La fine del pensiero
La musica
La danza
La parola-gesto non discorsiva
Progetto coreografico e interpretazione Hervé Diasnas
Musica e interpretazione dal vivo Stefano Scodanibbio
Estratti dal testo La fine del pensiero, di Giorgio Agamben
Co-realizzazione Afaa – Association Ça
Con il sostegno della Fondation Beaumarchais
Produzione e realizzazione del nastro magnetico Les Ateliers Upic Paris/France
Assistente musicale Stephane Kim
Il lavoro di Hervé Diasnas, intreccia movimenti e segni del corpo, con la musica di Scodanibbio – interpretata dal vivo dallo stesso contrabbassista -, e la voce registrata di Agamben recitante alcuni brani del suo affascinante e cupo, La fine del pensiero. L’essere umano ha perso la voce: “ciò che è stato pensato, non potrà più essere detto. Dalla parola pensata, tu prendi congedo per sempre”, scrive Agamben. L’uomo non ha voce, poiché questa non arriva mai a conbaciare con il linguaggio, il pensiero è condannato a restare “sospeso”. Un principio che gela, se non fosse per la ricerca di trovare altro mezzo perché il pensiero torni ad esprimersi. Tra i silenzi di questa sospensione, si muove il gesto di Diasnas e la musica di Scodanibbio che danno linguaggio e scrittura alla voce perduta del filosofo. Ne nasce un vocabolario nuovo che però, non mai definito, ogni volta deve essere ricostruito attraverso i mobili strumenti della musica e del movimento.
“La fine del pensiero in questo connubio fra discorso, musica e danza”, dice Diasnas, “si avvicina a quello che Grotowski definisce come l’opera-processo e l’opera-prodotto. Il lavoro si costruisce drammaturgicamente su questi due elementi: imprimersi, esprimersi”.
L ‘association Ça è una compagnia coreografica indipendente sovvenzionata dal Ministère de la Culture -Délégation de la Danse è ugualmente sostenuta Dall’Afaa (Association Francaise d’Action Artistique) nell’ambito delle sue attività artistiche e pedagogiche all’estero.
DANZARE LA FINE DEL PENSIERO
di Hervé Diasnas
È un progetto delicato quello di danzare La fine del pensiero di Giorgio Agamben. Delicato e pericoloso poiché è un progetto che ha il carattere di un paradosso: un pensiero pensa se stesso e pone la questione sul fine della propria esistenza e sul mezzo della propria sopravvivenza. La fine del pensiero mi interessa per questa parola che ritorna su se stessa. Questo voltafaccia fa confrontare il senso e la resistenza della parola con l’architettura che la ispira, con gli arcani complessi che la supportano e senza i quali non potrebbe apparire
Cos’altro si può incontrare al di là di questa struttura oltre ad un’apertura indefinibile? Sì, ciò che è stato pensato non può più essere detto. Il pensiero che esiste sembra improvvisamente ed in maniera irrevocabile bastare a se stesso. Il pensiero si fregia di un’autonomia, di una peculiarità che lo separa dal suo modo d’apparire, rendendolo così scaduto e obsoleto. Un trampolino che il volo rende istantaneamente inutile. Il linguaggio e la voce di Giorgio Agamben mi evocano l’alfabeto e la poesia, lo strumento è l’opera. Il linguaggio come strumento e la voce intraducibile se non fosse stata alfabetizzata. Come la nota, il suono per la musica o il movimento, per la danza.
Accordare uno strumento è l’atto quotidiano del musicista e del danzatore, un’operazione inevitabile. Percorrere di nuovo le strade e riattualizzare, rimodellare una topografia. Esercizi, gamme, forme, studi, serie… Aprire le mani, piegare le dita, tendere una gamba, liberare, ammorbidire, ventilare, mobilitare. Recitare a memoria le regole di una grammatica fondamentale. Preparare il linguaggio alla parola, la parola al pensiero. L’Uomo ha perso la voce, è quindi alla sua ricerca. Munisce di propri segnali un tragitto, traccia una cartografia, un’ortografia, un proposito. Traccia un percorso sinuoso per trovare ciò che ha perso e che gli manca. Questo progetto interroga le radici e mette in questione le fondamenta della creazione.
