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Il Baile inannzitutto
Villa Medici
14 luglio 1990
25romaeuropa.net

Lanónima Imperial, Juan Carlos García

Kairós


Photo © Piero Tauro
Kairós

La compagnia Lanónima Imperial, fondata da Juan Carlos García nel 1986, ha conquistato presto la ribalta internazionale con Eppur si muove, lo spettacolo ispirato alla figura di Galileo. La coreografia Kairós, che segue l’altrettanto ironico Cástor y Pólux, ne conferma lo stile originale e stralunato, non a caso García ha danzato per tre anni nell’Emile Dubois di Gallotta, da cui ha mutuato alcuni ingredienti fondamentali: la gestualità quotidiana, le gag situazioniste, l’umorismo, gli ammiccamenti. In Kairós (che in greco antico significa “tempo soggettivo”) i ballerini passeggiano, chiacchierano, si rivolgono al pubblico, snocciolano i passi che intendono compiere sul palco, senza tuttavia rinunciare al rigore espressivo di fondo che ne guida i movimenti e ne mostra il notevole affiatamento. Il risultato, in un’edizione del Festival che ha visto protagonista anche il flamenco di Cristina Hoyos, non è tanto una messa alla berlina della danza tradizionale, quanto il ripudio cosciente degli stereotipi dell'”hispanidad” calda e passionale.

IL BAILE INNANZITUTTO
di Elsa Airoldi

Questa volta la storia ce l’ha messa proprio tutta. Solo s’è permessa di distrarsi, di prendere sotto gamba quel “particulare” che è la trovata del pensiero di Guicciardini. Insomma non ha fatto i conti con l’hispanidad: orgoglio che non cede, non arretra, non demorde. Così, se da un lato, pur davanti all’evidenza di apporti arabi e indiani piuttosto che ebraici o persiani, molti preferiscono credere alla totale autonomia culturale spagnola, e se addirittura il musicologo Felipe Pedrell, analizzando l’enigmatico cante hondo, suggerisce l’idea dei mori che attingono dalla Spagna e non già di quest’ultima che ne subisce l’influenza, noi, che oggi parliamo di danza, ci troviamo a osservare come il baile della piazza abbia sempre prevaricato ogni diversa espressione del genere.
La storia, che non voleva escludere la penisola iberica dal gioco di scambi che ha connotato l’Europa, ha provveduto a dare madri e mogli spagnole a Luigi XIV di Francia; a consegnare due spose italiane a Filippo V di Spagna; a insediare nell’Escurial un Carlo III che arrivava dall’Italia. Il che avrebbe dovuto significare una linea comune di danza colta (quella accademica) parallela alle relative etnie rimaste appannaggio del popolo.
A fasti e amori dei coronati, in buona parte riferita a essi, è dovuta poi la presenza nel paese di personaggi specificamente legati alla storia evolutiva del balletto. Salvatore Viganò, grande innovatore napoletano di origine reggiana, arrivato a Madrid per l’incoronazione di Carlo IV, vi trova moglie (la mitica Maria Medina) ed il maestro, il “riformatore” Jean Dauberval. Più tardi, a formalizzazione accademica ampiamente avvenuta e anzi in procinto di sgretolarsi, vediamo vagare per le pianure mancheghe Marius Petipa. Insomma per la Spagna ci passarono tutti, ma nessuno riuscì a intaccare un folclore che ancora oggi pare avere la meglio su ogni altra realtà.
Le ali di elfi e silfidi divennero mantiglie, il morbido ballon dei principi violenza di zapateado, il candore dei tutù trionfo di balze e frange. Nacque l’affascinante ibrido chiamato “scuola bolera”. Quando in fine, ansanti, approdarono alla ribalta alcuni balletti “spagnoli”, tutto era perfettamente ispanico: dalla musica di Manuel de Falla, al libretto di García Lorca, al tipo di satira sociale, al rito del fuoco e degli incantamenti. È ben vero che anche l’opera, o il repertorio cameristico e sinfonico, una volta allontanatisi dalla culla d’origine si tinsero delle peculiarità dei nuovi paesi di migrazione. Ma crediamo che in nessun caso gli apporti estranei abbiano subito un simile processo di personalizzazione.
Nella Spagna di oggi esistono fior di scuole accademiche. Ma non riescono a convincere; nemmeno quando si chiamano Ballet del Teatro Liríco Nacional diretto da Maja Plissetskaja, il fiore all’occhiello della ufficialità classica facente capo al Teatro Lirico della Zarzuela; l’altra faccia del Ballet Nacional de España di José Antonio dedito al baile.
Nemmeno quando, preceduta da impressionante battage, arriva a Spoleto una Maria Esturdo che fa vaneggiare la stella sovietica Maja sotto la bacchetta delle coreografie di José Granero. I ballerini spagnoli dediti al classico insomma non sono convinti di quello che fanno. Non lo sentono. Qualcuno in effetti è riuscito ad accettare la stilizzazione edonistica dell’accademia. Ma appena ha potuto non ha esitato a cercare respiro in quelle strutture che utilizzano il classico per dire cose concrete, per trasformarlo in violenza espressiva. Victor Ullate è stato a lungo con Béjart. Ana Laguna e María Bianco hanno sposato il grido di Birgit Cullberg; Nazareth Panadero la lacerazione esistenziale di Pina Bausch. Quasi una questione di pelle.

