Regia Philip Glass e Robert Wilson
Musica Philip Glass
Disegno e concezione visiva Robert Wilson
Testo Gialâl ad-Dîn Rûmî (XIII secolo, persia)
Traduzione ed elaborazione del testo originale Coleman Barks
Disegno suono Kurt Munkacsi
Direttore della musica Michael Riesman
Film e animazione al computer Kleiser-Walczak Contruction Company
Sistemi visivi computerizzati Silicon Graphics Inc
Animazione software Alias/Wavefront
Diretti da Diana Walczak e Jeff Kleiser
Ensemble The Philip Glass Ensemble (Philip Glass, Dan Dryden, Jon Gibson, Richard Peck, Michael Riesman, Eleanor Sandresky, Andrew Sterman)
Vocalist Marie Mascari, Alexandra Montano, Gregory Purnhagen, Peter Stewart
Produttori Linda Greenberg, Jedediah Wheeler
Progetto Monsters of Grace 1nternational Production Associates, Inc. New York City in collaborazione con Top Shows. Inc.
Management di produzione per l’Italia e la Spagna Chance Performing Arts
Produttore esecutivo Jedediah Wheeler
Commissionato da Ucla Center for the Performing Arts, Los Angeles, California; Arizona State University Public Events, Tempe, Arizona; The Barbican Centre, Londra; The Brooklyn Academy of Music, Brooklyn, New York; Chance Performing Arts, Milano; Festival Castell de Peralada, Catalogna: Het Muziektheater, amstErdam; The Society for the Performing Arts, Houston, Texas: Teatro Massimo/Festival di Palermo sul Novecento, Palermo: Wolf Trap Foundation, Vienna, Virginia (USA).
Debutto 15 aprile 1998 al Royce Hall, University of California, Los Angeles.
© 1998 Dunvagen Music Publishers, Inc.
Il compositore Philip Glass ed il regista dalle grandi architetture visive Robert Wilson, che hanno ottenuto fama internazionale grazie al rivoluzionario spettacolo teatrale Einstein on the Beach (1976), hanno tentato una nuova via per il teatro con Monsters of Grace, innovativa opera scenica che fondendo immagini rielaborate tecnologicamente in 3D, musica, versi, luci e piani visivi, tenta la definizione di un nuovo ed inconsueto linguaggio scenico. In uno spettacolo che lega insieme, secondo una estetica organica, architetture sonore e visive dal carattere “freddo”, dominano i versi d’amore del poeta sufi Rûmî, collante fra l’universale e l’umano che bene spiega il titolo dato all’opera.
Le liriche di Rûmî interagiscono con le immagini di sintesi e la musica di Glass senza che vi sia necessità di un nesso narrativo – anche se questo in talune circostanze emerge evidente. Esse infatti possono lavorare nella mente dello spettatore generando infinite e personali associazioni: è questa possibilità di creare innumerevoli immagini che, in fase compositiva, è stata particolarmente stimolante per Glass e Wilson che erano anche alla ricerca di una nuova o diversa azione sulla percezione dello spettatore – che per l’occasione è fornito di speciali occhiali 3D.
Tre piani scenici, immagini che lavorano come fossero una partitura sonora, suoni scanditi da ritmi ripetitivi, brani di poesie che si ascoltano e si guardano, ed un titolo Monster of Grace che riassume il nucleo dell’operazione: “Credo che i mostri siano le persone”, dice Glass, “il modo in cui gli esseri umani si manifestano: e la grazia sia una specie di stato divino che viene conferito alle persone. Vi è questo tipo di dinamica tra i mostri e lo stato di grazia. Se guardi in quest’ottica e poi leggi i versi di Rûmî noterai che il titolo calza ottimamente al suo testo. Monsters of Grace riflette questa dicotomia tra l’amore umano e l’amore divino”.
Monsters of Grace: la genesi
MONSTERS OF GRACE: LA GENESI
Sono passati più di 20 anni da quando due sconosciuti, il compositore Philip Glass e il regista-scenografo Robert Wilson rivoluzionarono lo spettacolo dal vivo con il loro Einstein on the Beach nel 1976. Si trattava di un’opera della durata di 4 ore e mezza, innovativa per una particolare fusione di testo, suono, movimento, luce e immagine tale da cambiare il concetto di estetica e quindi la percezione stessa del teatro. Ora Glass e Wilson sono di nuovo insieme per creare un’opera nuova, Monsters of Grace, uno spettacolo ambizioso in 3 dimensioni che vuole lanciare il teatro musicale nel XXI secolo. “Non era solo una questione di creare un’altra opera. – dice Glass – Volevamo creare uno spettacolo che avesse delle qualità innovative. Volevamo fare qualcosa di nuovo, qualcosa che non avevamo fatto prima”.
