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Palazzo Farnese
24 Giugno 1992
25romaeuropa.net

Ensemble Itinéraire

Musica del Novecento


L’Ensemble Itinéraire che da tempo si è imposto sulla scena musicale internazionale per l’attenzione rivolta alla musica contemporanea e la sperimentazione di particolari gamme sonore attraverso un trattamento degli strumenti con mezzi elettronici, presenta un concerto perfettamente in linea con la propria identità: quattro opere di altrettanti compositori contemporanei, due maestri quali Pierre Boulez e Luciano Berio e due giovani borsisti di Villa Medici, Philippe Durville e Arnaud Petit.
Accanto a Derive I (1974) di Pierre Boulez, interpretato dall’Ensemble in modo affatto astratto, il programma ha presentato Imac (per 20 strumentisti) di Philippe Durville, opera per la quale il compositore si è avvalso, nella costruzione dell’immagine sonora, dei risultati delle ricerche sulla psicoacustica. Ed al fianco di Points on the curve to find di Luciano Berio, concepita come una struttura in cui sul tracciato di una curva (la linea fonica del pianoforte) convergono altre linee (gli strumenti) in modo da farne emergere i caratteri armonici, ovvero la peculiarità, l’Ensemble ha interpretato, a chiusura della serata, Inspiration di Arnaud Petit – prima parte del trittico Hommage et Profanations – opera ispirata al sottile rapporto fra tempo (memoria) e spazio nella omonima poesia di Octavio Paz – “ma la memoria smembrata nuota / dai germogli del suo nulla / dalle sorgenti della sua nascita / nuota contro corrente e precetti / nuota contro il nulla” (Octavio Paz).

Musica Pierre Boulez (Derive I), Philippe Durville (Imac, per 20 strumentisti)*, Luciano Berio (Points on the curve to find, per 15 strumentisti e piano solo), Arnaud Petit (Hommage et Profanations: I parte Inspiration, per 22 strumentisti e mezzo soprano)
Interpreti Ensemble Itinéraire
Direzione Pascal Rophé
Solisti Alain Neveux (pianoforte), Marie Boyer (mezzosoprano)

*I esecuzione assoluta della nuova versione

 

PHILIPPE DURVILLE, UN BIOLOGO DELLA MUSICA

Nato a Bourg La Reine, ma vissuto da sempre a Parigi, Philippe Durville è arrivato relativamente tardi alla musica, seguendo un percorso che, a prima vista tortuoso, ha invece la coerenza dettata dalla necessità di guardare “dentro” le cose. Come studente di chimica, Durville cercava l’architettura invisibile della natura. Divenuto compositore, si impadronisce di un diverso microscopio, il computer, per scrutare la logica interna dei suoni.

Quando si è avvicinato alla musica?
Nel ’78, a 21 anni, studiavo chimica. Avevo degli amici che suonavano nel tempo libero. Ho cominciato con loro a fare del jazz. Quasi contemporaneamente ho preso a studiare la musica classica. Studi rigorosi, di tipo tradizionale: contrappunto, fuga, armonia. Ho cominciato a comporre perché avevo bisogno di avere un’esperienza personale diretta su come funzionava la musica, quali erano le regole che facevano stare insieme le note in un modo piuttosto che in un altro. Non so dire come sia avvenuto, è un’attitudine che di punto in bianco ci si trova ad avere. Prima di allora facevo studi molto stretti, studi di chimica e biologia che concernono la materia organica che ci circonda. Ma questo non è in contraddizione con il mio interesse per la composizione. Nella mia musica di oggi c’è molto di ciò che avevo appreso allora. I suoni non sono oggetti immutabili: sono come la materia organica, elementi vivi con un’esistenza nel tempo. Suonare un la non è mai la stessa cosa, si può fare in infiniti e diversi modi. In fondo con la musica, la cui natura è più fluida della materia organica, proseguiva la mia ricerca dell’ignoto.