Quando il costume è rivestito e la luce dei proiettori illumina la scena, quando l’altro è lì, di fronte, molteplice, racchiuso nel vuoto della sua attesa, la posta non è più quella di una grammatica né di una pronuncia o di una sintassi, bensì quella di un’espressione. Il musicista sulla scena lascia intravedere la sua preparazione, il danzatore la sua. Gli strumenti si preparano ad interpretare l’opera. Si pone a poco a poco la questione dell’opera e della messa in opera. La voce “perduta” di Giorgio necessita la creazione di un linguaggio, di una scrittura. Questa differenza tra le quinte e la scena, la messa in opera e la realizzazione mi affascinano. È questo divario, a mio avviso, che ci fa effettivamente lavorare per realizzare il lavoro.
Ironia della sorte, la nascita dell’opera distrugge, di fatto, la sua messa in opera. “Ciò che è stato pensato non potrà più essere detto”, scrive il filosofo. Ora capisco perché Giorgio Agamben ha fatto appello a Stefano Scodanibbio e poi a me. Voglio ben credere che lo scrittore reclami un collegamento necessario alla sopravvivenza del pensiero. “Ciò che è stato pensato non potrà più essere detto”, senza dubbio, deve essere cantato e danzato. Ma questo pensiero non rimane impresso: si riattualizza ogni volta che lo strumento è aggiustato, ogni volta che viene accordato. E quando si libera, si riveste malgrado tutto della sua parte di mistero. L’opera non può quindi essere ne un’illustrazione ne una critica del testo.
La scenografia luminosa apre due tipi di spazio, due qualità di luoghi. Da una parte un’illuminazione la cui banalità dimostra che è veramente insensata, dall’altra delle luci come altrettanti quadri cesellati dai colori discreti, che accompagnano un’opera dentro un’opera. In effetti si assiste alla coabitazione di due mondi paralleli che alternano l’avvenimento e la sua preparazione. La fine del pensiero in questo connubio fra discorso, musica e danza si avvicina a quello che Grotowski definisce come l’opera-processo e l’opera-prodotto. Il lavoro si costruisce drammaturgicamente su questi due elementi: imprimersi, esprimersi.
La fine del pensiero si può definire spettacolo coreografico, musicale, teatrale, un documentario, una performance.
(in Catalogo Romaeuropa Festival 1998)
LA FINE DEL PENSIERO
di Giorgio Agamben
Avviene come quando camminiamo nel bosco e a un tratto, inaudita, ci sorprende la varietà delle voci degli animali. Fischi, trilli, chioccolii, tocchi come di legno o metallo scheggiato, zirli, frulli, bisbigli: ogni animale ha il suo suono, che scaturisce immediatamente da lui. Alla fine, la duplice nota del cucco schernisce il nostro silenzio e ci rivela, insostenibile, il nostro essere, unici, senza voce nel coro infinito delle voci animali. Allora proviamo a parlare, a pensare.
La parola pensiero ha in origine, nella nostra lingua, il significato di angoscia, di ansioso rovello, che ha ancora nell’espressione familiare: “stare in pensiero”. Il verbo latino pendere, da cui la parola deriva alle lingue romanze, significa “stare in sospeso”. Agostino lo usa in questo senso per caratterizzare il processo della conoscenza: “II desiderio, che è nella ricerca, procede da chi cerca e sta, in qualche modo, in sospeso (pendet quodammodo) e non riposa nel fine a cui tende, se non quando ciò che è cercato viene trovato e si unisce a colui che cerca”.
Che cosa sta in sospeso, che cosa pende nel pensiero? Pensare, nel linguaggio, noi lo possiamo solo perché il linguaggio è e non è la nostra voce. C’è una pendenza, una questione non risolta nel linguaggio: se esso sia o no la nostra voce, come il raglio è la voce dell’asino e il frinito è voce delle cicale. Per questo non possiamo, parlando, fare a meno di pensare, di tenere in sospeso le parole. Il pensiero è la pendenza della voce nel linguaggio. (La cicala – è chiaro – non può pensare nel suo frinito).
Quando camminiamo a sera nel bosco, a ogni passo sentiamo fra i cespugli che fiancheggiano il sentiero frusciare animali invisibili, non sappiamo se lucertole o ricci, tordi o serpenti. Così avviene quando pensiamo: importante non è il sentiero di parole che andiamo percorrendo, ma lo zampettio indistinto che a volte sentiamo muovere a lato, come di una bestia in fuga o di qualcosa che, all’improvviso, si desti al suono dei passi.