Nell’estate del 1993 Glass e Wilson si incontrarono a Watermill, New York, per la prima serie di laboratori finalizzati a discutere le varie idee sul nuovo progetto. “Iniziammo a parlare dell’opera che doveva essere una combinazione d’immagini e musica, ma non sapevamo ancora come le immagini sarebbero state utilizzate”, racconta Glass. C’era una parte in Einstein chiamata The Bed nella quale non c’era nessuno sul palcoscenico, solo un parallelepipedo luminoso che si muoveva da una posizione orizzontale ad una verticale; la scena andava avanti così per 11 minuti. Questo li portò all’idea di fare dell’immagine la parte centrale dell’opera, dando all’immagine stessa una sua propria modalità teatrale. “Credo che la grande illuminazione sia arrivata circa un anno e mezzo fa, quando il nostro produttore Jed Wheeler ci suggerì di seguire la direzione di un’immagine computerizzata tridimensionale”, dice Glass.
Con l’accompagnamento di una musica suonata dal vivo e amplificata, e di un quartetto di voci, Monsters of Grace si snoda attraverso immagini proiettate su un grande schermo ed animate al computer in tre dimensioni. Il pubblico è fornito di speciali occhiali. “Aggiungere una nuova dimensione allo spazio teatrale è l’aspetto più eccitante di questo progetto…” afferma Diana Walczak della Kleiser-Walczak Computer 3D Special Effects Company, che produce la grafica computerizzata di questo lavoro. “Elementi visivi alcune volte sembreranno a portata di mano, altre volte sembreranno lontanissimi”.
Il testo si basa sulle poesie di Gialâl ad-Dîn Rûmî (XIII secolo) e le immagini includono giungle, città e deserti popolati dai “Synthespians”, esseri generati dal computer.
Utilizzando una strumentazione computeristica, Monsters of Grace fonde il mondo dell’arte con quello della tecnologia in un modo estetico piuttosto innovativo (nel 1998, n.d.r.). Lo spettacolo è diviso in quattro aree di profondità stereoscopica. Il prologo include scene ambientate in uno spazio lontanissimo e contiene immagini di gas e stelle. Poi ci sono tre tipi principali di scene o “vignette”: “paesaggi” dove le immagini sono composte dalla parte posteriore del “palco” verso l’orizzonte, con ampie visuali; “nature morte”, in cui gli elementi sono riservati ai classici spazi teatrali; ed infine “ritratti”, dove lo scenario fluttua tra lo spettatore e lo schermo di proiezione.
Per impedire all’opera di diventare troppo fredda e tecnologica, Glass aveva bisogno di un elemento che umanizzasse gli effetti speciali e portasse la tecnologia “sulla terra”. “Questo è il motivo per il quale ho scelto di utilizzare i testi di Rûmî. Ho sentito che l’opera necessitava di un vero battito del cuore, di un centro emotivo”, racconta Glass. “Volevo equilibrare le immagini astratte con qualcosa di più lirico, con un testo che fosse caldo e che fosse in grado d’instaurare un rapporto interpersonale”. Rûmî è spesso ritenuto l’unico vero derviscio. “Ciò che m’interessava della poesia di Rûmî è il fatto che si tratta realmente di una collezione di canzoni d’amore”, dice Glass. “Il mondo di Rûmî ed il suo modo di descrivere l’amore e le relazioni interpersonali nelle sue poesie è molto contemporaneo”.
Come già avvenuto in Einstein, anche Monters of Grace fa passare il proprio messaggio attraverso una struttura che risponde ad una logica meditativa piuttosto che narrativa. “Non stavamo cercando un legame narrativo tra le immagini, il testo e la musica”, afferma Glass. “Stavamo cercando qualcosa di più ellittico, qualcosa che abbiamo fatto con Einstein, dove il testo e le immagini non erano letteralmente collegate. Molti di questi “significati attraverso associazioni” si ritrovano durante le fasi di collaborazione. Bob lavorava sulle immagini, ed io sulla musica. Quando hai tempo per lavorare in questa maniera – e Monsters si è sviluppato in un periodo di tempo molto lungo – hai la possibilità di creare un rapporto veramente organico tra gli artisti che stanno lavorando alla stessa opera”.