Quindi il suo successivo interesse per la musica elettronica è stato un naturale prolungamento, implicito già in quella ricerca.
Nell’84 sono entrato all’Ircam, dove ho cominciato a lavorare con il computer. È qui che ho ritrovato lo spirito della chimica e delle scienze naturali. Con il computer è possibile entrare letteralmente nei suoni. È come fare una biologia del suono, già, una “biologia musicale”. C’è stata un’evoluzione che mi ha portato, attraverso tappe graduali, verso una ricerca sempre più libera. Il computer applicato alla musica era per me uno strumento straordinario che mi permetteva di penetrare nel suono, per scoprire un universo nuovo. In questo senso, il computer è il microscopio dei musicisti. La composizione che verrà suonata a Romaeuropa coniuga i due aspetti di musica e tecnologia: da una parte ci sono i sintetizzatori, che rappresentano la realtà numerica, dall’altra gli strumenti acustici dell’orchestra. In Imac ho sperimentato il passaggio fra i due universi, quello acustico e quello elettronico.

Che cosa la spinge a comporre? C’è qualcosa che la ispira in modo particolare?
Ciò che mi ispira sono i suoni stessi, come vengono visti dal computer. Ho la stessa impressione di quando guardo un quadro: se da una parte vedo quello che c’è, dall’altra quello che vedo mi porta ad immaginare, a sognare ciò che c’è dietro, i suoi significati impliciti. Quello che mi ispira è il desiderio di sapere che cosa c’è nel suono, quello che resta nascosto, che posso soltanto indovinare. È il risultato che il computer mi dà quando gli chiedo un’analisi, è l’infinitamente piccolo che mi affascina: una goccia di sangue si rivela un universo pieno di elementi imprevedibili quando la mettiamo sotto il microscopio. Ma il computer è un mezzo per fare musica che non si limita soltanto all’elettronica. La musica scritta per mezzo del computer può essere destinata in una seconda fase o al computer stesso oppure agli strumenti acustici. In questo c’è una grande libertà.

Qual è il risultato dell’analisi informatica che più la colpisce?
Il fatto che sia possibile trascorrere, senza soluzione di continuità, dalla percezione della fusione a quella della frammentarietà dei suoni. L’analisi del computer permette di suonare sequenze in un tempo talmente rapido che è impossibile eseguirle per un ensemble tradizionale. Se suoniamo insieme venti note in modo rapidissimo otteniamo un timbro, cioè un aggregato di suoni fuso in modo che appare indissolubile. Eppure se rallentiamo gradualmente diamo luogo ad una frammentazione di quei suoni che prima erano uniti, fino ad arrivare alla melodia. L’analisi informatica permette di ottenere nell’orchestrazione la sensazione di un timbro. È solo un’illusione, ma davvero non si riesce a capire se stia suonando un violino, un pianoforte o un qualsiasi altro strumento. Si sente un tutto unico, in cui si realizza il massimo di coerenza e di fusione. Nell’opera suonata a Romaeuropa c’è un esempio di questo gioco fra l’illusione di un timbro e la liberazione graduale dei suoni, che formano a poco a poco una melodia. Finché ad un certo punto ogni strumento suona una sola nota di quella melodia. Il timbro e la melodia sono uno stesso oggetto e al tempo stesso due oggetti diversi. Ciò che cambia è soltanto il tempo della loro esecuzione.

Sembra un tentativo di sorprendere l’ascoltatore.
Piuttosto, l’intenzione di prenderlo per mano e condurlo alla scoperta di qualcosa che era sotto i suoi occhi, anche se non riusciva a vederla. È esattamente lo stesso meccanismo dell’anamorfosi, l’artificio prospettico per cui un’immagine è visibile solo da un punto di vista anomalo: il processo della frammentazione consiste nel dare un “quadro sonoro” e spostarlo gradualmente davanti all’ascoltatore per farglielo percepire.
L’immagine gli si rivela dopo qualche tempo, ma in realtà era tutta lì già da prima. Ciò che l’ha resa evidente è una sorta di “rotazione del piano sonoro”. Mi piace l’idea del rapporto fra anamorfosi visuale e anamorfosi musicale. La sua attrattiva sta nel dare l’illusione di ascoltare qualcosa che può esistere soltanto attraverso un angolo determinato.