La bestia in fuga, che ci pare di sentir frusciare via nelle parole, è – ci è stato detto – la nostra voce. Pensiamo – teniamo in sospeso le parole e stiamo noi stessi come sospesi nel linguaggio – perché speriamo di ritrovare in esso, alla fine, la voce. Un tempo – ci è stato detto – la voce si è scritta nel linguaggio. La cerca della voce nel linguaggio è il pensiero. Che il linguaggio sorprenda e anticipi sempre la voce, che la pendenza della voce nel linguaggio non abbia mai fine: questo è il problema della filosofia. (Come ciascuno risolva questa pendenza è l’etica).
Ma la voce, la voce umana non c’è. Non c’è una nostra voce che noi possiamo seguire alla traccia nel linguaggio, cogliere – per ricordarla – nel punto in cui dilegua nei nomi, si scrive nelle lettere. Noi parliamo con la voce che non abbiamo, che non è mai stata scritta. E il linguaggio è sempre “lettera morta”.
Pensare, noi lo possiamo solo se il linguaggio non è la nostra voce, solo se in esso misuriamo fino in fondo – non c’è, in verità, fondo – la nostra afonia. Ciò che chiamiamo mondo è quest’abisso.
La logica mostra che il linguaggio non è la mia voce. La voce – essa dice – è stata, ma non è più, né mai potrà essere. Il linguaggio ha luogo nel non-luogo della voce. Ciò significa che il pensiero ha da pensare nulla della voce. Questa è la sua pietà.
Dunque la fuga, la pendenza della voce nel linguaggio deve aver fine. Possiamo cessare di tenere in sospeso il linguaggio, la voce. Se la voce non è mai stata, se il pensiero è pensiero della voce, esso non ha più nulla da pensare. Il pensiero compiuto non ha più pensiero.
Del termine latino che, per secoli, ha indicato il pensiero, cogitare, nella nostra lingua è rimasta appena una traccia nella parola tracotanza. Ancora nel secolo XIV, coto, cuitanza, vogliono dire: pensiero. Tracotanza deriva, attraverso il provenzale oltracuidansa, da un latino ultracogitare: eccedere, passare il limite del pensiero, soprappensare, spensare.
Ciò che è stato detto, si potrà dire di nuovo. Ma ciò che è stato pensato, non potrà più essere detto. Dalla parola pensata, tu prendi congedo per sempre.
Camminiamo nel bosco: a un tratto sentiamo un frullo d’ali o d’erba smossa. Una fagianella spicca il volo e appena la vediamo sparire fra i rami, un istrice s’interna nella macchia più folta, sgrigiolano le foglie arse su cui rotola la serpe. Non l’incontro, ma questa fuga di bestie invisibili è il pensiero. No, non era la nostra voce. Ci siamo avvicinati al linguaggio per quanto era possibile, quasi lo abbiamo sfiorato, tenuto in sospeso: ma il nostro incontro non è avvenuto e ora torniamo ad allontanarcene, spensieratamente, verso casa.
Dunque il linguaggio è la nostra voce, il nostro linguaggio. Come tu ora parli, questo è l’etica.
(in Giorgio Agamben, II Linguaggio e la morte, Einaudi )
LA MUSICA IN LA FINE DEL PENSIERO
di Stefano Scodanibbio
In effetti è un compito difficile ed inusuale, probabilmente impossibile, creare una musica su un testo filosofico. Ma quando il filosofo italiano Giorgio Agamben mi diede le tre pagine che costituiscono La fine del pensiero, immediatamente ho pensato che nessun altro testo sarebbe stato più stimolante per un musicista. I concetti fondamentali di questo lavoro, voce, pensiero, linguaggio, sono dei concetti chiave per un compositore ed interprete come me, e non ho mai smesso di interrogarmi a questo proposito.
Il senso di quest’opera è un’interrogazione radicale tra il corpo e lo strumento. Che cos’è il linguaggio del contrabbasso, come dare voce al pensiero? Tra le molteplici voci del contrabbasso, tra le migliaia di voci (“una sola e stessa voce per tutti i multipli delle mille voci”, Giles Deleuze), come trovare la Voce? Può essere che il linguaggio nasconda la voce? Ed infine se “… la fuga, la sofferenza della voce nel linguaggio deve avere una fine”, se “il pensiero compiuto non ha più pensiero”, esiste un pensiero nel baratro del silenzio? Tra i miei vari lavori con il contrabbasso questo è sicuramente quello che esplora di più il suo “divenire animale”.
