammino creativo Cannito ama ricordare in particolare quello di Carolina Lanzani Religione dionisiaca, edito dalla casa editrice I Dioscuri, il bel volume di Maria Grazia Ciani, Dionysos, edito da Anthenore e la raccolta di saggi di Carlo Pascal, Dei e diavoli nel paganesimo morente, nell’edizione moderna curata anch’essa da I Dioscuri.
Luciano Cannito è il più giovane fra i giovani coreografi italiani saliti di recente alla ribalta delle cronache. Attratto fin da piccolissimo dalle alchimie fantastiche della composizione coreografica, ha seguito con diligenza e buona fortuna il tradizionale curriculum di studi, diplomandosi nel celebre Lyceum napoletano di Mara Fusco dopo i canonici otto anni di studio. Nel frattempo alimentava la propria curiosità intellettuale frequentando i corsi di letteratura e storia del teatro dell’Università di Napoli. Ha successivamente affinato le proprie conoscenze tecniche all’estero, in due prestigiose compagnie: il Landestheater di Linz, complesso regionale austriaco, e la Bat Dor Dance Company la più nota compagnia di danza contemporanea di Israele, più volte ospite anche nel nostro paese.
I buoni successi ottenuti come ballerino non hanno però distolto Cannito da quello che era fin da principio il suo obiettivo principale: comporre danze. Così, ad appena venticinque anni, ha messo da parte una promettente e fruttuosa carriera di interprete per dedicarsi anima e corpo alla creazione di una compagnia – con l’entusiasmo, le risorse e l’inventiva della sua schietta indole napoletana. L’esordio è stato dei più promettenti e fin dai primi mesi di vita della compagnia, il piccolo nucleo di ottimi interpreti scelti da Cannito ha ottenuto consensi e riconoscimenti, in Italia e all’estero.
Incalzato però dalle durissime condizioni di lavoro che un coreografo deve affrontare – in particolare nel nostro paese – per poter servire la propria arte, Cannito ha saputo abilmente fare di necessità virtù, dedicando alla sua compagnia solo una parte del proprio tempo e accettando con entusiasmo di lavorare anche per altri, “su commissione”, procurandosi così un nuovo prezioso patrimonio di esperienze a contatto con interpreti assai diversi per formazione e bagaglio tecnico e artistico. In questi pochi anni di attività ha creato balletti per la Batsheva II Dance Company, per il gruppo Dimensione Balletto di Padova, per la stagione teatrale dell’Associazione Astaldi – l’applaudito Kontakte sull’omonima partitura di Stockhausen – e per il Nuovo Balletto di Roma – il plastico Punti di vista, andato in scena nel marzo scorso al Teatro Argentina di Roma. Tanto come coreografo free-lance quanto nel suo lavoro per la compagnia, Cannito ha messo in luce indubbie qualità di maître de ballet, ossia di “coreografo-regista-autore del libretto”, secondo un’antica tradizione che si è ormai pressoché perduta fra i giovani autori europei e americani dei nostri giorni.
Proprio questa sua visione ampia e solida della messa in scena coreografica gli ha consentito, autore non ancora trentenne, di proporre a una star della scena internazionale, come Vladimir Derevianko, un balletto creato su misura per lui ottenendone un significativo ed entusiastico consenso.
Napoli Dance Theatre è la sigla internazionale di una compagnia giovanissima e tutta italiana che vanta già un discreto curriculum dopo appena tre anni di attività. Fondata da Luciano Cannito nel 1987 ha rappresentato l’Italia all’International Tanz Festival di Vienna e nell’88, su designazione del Ministero degli Affari Esteri, è stata alfiere del nostro paese al Festival International de la Dance di Bruxelles. Nel 1989, grazie alla stima di cui già si era circondata, la compagnia ha ottenuto la fiducia di importanti partner, quali il Festival Astiteatro, il Festival di Cagliari e il Festival delle Ville Vesuviane, che si sono impegnate nella coproduzione del primo balletto a serata intera, creato da Cannito per il suo appassionato complesso di interpreti. È nato così Napoli, variazioni su un tema di Auguste Bournonville, rappresentazione scherzosa della Napoli contemporanea, che si è guadagnato ampi consensi di pubblico e di critica. Questo Demoni è il secondo gravoso impegno di Cannito per la sua compagnia.
Rassegna stampa
“Cannito ha creato con genuinità di intenti e chiarezza di mezzi tecnici la sua composizione, utilizzando con libertà e ricchezza di immaginazione un vocabolario ampio e interessante e sviluppando con abilità e coerenza drammaturgica la sua idea iniziale (che andava però messa meglio a fuoco in principio) ovviando anche, grazie al suo buon senso del teatro, a diverse lungaggini che, probabilmente per inesperienza, appesantiscono qua e là il suo intreccio.