 

HOMMAGE ET PROFANATION
di Arnaud Petit

Prima parte del trittico Hommage et profanations, dalla poesia omonima di Octavio Paz, Inspiration è scritta per una voce di mezzo-soprano e 22 strumenti. Se, sul piano della costruzione musicale, l’opera non “ricalca” in modo immediato la composizione della poesia di Paz, tuttavia si ispira a ciò che, ai miei occhi, ne costituisce un’essenza: un rapporto con il tempo e lo spazio che non deve nulla alla narrazione. La sensazione di un’opera senza inizio né fine, tuttavia accuratamente organizzata e come infinita nell’istante. Allo stesso modo la musica potrebbe proporsi come un momento di attenzione uditiva verso il mondo un po’ più sostenuta del solito, una finestra che si apre – sorpresa dei rumori e della complessità del mondo così liberati – e che poi si chiude, una sollecitazione confusa ma profonda della memoria, una deriva di corrispondenze, associazioni, riconoscimenti. L’espressione del rapporto con il tempo è, per me, più di qualunque nozione analitica, ciò che caratterizza un’epoca musicale rispetto ad un’altra, e un compositore rispetto ad un altro. La strutturazione del tempo di Debussy è, per esempio, essenzialmente diversa da quella di Boulez. (Entrambi esprimono la loro percezione del tempo e l’organizzazione del mondo in cui vivono. Nulla ci impedisce oggi di ricorrere ad una qualsiasi forma di organizzazione della “materia” musicale, se possiamo rivelare, al di là, la nostra maniera di vivere, di percepire, di comprendere il tempo, mantenendo la memoria di ciò che fu nella percezione di tanti altri musicisti che ci abitano e ci formano senza sosta. Hommage et Profanations è dedicato alla memoria di Olivier Messiaen.

 

IMAC
di Philippe Durville

Imac, per ensemble di venti musicisti, fa riferimento ai lavori condotti nel campo della psicoacustica, ed in particolare all’analisi dei processi che contribuiscono alla formazione ed alla differenziazione delle immagini acustiche e alla derivazione delle loro qualità percettive.
Uno dei problemi cui mi sono dedicato in Imac è quello della fusione percettiva degli elementi sonori in una sola immagine e della distinzione o separazione di diverse immagini sonore simultanee. Come nell’esperienza psicoacustica, l'”attenzione” dell’ascoltatore è qui primordiale così come la sua tendenza a favorire tale o tal altro tipo di percezione. Come esempio, citerò quella “melodia” di cinque altezze suonata dai legni (generata, come tutti gli altri elementi dell’opera, dalla nota ripetuta dell’inizio) che l’ascoltatore percepisce soltanto nel momento in cui il tempo diviene più lento. Prima di allora, queste cinque altezze erano percepite sotto forma di un timbro fuso; il tempo permetterà, qui, di far nascere due immagini distinte formate dallo stesso materiale e di far vacillare la percezione dell’ascoltatore. In effetti siamo in presenza dello stesso oggetto esposto a tempi diversi e rallentato. Qui, solo il tempo è alla base della frammentazione e tutto il processo è un gioco sull’illusione percettiva che diviene meccanismo formale. Beninteso, non c’è davvero un rallentamento del tempo; ma questa sezione è scritta in modo da avere l’impressione di ascoltare un rallentamento. La cosa importante è che il processo percettivo diventa procedimento di scrittura. Il gioco è invertito; non è più il rallentamento a darci l’illusione della divergenza delle immagini uditive, ma la divergenza delle immagini a darci l’illusione che la “melodia” rallenti.