È stato attraverso questo processo che il titolo dell’opera ha iniziato a risuonare dentro la testa di Glass. Scelto da Wilson, il nome si basa su un verso tratto da Amleto di Shakespeare, che Wilson portò sulle scene un po’ d’anni fa. “All’inizio dissi: “penso di sapere cosa significhi” – racconta Glass – Ma poi ho iniziato a lavorare sul testo di Rûmî che mi ha illuminato. Io credo che i mostri siano le persone, il modo in cui gli esseri umani si manifestano: e la grazia sia una specie di stato divino che viene conferito alle persone. Vi è questo tipo di dinamica tra i mostri e lo stato di grazia. Se guardi in quest’ottica e poi leggi i versi di Rûmî noterai che il titolo calza ottimamente al suo testo. Monsters of Grace riflette questa dicotomia tra l’amore umano e l’amore divino”.
(in Catalogo Romaeuropa Festival 1998)
Monsters of Grace: la genesi
INTERVISTA A PHILIP GLASS
di Laura Putti
È dalla prima metà degli anni Ottanta che Philip Glass pensava di fare un’opera di Gialâl ad-Dîn Rûmî. Da quando cioè era rimasto folgorato dalle parole del grande mistico, lette in un inglese poetico e moderno. “Negli Stati Uniti abbiamo la fortuna di avere un traduttore come Coleman Barks, che ogni anno pubblica un piccolo libro di poesie di Rûmî. Mi pare che a questo punto siano già quattordici; abbastanza per comprendere la sua opera” dice Glass, che incontriamo in un albergo londinese il giorno dopo la prima europea di Monsters of Grace.
È uno dei pochi compositori capaci di grande lucidità sin dalle prime ore del mattino. Il suo sfrenato attivismo, l’essere impegnato su molte cose alla volta, lo rende curioso, disponibile, pieno di energia. Ora, per esempio, che ha appena licenziato Monsters of Grace (con la quale sarà però impegnato fino all’aprile del ’99) sta già scrivendo una sinfonia per il Festival di Southport del prossimo anno, e le musiche per il film di un regista esordiente; sta anche pensando alla colonna sonora del Dracula con Bela Lugosi, acquistato dalla Universal (“incredibile, un film senza musiche e con pochi dialoghi”) che ha in programma di eseguire dal vivo il prossimo autunno, nonché a una piccola opera ispirata a un racconto di Kafka. Ma c’è dell’altro: Philip Glass ora scrive canzoni. Anzi, non vede l’ora che qualche musicista rock gliele commissioni. Ne ha già scritta una per Mick Jagger dei Rolling Stones (“che, come per magia, è diventata una canzone di Mick Jagger”), ha suonato a un concerto di Patti Smith, e Michael Stipe dei R.E.M. lo ha contattato per un progetto da realizzare assieme.
Glass scrive vere canzoni, melodiche, cantabili. Come definire altrimenti quelle ascoltate in Monsters of Grace?
Non so come mai, ma sto scrivendo canzoni. Non di tipo comune, però canzoni a tutti gli effetti. Credo che il primo impulso me l’abbia dato The marriages between zones three, four and five, l’opera che ho composto con il libretto di Doris Lessing. I due atti avevano ognuno trenta-quaranta scene, e per ogni scena un brano. E’ stato un buon allenamento.
Perché è arrivato così tardi alla canzone, alla melodia?
Perché quando si è giovani si è molto impegnati a imparare, si è concentrati su troppe cose alla volta, compreso quello che dicono i critici e quello che dice tua madre.
Io, dopo quarantacinque anni di musica, ho superato questi problemi e sono riuscito a pormi in maniera diretta una domanda semplice solo all’apparenza: qual è la cosa essenziale per un artista? La risposta è: comunicare. Credo che la canzone sia il modo più diretto di comunicare. E credo anche che sia la forma d’arte più popolare.
Monsters of Grace è un’opera leggibile su più piani: c’è un doppio momento visivo: quello coreografico che si svolge sul palco e quello delle immagini in tre dimensioni proiettate sul grande schermo. In entrambi i casi vediamo una rappresentazione delle canzoni?
Non sempre. Certe volte la distanza tra parole e musica è minore, altre volte è maggiore; in certi casi tra i due piani dell’opera non c’è proprio connessione. All’inizio, quando sullo schermo appaiono quattro case nel bosco all’imbrunire e pensiamo che chi le abiti stia andando a dormire, le parole di Rûmî dicono: “La brezza dell’alba ha segreti da svelarti. Non tornare a dormire”. O quando è proiettata una mano mozza infilzata da aghi e tagliuzzata da un bisturi, la canzone è sul dolore dell’amore: “Non andare in nessun posto senza di me, non lasciare che qualcosa accada in un cielo lontano da me”, dice Rûmî. Quello che vedi è dolore fisico e si unisce al dolore spirituale che stai ascoltando. Ma ci sono anche immagini fini a se stesse, e allora la fantasia si scatena. C’è gente che vede cose che io non vedo e questo è molto stimolante.
Ma è giusto chiamare opera uno spettacolo senza trama?
