LE FIGURE FEMMINILI NEL CINEMA DI CARLO LIZZANI
Film
Cattiva (1991)
Cronache di poveri amanti (1954)
Caro Gorbaciov (1988)
Processo di Verona (1962)
Amore in città (1953)
Lo svitato (1955)
La vita agra (1964)
Storie di vita e di malavita (1975)
Roma bene (1971)
La donna del treno (miniserie tv, 1998)
La casa del tappeto giallo (1983)
Documentari
Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato (1950)
La muraglia cinese (1956)
Questo pianeta donna – Intervista a Coretta King
Le facce dell’Asia che cambia (1974)
IL NUOVO CINEMA EUROPEO AL FEMMINILE
Rose e pistole di Carla Apuzzo
Due volte nella vita di Emanuela Giordano
Ratcatcher di Lyanne Ramsay
Os mutantes di Teresa Villaverde
Me illamo Sara di Dolores Payas
Venus beauté di Tonie Marshall
Il consueto appuntamento con il cinema trova nella tematica dell’universo femminile la linea guida di questa edizione, articolandosi in due cicli distinti.
Innanzitutto l’omaggio ad un eclettico regista italiano, Carlo Lizzani, la cui filmografia ha da sempre evidenziato un chiaro impegno politico e sociale, trasformando la macchina da presa in uno strumento di inesausta esplorazione della realtà. Nella sua lunga carriera Lizzani ha affrontato generi diversi, dalla trascrizione filmica di classici della narrativa (Cronache di poveri amanti, da Vasco Pratolini, o La vita agra, da Luciano Biancardi, tra le proposte), al documentario (La muraglia cinese, primo lungometraggio girato nella Cina di Mao da un regista occidentale), ma anche il thriller (La casa del tappeto giallo), la commedia nera (Roma bene), la fiction televisiva (La donna del treno), il poliziesco e il western; e proprio all’interno di questa vasta produzione sono stati scelti i film maggiormente centrati su figure femminili, quali alcuni potenti ritratti di donna capaci di documentare, in un arco di tempo di quasi cinquant’anni, le trasformazioni avvenute nella società italiana.
A completamento di questo panorama sul femminile, il programma della rassegna continua quindi, nel secondo ciclo previsto, con le opere più recenti di alcune giovani cineaste provenienti da sei paesi europei: le italiane Carla Apuzzo e Emanuela Giordano, l’inglese Lyanne Ramsay, la portoghese Teresa Villaverde, la spagnola Dolores Payas e la francese Tonie Marshall.
OMAGGIO A CARLO LIZZANI
di Renato Nicolini – Presidente Palazzo delle Esposizioni
Il mio primo incontro con il cinema di Carlo Lizzani è stato al cinema Aniene di Montesacro, dove (il martedì?) c’era qualcosa di analogo ai “lunedì del Rialto “. Per chi è nato dopo la fine degli anni Sessanta, ricorderò che questa iniziativa consisteva nella proiezione, in un cinema “normale”, di uno dei classici della storia del cinema, o comunque di un film d’autore. Montesacro era abbastanza distante da Prati, dove vivevo; e questo comportava un lungo viaggio in autobus. Prima il 90, mi pare, che correva lungo il Muro Torto fino a piazza Fiume; a piedi arrivavo a Porta Pia, e da lì prendevo il secondo autobus fino alla fine di via Nomentana ed alla “città giardino” costruita dopo la prima guerra mondiale da Gustavo Giovannoni. Ne fui ricompensato da Achtung! Banditi! e, un’altra volta, da Cronache di poveri amanti. Allora leggevo anch’io Vasco Pratolini, ed apprezzavo di questo cinema di Lizzani la pulizia, la secchezza dell’immagine, ma anche una certa quale eterodossia rispetto a, come dire?, l’ortodossia neorealista costruita da certi teorici, forse inconsapevoli portatori del germe del politically correct. Di Lizzani ricordo con particolare piacere Lo svitato, un curioso film con Dario Fo e Franca Rame molto giovani, assolutamente fuori canone. O Il gobbo del Quarticciolo, con Pier Paolo Pasolini protagonista, accompagnato dalle polemiche sul rapporto tra “cronaca” e “storia” e sulla liceità di usare gli stilemi nobili del neorealismo per un fatto di cronaca in cui di nobile c’era ben poco.
Scrivo questo non per manifestare in modo stravagante il mio apprezzamento per un grande maestro del cinema, al quale è doveroso dedicare una rassegna nel Palazzo delle Esposizioni. Ma per invitare a vedere i film di Lizzani con lo spirito giusto. Senza giacca e cravatta. Ma con quella eleganza di spirito che è il segno caratteristico dell’uomo Carlo Lizzani. Uno spirito che è riuscito, ed era difficile, a portare anche nella Direzione della Biennale Cinema, navigando, mi pare, in asimmetrica sintonia con le mie rassegne di Massenzio. Avevamo un collaboratore in comune, l’indimenticabile Enzo Ungari, che con “Mezzogiorno mezzanotte” ha portato un po’ del tono dell’Estate romana in laguna. Peccato che Enzo non sia più con noi, per festeggiare lo schivo e generoso Carlo Lizzani.