La Spagna non vuole accettare gli intellettualismi costretti e indubbiamente restrittivi di casa ovunque, nel vecchio come nel nuovo mondo, vittoriosi persino dell’italico individualismo. Parliamo di un paese passionale che si identifica nelle sue liturgie. Nella tauromachia, per esempio, la festa dei tori. Una sorta di messa dove si adora e si sacrifica al dio e dove l’officiante, l’uomo in lotta con la bestia, obbedisce a un calligrafismo gestuale assai vicino a quello che regola il baile.
In arena come nella cueva gitana si celebrano le categorie dell’assoluto: bellezza, gioventù, grazia, eroismo, onore, amore. E Lorca, che ha cantato il toro e Ignacio, come avrebbe potuto, in un’altra terra, dire i simboli scarnificati di un’infanzia trascorsa nella campagna granadina? Come il sole, la luna, il cristallo, il Guadalquivir delle stelle? Dove se non qui avrebbe potuto nascere la violenza luministica di Zurbarán, la visionarietà di El Greco, l’allucinazione di Goya, la radicalità goticheggiante del Gaudí?

In questa terra assoluta e assolata pare esserci spazio solo per il sentire. Un sentire forte, che si esprime a tutto tondo. Finora era stato lo straziante e fatale vocalizzo hondo. Adesso si affaccia un sentimento più universalizzato, che racconta ancora la sua terra ma con parole raccolte affannosamente in tutti i centri disponibili sparsi nel mondo.
È una Spagna nuova che si cerca per trovarsi: senza la rassegnazione fatale di sempre. L’epicentro del terremoto ancora timido e in molti casi ancora malato di hispanidad è la Catalogna, in particolare Barcellona. È lì che sul finire degli anni Settanta Anna Maleras apre il primo centro di danza jazz e moderna, invita coreografi stranieri e forgia i primi allievi: Francesco Bravo, Cesc Gelabert, Avelina Argüelles. Lì nascono i primi gruppi, come l’Espantall (1977) e la Heura (1979), già ora cancellati da una mappa appena tracciata dove le strade sono solo abbozzate e non conoscono futuro e destinazione.
I nuovi cercatori di Dio vanno in Europa, in America e poi tornano. Si uniscono e disgregano. Qualcuno ha più fortuna, o parla più forte. Come Cesc Gelabert che, di ritorno dagli Stati Uniti, costituisce una compagnia con Lydia Azzopardi, artista di nazionalità inglese che insegna all’Istituto del Teatro di Barcellona (uno degli spazi più importanti accanto a La Fabrica e a Bügé). La Cesc Gelabert y Lydia Azzopardi Companya de Dansa debutta nell’86 con Desfigurat per realizzare poco dopo una versione del Requiem di Verdi.
È grido, trasgressione, denuncia. La violenza allucinata non è troppo lontana da quella provocata da un altro gruppo catalano, La Fura dels Baus, il “topo del baus”, il torrente che passa per il quartiere barcellonese di Moía. Il 1983 assiste, sempre a Barcellona, alla nascita di lavori fondamentali: Casc Insólit di Nuria Olive, Duna di Angels Margarit, Avui dimars i demá dimecres di Avelina Argüelles. I nomi si moltiplicano e le compagnie proliferano. Arrivano anche i primi riconoscimenti internazionali spesso sanciti da festival francesi.
Fino a oggi l’unica rassegna dedicata alla Spagna nella sua totalità coreografica, dalla Plissetskaja a José Antonio attraverso vari saggi di sperimentazione, è stata promossa da Reggio Emilia nell’88. È in quell’ambito, Bailar España, che il nostro pubblico può avvicinare Mudances della Margarit, Bocanada Danza di Blanca Calvo e María José Ribot, la Compañia de Dansa di Carmen Senra o la Herencia Dux di Maria Muñoz e María Antonia Oliver Ribas. Si parlano tutte le lingue, con arte più o meno matura. E in fondo si sente sempre, ancora, la Spagna.