Perché no? Ci sono molti modi di combinare assieme musica, parole e movimento. C’è il modo tradizionale, che va bene e mi piace. Bob Wilson ha messo in scena molte opere tradizionali. E poi, alle soglie del nuovo millennio, ci devono essere anche altri modi. Non dobbiamo sempre cercare il senso delle cose. Certe volte si può sedere e lasciare scorrere la vita senza porsi troppe domande. Credo che chi, da Wilson e me, si aspettava West Side Story sarà molto deluso.
Lei ha lavorato molto su Rûmî: come ha affrontato la poetica del grande mistico sufi?
Nell’orchestrazione ho tenuto molto conto delle parti cantate e la musica è decisamente al servizio della parola. Rûmî non scrive parole difficili, la sua poesia è umanissima e diretta. I cantanti usano sempre una tonalità bassa proprio per permettere al pubblico di capire quello che cantano; per questo molte frasi sono ripetute più volte. Perché anche se non è giusto dire che Monsters of Grace è un’opera su Rûmî, è giusto che tutti ne capiscano la grandezza.
(in Laura Putti, E Rûmî diventa digitale, Musica!, 4 giugno 1998)
Rassegna stampa
“Musica del futuro? Ad ascoltarla non si direbbe, perché non solo è perfettamente tonale, ma semmai ci riporta indietro, non foss’altro per realizzare una consonanza col testo tradotto dall’antico persiano in cui il poeta e filosofo Rûmî cantava nel XIII secolo un amore umano e divino, esprimendo una spiritualità forse più intensa di quanto lo stesso Glass non dichiari di ritenere. […] I versi di Rûmî e la musica diventano canzoni, a volte neniose, a volte simili a numeri di un musical, ma evocano anche le arie di un tenore o di un soprano, o duetti, terzetti, quartetti di un’opera, proprio mentre gli impasti dei quattro strumenti, che la tastiera del leader assiste e moltiplica, si fanno cullanti e quasi ipnotici. E rapiscono il pubblico che, come un’opera vera, di tanto in tanto applaude a scena aperta”.
(Virgilio Celletti, Ecco l’opera del 2000 secondo Glass e Wilson, Avvenire, 15 ottobre 1998)
“L’effetto è sensazionale e non solo musica e parole, ma anche le immagini che si susseguono danno a volte fortissime emozioni. Sono orizzonti luminosi e geometrici, paesaggi campestri, mari sterminati e montagne rocciose, sono gigantesche mani dolorosamente ferite, e tanto ancora, c’è tutta la magia che il raffinato esteta Wilson, grande assente al non clamoroso successo, sa esprimere”.
(Agnese De Donato, Glass-Wilson magico mix benedetto dal poeta Rûmî, La Gazzetta del Mezzogiorno, 16 ottobre 1998)
“Per essere in sintonia, come insegnano Glass e Wilson, non occorre fare lo stesso sentiero. A Glass piace soft e ripetuto, con improvvise melodie che fioriscono come arabeschi su un tessuto scozzese. Wilson lo preferisce nitido e quasi “raggelato”. Dalle due “anime” dei suoi creatori nasce così un algoritmo a cui piace sognare, canzoni a tre dimensioni (ben interpretate da Marie Mascari, Alexandra Montano, Gregory Purnhagen, Peter Stewart), schegge di pianeti da esplorare a bordo di macchine volanti. Un piccolo universo che ricorda alla lontana i paesaggi grafici di Roland Topor, dove i “Synthespians” – le creature generate dal computer – assomigliano ai suoi omini sospesi nel tempo e nello spazio. Mentre gli antichi versi di Rûmî, così caldi e appassionati, riscaldano l’amore al tempo del computer”.
(Rossella Battisti, I “Mostri” vanno visti con gli occhiali – In Italia l’opera in 3D di Glass-Wilson, l’Unità, 18 ottobre 1998)
“Al di là delle fantasiose e avveniristiche definizioni coniate dagli stessi autori, l'”Opera digitale in tre dimensioni”, Monsters of Grace appare ripiegata su schematismi abusati e rassicuranti. […] Quella che nelle intenzioni dovrebbe rappresentare un modello per l’opera del XXI secolo sembra invece un ruffiano coacervo di trovate. Non si ravvisa la necessità creativa che avrebbe mosso da una parte il compositore e dall’altra l’ideatore delle immagini proiettate sullo schermo cinematografico che domina il palcoscenico. Non si ha sentore di una precisa scelta di campo. Sfugge l’intenzione artistica o filosofica che fa da substrato al lavoro”.
(Marcello Filotei, Musica: al Teatro Olimpico la nuova opera di Philip Glass, L’Osservatore Romano, 18 ottobre 1998).