Demoni denota già il configurarsi di moduli stilistici originali e dimostra la lunga e fruttuosa strada percorsa fin qui da questo giovane artista, nell’arco di poco più di un anno. È una fortuna che sguardi acuti di amici europei se ne siano accorti.
La sfida maggiore, naturalmente, per lui era dirigere Derevianko. Ha saputo farlo con sicurezza tecnica ed interiore esemplari, creando su misura per questo interprete straordinario un ruolo che ne esalta il fascino e l’abbagliante bravura tecnica e insieme ne rivela qualità fin qui tenute in ombra, prima fra tutte la forza virile e una dolcezza angelica e aspra che fanno dell’ultima scena un momento indimenticabile”.
(Donatella Bertozzi, Tra fantasmi, stregoni e dei, Il messaggero, 8 luglio 1990)
“Danza assai ginnica, su un accorto e ricco collage di musiche. Ombre sinistre di retorica béjartiana e tratti di fattura un po’ televisiva. Cannito sembra avere un vocabolario limitato ed esteriore, una scrittura più di stereotipi che di ricerca di uno stile originale. E se il racconto pecca di raccordi confusi, eccessi di grovigli simbolici, zone morte, d’altra parte riflette un curioso talento nelle sezioni di gruppo e negli sprazzi di intuizione teatrale, come la bella scena degli incappucciati, dove a partire dai segni rituali della religione nasce un reticolo coreografico di grande atmosfera. È forse su questo istinto delle cose dense, sulla capacità di cogliere materiali caldi e riscriverli come segni di teatro, che Cannito dovrebbe puntare le sue forze. Un’energia di fare bruciante, e anche per questo in qualche modo simpatica”.
(Leonetta Bentivoglio, La danza dei dèmoni, la Repubblica, 9 luglio 1990)
“Abbandonate le spensierate ispirazioni che hanno caratterizzato fino a ieri i suoi lavori, Cannito si è spinto su un terreno più insidioso, spaziando sia per riferimenti temporali, sia per profondità d’analisi. L’operazione gli riesce a metà: coraggiose intuizioni vanno di pari passo con cadute di tensione e lungaggini coreografiche. Ma la discontinuità è comprensibile, se si considera il salto di stile che il giovane coreografo, non ancora trentenne e solo al suo secondo lavoro impegnativo, si appresta a fare. E le potenzialità sono già piacevolmente visibile negli assoli che Cannito ha “modellato” per Vladimir Derevianko, ospite della piccola e deliziosa compagnia Napoli Dance Theatre. Interprete duttile e magnetico, Derevianko scivola agilmente da un ruolo all’altro, si trasforma da demone in dio e di nuovo a ritroso da “strega” a “daimon”, lo spirito che infonde energia nelle cose. […]
La giovanissima compagnia di Cannito (la cui formazione risale solo a due anni fa) gli si stringe intorno con entusiasmo fresco e tecnicamente limpido. Lasciando intravedere un rapido futuro di successi”.
(Rossella Battisti, Alla ricerca del demone, l’Unità, 7 luglio 1990)
“Lo spettacolo si chiude con il “daimon” moderno: il sogno, interpretato in un altro assolo da Derevianko. L’accostamento mito-sogno non è nuovo, dall’antichità fino all’inconscio collettivo di Jung. Il “daimon” può essere esorcizzato sul lettino di uno psicanalista: “Sarà veramente questo l’ultimo atto”, si chiede il coreografo, “o ci saranno in futuro nuove streghe, diversi demoni e altri dei?”. Il pubblico ha applaudito a lungo”.
(Francesca Bernabini, Prima il pomo d’oro di Era, poi la mela proibita di Eva, Corriere della Sera, 8 luglio 1990)
Crediti
Regia e coreografia Luciano Cannito
Ensemble Napoli Dance Theatre
Musica Wolfgang A. Mozart, John Adams, Henry Purcell, Carl Orff, M. Schiavoni, canti gregoriani, musiche popolari afgane e indiane
Costumi e scene Carlo Sala
Luci Patrick Latronica
Interpreti Vladimir Derevianko, Janneke Aarts, Flavia Alessandri, Pino Bersani, Picci Borghese, Cesare Carbone, Matilde Criscuolo, Gianluca de Virgiliis, Fabio Garau, Pierangela Lotto
Ufficio Stampa Anna Dal Ponte, Luca Pellegrini, Maria Pia Zarrelli
Produzione Festival Romaeuropa ’90, Deutsche Akademie, Napoli Dance Theatre