Rassegna stampa

“Si susseguono le accumulazioni di movimenti nelle quali è evidente l’influenza cunninghamiana e francese: geometrie rigorose e puramente formali ammorbidite da pulsioni organiche, da verità corporee rivelate lasciando trasparire il sentimento, insieme a tecnicismi vissuti e danzati come verità in sé e per sé, come appunto in Cunningham.
Per l’ottimo senso del ritmo e della dilatazione che García possiede, lo spettacolo “tiene” e funziona anche se appare più che altro un prodotto assai ben confezionato e “alla moda”. Non mancano tempi morti, ripetizioni in cui l’ispirazione si diluisce in misura eccessiva e ci si fa l’idea che per riempire tutto il tempo a sua disposizione García si sia lasciato andare ad “allungare troppo il brodo”.
Gli altri elementi costitutivi dello spettacolo – la musica, di Victor Nubla e Leo Marino, con frammenti di Haydn e Monteverdi, e la scenografia di Roig – forniscono però una solida cornice alla danza, che può rapprendersi sul finire, recuperando suggestione e intensità”.
(Donatella Bertozzi, Uno spagnolo che fugge il sangue e la passione, Il Messaggero, 17 luglio 1990)

“All’astrazione dei passi danzati il coreografo oppone la figuratività delle immagini scenografiche: grandi pannelli che illustrano dei bozzetti di scene prospettiche di stampo rinascimentale; un paio di scarpe meccanicizzate che, attraversando da sole il palcoscenico, suggeriscono una presenza inesistente; la gigantesca silhouette del toro della “Osborne”, un cognac spagnolo. “Questi elementi – sostiene García – disturbano l’azione e rispondono a un mio desiderio di articolare lo spettacolo usando estetiche diverse. È la dialettica dei contrasti”.
In questa prospettiva rientrano anche gli interventi parlati di una danzatrice che, ripetendo in spagnolo i suggerimenti del coreografo, tenta di spiegare in modo volutamente confuso lo spettacolo al pubblico, concludendo che per ulteriori informazioni bisogna scrivere a una certa casella postale o chiamare al telefono la compagnia a Barcellona.
Nello spettacolo, che non evita qualche lungaggine, García miscela con originalità diversi stili: il movimento rilassato di Trisha Brown, le cadute e i veloci recuperi di peso di Cunningham, ma anche le danze folcloristiche basche dalle quali, dice, “ho ripreso la chiarezza della struttura coreografica”. Ottimo il livello tecnico dei danzatori”.
(Francesca Bernabini, Astrazioni da Bilbao, Corriere della Sera, 20 luglio 1990)

“Juan Carlos descrive con molta ironia un ambiente quotidiano carico di incongruenze. Una società dove antichi simboli vengono a volte rispettati e venerati, ma altre volte sviliti e usati dalla pubblicità come richiamo per vendere. Dove umori e sentimenti nascono, si gonfiano e poi svaniscono sulla base di illusioni in un caos senza fine. E chi salta su, chiedendo quale sia la logica, può solo essere preso in giro; è appunto quello che fa una ballerina: a un certo punto dello spettacolo si sente la sua voce al microfono, inizia a parlare “per chi voglia spiegazioni”, subito coinvolge gli altri danzatori che fanno capannello dietro a lei, c’è chi suggerisce, chi controbatte, la farsa si gonfia. […] “È un gioco formale che non può andare al di là del proprio surrealismo”, ci dice García. La sua coreografia è apparentemente disorganica: i danzatori non si presentano quasi mai al centro dello spazio, non sempre danzano facendo riferimento al pubblico, a volte agiscono contemporaneamente in diversi angoli del palco senza relazione gli uni con gli altri.
Nonostante questo c’è qualcosa che li unisce, li ricompone. A scadenze alterne li ritroviamo a fare tutti gli stessi identici movimenti, come piccoli soldatini di stagno che obbediscono a una logica più grande di loro”.
(Giulia Salvagli, La danza dei ballerini inesistenti, Avvenimenti, 12 settembre 1990)

Crediti

Direzione artistica e coreografia Juan Carlos García
Ensemble Lanónima Imperial
Musica Victor Nubla, Leo Marino, Franz Joseph Haydn, Claudio Monteverdi
Maestri di danza Enric Castan, Becky Siegel
Scenografia e costumi Jordi Roig
Realizzazione scenografica Corominas
Realizzazione costumi Roig-Menendez, J. Ceres
Luci Jordi Planas, Françoise Michel
Suono Arturo Alvarez
Interpreti Maite Bisetti, Rafael Bonachela, Marisol Escalera, Esther Escolano, Monica Extremiana, Juan Carlos García, Pere Jane
Direzione amministrazione e produzione Dietrich Grosse
Produzione Mercato dei Fiori (Barcellona), Teatro Contemporaneo di Danza (Parigi), RomaEuropa Festival (Roma), Compagnia Lanónima Imperial (Le Quartz, Brest)