La funzione dei due DX7 (sintetizzatori numerici) è qui delle più essenziali, perché è di carattere strutturale. Come interpolatore di timbri (creare interpolazioni, legami progressivi, tra suoni preesistenti); o come catalizzatore (suoni generatori di timbri), giocando l’orchestra il ruolo di prisma, di deformatore, di microscopio dei DX7 nei quali i processi di organizzazione orizzontale e verticale sono applicati alla microstruttura del suono; le organizzazioni sequenziali e simultanee si impongono come le diverse componenti spettrali in quanto parti della struttura dell’immagine musicale. Questo apre un accesso al mondo delle mutazioni dell'”immagine” udita.
Infine, concluderò con la disposizione scenica degli strumenti: un lavoro sulla spazializzazione, che permette la realizzazione dei diversi processi di cui ho parlato. In più, è la posizione circolare degli strumenti che condiziona la strumentazione della partitura. La situazione ideale vedrebbe l’ascoltatore al centro dell’orchestra, formando questa un cerchio intorno al pubblico; la sonorizzazione usata questa stasera (i recinti intorno al pubblico, l’orchestra davanti) ricrea l’immagine per illusione. Imac, Images Acoustiques, Ivo Malec (cui l’opera è dedicata), il titolo non sarà esso stesso un’ “immagine”?

 

ARNAUD PETIT: LA SFIDA DELLA MEMORIA

Una famiglia di musicisti, una casa frequentata da amici musicisti: Arnaud Petit, in un ambiente così favorevole, comincia a fare musica già all’età di 4 anni.

Quali sono i suoi primi ricordi musicali?
Sono praticamente cresciuto nella musica. Era un argomento di cui si parlava continuamente nella mia famiglia. Il mio primo ricordo risale a quando avevo pochi anni. È la Carmen di Bizet, ed è rimasta nella mia testa per molto tempo. I miei genitori mi avevano destinato ad essere strumentista, e io ho cominciato anche a comporre abbastanza presto. Poi c’è stato il conservatorio. Ma già da ragazzo facevo le mie proprie scelte musicali, che sono sempre diverse a seconda della particolare fase in cui ci si trova. La nostra storia musicale la fabbrichiamo noi in ogni momento. Siamo sempre in qualche modo esploratori e insieme inventori della storia.

È stato quindi in reazione all’ambiente familiare che è venuta la musica elettronica?
Sì, a 16 anni si vuole assolutamente essere nella modernità, si ha bisogno di rompere con la generazione precedente. È una proiezione nel futuro di sé e di tutte le proprie speranze. Molto presto ho avuto voglia di fare musica con i mezzi tecnologici di oggi. Nel 1982 sono entrato all’Ircam, dove in seguito ho anche insegnato, e ho cominciato ad usare l’informatica. Ho lavorato molto nel campo della musica elettronica, che è piuttosto impegnativo. Si tratta di un vero e proprio apprendistato, che richiede la conoscenza dei mezzi informatici, della fisica e dell’acustica. Inoltre il compositore di musica elettronica deve occuparsi anche dell’elaborazione della liuteria. Tutto tempo sottratto alla scrittura. Eppure oggi ho lasciato da parte l’informatica. Un po’ perché vivo a Villa Medici, un luogo sicuramente suggestivo, ma che non fa pensare a futuribili evoluzioni tecnologiche, e i luoghi influiscono sulla creazione.
Inoltre mi sforzo sempre di fare qualcosa di diverso, perché ho un vero orrore delle cose già fatte. Fra la continuità e la scoperta non ho dubbi: scelgo la seconda.

La composizione che presenta a Romaeuropa è ispirata ad una poesia di Octavio Paz: perché proprio questo artista messicano?
Leggo da molti anni Octavio Paz: credo che sia uno dei poeti viventi più importanti, perché ha memoria del mondo e nello stesso tempo una percezione straordinaria del mondo presente. In questo senso esprime il ruolo del poeta, quale solo può essere secondo me. Non c’è un equivalente nella lettura della realtà che Paz propone: la sottile fragilità del mondo, e il posto particolare dell’uomo nel mondo. Amo la sua frase: “L’uomo è uomo solo fra gli uomini”. L’opera che ha ispirato la mia composizione, Omaggio e profanazioni, è un trittico. La prima poesia s’intitola Aspirazione, ed è alla base del pezzo suonato a Palazzo Farnese. La mia intenzione è di comporre un’opera per ognuna delle parti del trittico, ogni volta con effettivi diversi. La musica in questo caso non è elettronica, ma orchestrale, con un mezzo soprano.