Dopo secoli di tentennamenti e di pallide imitazioni, questi anni presenti sembrano essere quelli del contrabbasso. Tutto quello che sembrava non consono – la misura, la lunghezza del manico, il peso, l’incredibile estensione della sua gamma, in breve un essere a misura d’uomo – è ora, grazie alle nuove tecniche di questi ultimi decenni, un vantaggio. Il contrabbasso offre una gamma di possibilità che solo difficilmente potrebbe essere trovata in altri strumenti ad arco. Tutto questo sarà messo a servizio dell’arte corporea del coreografo e danzatore Hervé Diasnas. Un’altra sfida, una moltiplicazione di corpi, un’estensione dell’uno e dell’altro, un gioco comune.
La musica, concepita allo stesso tempo per la danza e come un’opera concertistica, sarà emanata unicamente dal contrabbasso, sia dal vivo che registrata, senza alcuna manipolazione elettronica se non quella di un lavoro di spazializzazione.
Il testo, letto dal filosofo stesso, è registrato.
(in Catalogo Romaeuropa Festival 1998)
LA PAROLA-GESTO NON DISCORSIVA
di Cristina Piccino
Può suonare come una sfida questo progetto di Hervé Diasnas, di creare sulla scena una relazione tra testi in apparenza così diversi quali musica, movimento, parola. Tanto più se a essere “danzato” è un testo come La fine del pensiero di Giorgio Agamben, incursione profonda nel linguaggio, nei suoi vuoti, nelle sue sospensioni in rapporto allo stesso pensiero e alla voce. Ma la sfida diventa meno impossibile se si guarda attentamente alle caratteristiche del lavoro di Diasnas, una ricerca gestuale che non è spettacolarizzazione, che rivendica a ogni coreografia una rottura di toni e di modelli narrativi.
In Francia lo chiamano “il mago”, un mago però che riesce a rendere gli altri partecipi alle sue alchimie, ambivalenti oscillazioni tra utopia e lucido disincanto. Il movimento come la concezione della coreografia è per Diasnas uno strumento di incessante esplorazione del mondo, dello spazio, del tempo, e naturalmente del corpo. Non è però il segno di Diasnas indirizzato a una finalità narrativa logica, a un discorso di esplicitazione. La sua è una parola-gesto non discorsiva, che lavora di scarto rispetto a quanto si racconta. Ecco allora definirsi meglio l’attuabilità della Fine del pensiero, e anzi questo incontro tra Agamben e Diasnas appare a questo punto quasi inevitabile. O necessario. Voce, pensiero, linguaggio sono i concetti su cui fonda questo lavoro. Di questo parla Agamben, di questo parla Diasnas, di questo il contrabbasso di Stefano Scodanibbio.
Tutti e tre infatti si muovono in quello spazio unico che anticipa il tempo, che si apre sulla continua ricerca di senso nella natura del linguaggio. E se il percorso di Agamben approda infine a una irrimediabile separazione tra linguaggio e voce nella distanza tra pensiero e parola – “ciò che è stato pensato, non potrà più essere detto” – uguale può essere la tensione del coreografo che prova a visualizzare il proprio flusso mentale nel gesto della messinscena. Ché in fondo questa appare impossibile da rendere identica a come si è prefigurata nell’interiorità, nello storyboard pensato, e anzi lo scarto (l’impossibilità?) di questa è la struttura profonda di ogni lavoro.
Il teatro, dunque, come frizione costante tra la rappresentabilità e la sua negazione, che da questa sua ambivalenza prende forza, costruisce senso e stupore. Il gesto come oscillazione tra corpo e spazio che reinterpreta i codici del movimento provando a restituire un’autonomia fisica e spirituale “naturali”, che non soggiacciano cioè alle regole della convenzione. Questo è il terreno di Hervé Diasnas, coreografo che interpreta l’istante, che si pone come rischio voluto per se stesso e per lo spettatore, catturandolo in quella zona “vuota” dove i significati si devono reinterpretare, dove il linguaggio è ancora una volta sospensione, un’immagine appena intravista e non catturata, l’intuizione di qualcosa che resta racchiuso nell’essenza della sua danza.
(in Catalogo Romaeuropa Festival 1998)