UN POSSIBILE PERCORSO PER LA RETROSPETTIVA
di Carlo Lizzani
Appartengo a quella generazione di registi formatasi e divenuta poi attiva nei decenni in cui tutta l’istituzione cinematografica era, sì, fiorente, ma anche fortemente condizionata – nel mondo, ma anche in Italia – dagli indirizzi e dalle scelte di forti apparati produttivi e distributivi.
Il cinema era il protagonista privilegiato del “tempo libero” e tutte le figure professionali avevano davanti a sé percorsi fortemente disegnati. Nemmeno il neorealismo riuscì a sconvolgere la solidità degli apparati produttivi, che si dovevano basare essenzialmente sullo star system e sui “generi”: Visconti, Rossellini, e il De Sica di Umberto D pagarono a quel tempo duramente le loro fuoriuscite dal sistema.
Anche la “Cooperativa spettatori produttori” fondata a Genova insieme a Giuliani e che produsse due miei film di qualità e anche di buon successo commerciale ebbe breve vita: dal 1950 al 1954. Soltanto la Nouvelle vague riuscì, in Francia, a portare in primo piano la figura dell’Autore, ma in questo fu favorita proprio dai primi smottamenti dell’Istituzione cinematografica dovuti all’espansione televisiva e all’occupazione del tempo libero da parte di tanti altri fenomeni di socializzazione. Detto questo, non nascondo, però, che in conseguenza di quella iniziazione al cinema vissuta già alla fine degli anni trenta, in qualcuno di noi rimase (e forse rimane ancora) il gusto di giocare dentro i labirinti di quell’apparato di tipo hollywoodiano, che per noi giovanissimi era il sogno, l’obiettivo finale di una carriera.
Il gusto di cimentarsi nei “generi”, di fare film vincolati allo star system. Un tipo di vincoli e di condizionamenti che, già prima della nascita del cinema, non ha impedito, in ogni arte, la coerenza di certi percorsi, l’affiorare di certe scelte più personali di quelle indicate dal “committente”.
Insomma, dietro un certo eclettismo, svelare certe opzioni. A volte paradossalmente è stata la critica a darci una riconoscibilità, che se da una parte era gratificante, dall’altra ci legava un po’ le mani. Per esempio, in seguito a certi successi, io sono stato classificato come regista della “cronaca” (Il gobbo, Lutring, Banditi a Milano, Storie di vita e malavita) o dell’antifascismo, della storia (Achtung! Banditi!, Cronache di poveri amanti, Il processo di Verona, ecc.). Ritenendo io stesso che i percorsi dentro la foresta dei miei film (quasi cinquanta) possono essere anche altri, e dovendo scegliere, perché una retrospettiva completa di un autore prolifico è oggi quasi impossibile per qualsiasi istituzione, ho provato a proporre un altro tracciato: quello delle figure femminili che certamente nei miei film sono numerose, e che essendo radicate in vari periodi del Novecento, possono anche raccontare in qualche modo – se proposte cronologicamente – le trasformazioni, l’evoluzione della donna in questo secolo.
Dal primo decennio – Cattiva, La donna del treno, degli anni ’90 (miniserie tv) -, i titoli non mancano. Dopo gli anni dieci di Cattiva, gli anni venti di Cronache di poveri amanti, gli anni trenta di Bucharin e di Un’isola, i quaranta di Il processo di Verona e di Amore in città, vengono poi via via i ritratti di figure femminili raccontate a tutto campo (le adolescenti di Storie di vita e malavita) o interessanti anche se un po’ in ombra come ne Lo svitato o ne La vita agra, in Roma bene ecc. Insomma un itinerario che può essere percorso attraverso dodici, quindici film.
Ci terrei molto, poi, a ricordare la mia sterminata filmografia nel documentario, con almeno quattro o cinque titoti: La Muraglia cinese, Il pianeta donna (RAI con ritratti di varie donne, da Jane Fonda a Coretta King), I volti dell’Asia che cambia (RAI), Nel Mezzogiorno qualcosa è cambiato (Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio), Federico II (Editalia).