Qual è l’elemento per lei più significativo in questa poesia di Paz?
Proprio quel determinante rapporto con la memoria. Nel nostro tempo la coscienza della memoria è fortissima, è il carattere stesso del ventesimo secolo. Oggi tutto fa appello alla memoria degli uomini. Basta pensare a uno dei fenomeni più vistosi del presente, le retrospettive di pittura, dove in una volta sola si vede l’opera di una vita. Ricordo una enorme retrospettiva di Kandinskij al centro Pompidou. Mi sembrava mostruoso che si potesse comprimere tutto il lavoro di un uomo in un luogo e in un tempo determinato. È inevitabile che se ne abbia un’impressione superficiale, insufficiente. È un fenomeno tipico dell’Occidente, con il quale mi sento critico anche se non potrei essere altro che un frutto dell’Occidente, anzi, proprio dell’Europa. Quando un compositore scrive musica deve necessariamente affrontare la memoria musicale del suo continente. Siamo fatalmente chiusi nella storia, le armi dell’intelligenza non bastano più, ci è richiesto uno sforzo ulteriore per uscirne. E tuttavia non è possibile dimenticare, perché si rischierebbe di perdere una parte importante di se stessi. Viviamo una situazione critica, di grande tensione. Tutto questo è presente in modo limpido in Aspirazione: la parola memoria vi è citata varie volte, e con molteplici significati. Quando leggo l’opera poetica di Paz ho spesso l’impressione di riflettermi in uno specchio. Ha una grande bellezza plastica oltre che intellettuale.

Qual è invece il suo rapporto di musicista con la memoria?
Molto forte, ma non mi impedisce di proiettarmi nel presente o nel futuro. Non mi sento affatto neoclassico o neoromantico, non ho alcuna nostalgia musicale. Non mi pongo il problema di usare le forme del passato nella mia musica. E comunque è difficile definire il rapporto fra il passato e il futuro nell’arte musicale. Un artista impone il futuro della sua arte. Beethoven ha imposto Boulez. I grandi musicisti hanno fatto la storia esercitando spesso una certa violenza sugli altri e su loro stessi.

La serata di Romaeuropa dà un piccolo esempio del confronto fra generazioni: Berio, Boulez e due giovani musicisti.
Sono felice di questo confronto. Berio e Boulez rappresentano due maniere molto diverse di affrontare la storia, che mi affascinano entrambe. Berio è interprete di una grande libertà, e direi anche di una certa voluttà che amo molto. Boulez è un musicista che nelle sue opere parte per un’avventura quasi spirituale. La sua qualità maggiore è una spiccata coscienza dell’evoluzione che certamente non è soltanto intellettuale. La sua prima opera importante è stata dettata dalla storia, e poi non si è potuto più fermare. Tutta la sua produzione musicale è una conseguenza di questa violenza. Al contrario Berio esprime la sua “italianità” con un rapporto intellettuale più organico con la musica. Metterli insieme è importante proprio perché sono così diversi.

 

POINTS ON THE CURVE TO FIND
di Luciano Berio

Il titolo Points on the curve to find vuole principalmente descrivere la maniera con cui fu composto, maniera che si collega in parte all’esperienza dei miei Chemins e, per puro caso, a quella della Fantasia per violino e pianoforte op. 47 di Arthur Schönberg (la parte del violino fu redatta integralmente prima della parte pianistica). In Points ho scritto prima la parte pianistica e, successivamente, le parti strumentali che la commentano e la prolungano.
La parte del pianoforte, quasi sempre monofonica e periodica, può essere intesa come una curva complessa, una linea continua e cangiante sulla quale gli altri strumenti si posano per interpretarne e svilupparne i caratteri armonici. Come un disegno già fatto sul quale si aggiungono in punti diversi altre linee che ne modificano il senso mettendone in luce le proprietà nascoste. Per la velocità dell’articolazione, gli slittamenti di tempo e la particolare natura di quei caratteri armonici, l’insieme può essere talvolta percepito come una “forma d’onda” più o meno complessa. Ho scritto Points on the curve to find nel 1974 per il pianista Anthony di Bonaventura.