ATTRAVERSO IL (CINEMA DEL) NOVECENTO
di Vito Zagarrio
Affrontare l’opera di Carlo Lizzani, vuol dire fare i conti con la storia del cinema e la storia d’Italia negli ultimi cinquant’anni. La sua longevità artistica, il suo eclettismo, la sua elasticità rispetto alla nozione di autore, la sua frequentazione dei generi, fanno del suo cinema un serbatoio enorme di temi possibili, tanti fili rossi attraverso cui analizzare le tipologie, le fonti, i modelli produttivi, le dinamiche industriali e culturali del film. Vediamone alcuni: parto dal cinema come fonte e specchio della storia. Lizzani rivisita il fascismo e l’antifascismo, da Achtung! Banditi! a Il sole sorge ancora, dal Processo di Verona a Mussolini: ultimo atto, analizza il comunismo con Bucharin, Un’isola, Caro Gorbachov, il boom economico con La vita agra, la corruzione con Roma bene, il terrorismo con Kleinhoff Hotel. Prendo il rapporto tra cinema e letteratura: ecco la possibilità di rileggere sotto altra luce Cronache di poveri amanti da Pratolini e La vita agra da Bianciardi, oppure Fontamara da Silone, o Celluloide da Pirro. Continuo col metalinguaggio: ancora con Celluloide Lizzani riflette sulla stessa macchina-cinema oltre che ricostruire un evento storico.
E poi i generi: Lizzani affronta il comico e la commedia (Lo svitato, Il carabiniere a cavallo), il thriller (La casa del tappeto giallo), il film-cronaca (Mamma Ebe), il western (Requiescant), il poliziesco (Banditi a Milano). Diventano essenziali nell’era contemporanea le relazioni tra cinema e televisione: ecco che Lizzani realizza il documentario su Venezia nella serie televisiva sulle città europee, o il recente tv movie La donna del treno.
Il lungo percorso di Lizzani “attraverso il novecento” (come suona la sua ultima raccolta, una sorta di diario dall’interno del cinema italiano) permette di fotografare uno spaccato d’Italia dal ventennio fascista all’era della televisione; egli stesso, infatti, sottolinea come attraverso i suoi film si possano raffigurare interi decenni della storia italiana. Il suo eclettismo di intellettuale completo gli permette di affrontare tutti i gangli della macchina-cinema: i festival (ha diretto la Mostra di Venezia in anni cruciali), la critica (dal lavoro critico col gruppo “Cinema” alla sua nota Storia del cinema e ai volumi di saggi editi da Marsilio o da “Bianco & Nero”), la politica (presidente dell’Anac, l’associazione degli autori cinematografici, punto di riferimento della politica culturale della sinistra dal dopoguerra a oggi, dal cooperativismo di Achtung! Banditi! sino alle battaglie sul diritto d’autore). Insomma, sono tante le piste possibili per indagare sul cinema di Lizzani, inteso come corpo complesso, composto non solo di una tradizionale filmografia.
Mi pare interessante, dunque, e anche al passo con i tempi, una linea analitica che ripercorra questo “corpo” col punto di vista del gender. Uno dei fili rossi possibili, infatti, accanto a quelli già visti e ad altri possibili, è quello dei personaggi femminili, che permettono di coniugare un lecito taglio ideologico (in epoca di women studies) o socio-antropologico con un’analisi del linguaggio, della messa in scena, della recitazione, sempre importante nel lavoro di Lizzani.
Penso a personaggi come quelli di Antonella Lualdi e Anna Maria Ferrero in Cronache di poveri amanti, del trio Sandrelli-Betti-Di Benedetto in Mamma Ebe, di Clorinne Clery in Kleinhoff Hotel, di Antonella Fattori in La donna del treno. Penso a sequenze memorabili come il provino della Magnani, interpretato dalla Sastri, in Celluloide, dove la macchina da presa diventa mitopoietica, costruisce la diva e insieme un personaggio di donna forte e sensibile insieme.
Oppure alla scena in cui Barbara De Rossi appare insanguinata dietro la porta, come in un film horror, in Mamma Ebe. Penso alla crisi isterica della De Sio dopo il drammatico confronto con Julian Sands, o all’intenso primo piano della protagonista, incorniciato dall’ovale del finestrino, nel finale di Cattiva. E mi viene in mente, invece, in un ideale montaggio della memoria, il primo piano di Giovanna Ralli, incorniciato dal finestrino di un treno, all’inizio de La vita agra. Infine i ritratti di donna costruiti per la Rai in Pianeta donna, appunto, titolo metaforico di questa angolazione particolare.
Per concludere, una rilettura del suo cinema e meta-cinema con l’ottica del “femminile” conferma la modernità di Lizzani, la sua continuità nel corso di un’Italia in trasformazione, contraddittoria e nevrotica. Molti registi della sua generazione sono al palo, spesso incapaci di interpretare la nuova realtà, a-ideologica e globalizzante, degli anni Novanta. Lizzani, invece, continua a muoversi senza rinunciare alla coerenza e all’onestà intellettuale, con un acume analitico e una “saggezza” politica che gli permette di mettere insieme “vecchio” e “nuovo” cinema.