Kentridge definisce questo spettacolo multimediale “un oratorio d’ombre”, nel quale il canto, la recitazione, un quartetto d’archi, il video e la puppetry si fondono per far affiorare la mai sopita modernità del testo. Al centro della scena uno schermo bianco ospita forme che ben assecondano la fragilità dei caratteri di Svevo, il quale ne La coscienza di Zeno ha scelto di raccontare quell’incapacità di vivere che condiziona il lavoro, il matrimonio, ma anche la malattia e la morte, descrivendo con sottile ironia le rinunce, i timori e i pavidi desideri della borghesia europea alla vigilia della prima guerra mondiale. L’irresolutezza è quindi il tratto dominante di ciascun carattere, tratto che Kentridge lascia sconfinare volentieri nel comico, anche con diverse allusioni alle atmosfere della sua città, Johannesburg, ombra essa stessa di un impero che sta scomparendo. Oltre alla maestria della Handspring Puppet Company, autrice delle marionette e della loro manipolazione (estrema metafora dell’incapacità di vivere), determinante per la costruzione di un’atmosfera in continua sospensione è la musica di Kevin Volans, una partitura per quartetto d’archi (eseguite dal Sontonga Quartet) e trio vocale che, accogliendo stimoli diversi e sfuggenti, risulta quanto mai congeniale alla natura dell’allestimento del regista sudafricano.
LE VERITÀ MUSICALI DI KEVIN VOLANS
di Giorgio Battistelli
Con Kevin Volans ci troviamo di fronte ad uno dei compositori più originali ed imprevedibili del panorama musicale internazionale. Volans è un autore che ha focalizzato il proprio talento naturale in quella direzione estetica e musicale che qualche anno fa è stata definita con il termine Neue Einfachheit o New Semplicity: una scrittura libera e disinvolta che ha probabilmente segnato l’inizio del postmodernismo nella musica. Una ispirazione che in lui ha trovato suggestioni e stimoli creativi anche nelle altre arti come il teatro, la danza le arti visive. L’attualità del pensiero di Volans si manifesta in una idea di drammaturgia musicale articolata e multifunzionale, una musica impura ma con una forte identità poetica.
Volans nasce nel 1949 a Pietermaritzburg (Sudafrica) e attualmente vive in Irlanda. La sua formazione musicale affonda le radici nella Nuova Musica europea; lavora a Colonia con Karlheinz Stockhausen prima come allievo e poi come assistente e studia contemporaneamente con Kagel (teatro musicale) e con Aloys Kontarsky (pianoforte). Da molti anni svolge una intensa attività concertistica collaborando con le più importanti compagnie di danza e con ensemble e orchestre come il Kronos Quartet e la BBC Symphony Orchestra.
Le due anime di Volans, quella africana e quella europea, riescono a convivere e ad alimentarsi reciprocamente dando vita ad una scrittura musicale mai autoreferenziale, ma sensibile e attenta alle peculiarità che caratterizzano una modalità dell’ascolto di oggi. Un presente musicale che sicuramente impone una problematica non soltanto all’artista che deve creare nuovi suoni e nuove forme musicali, ma anche all’ascoltatore che deve ricercare una diversa sintonia di percezione. L’impressione che si ha ascoltando la musica di Volans è quella di una musica a dimensione sferica e quindi tridimensionale, lì dove l’arcaico e il moderno insieme al semplice e il complesso riescono a vivere.
Gli aspetti ritmici e timbrici che troviamo nella sua musica riescono ad evolversi con uno stile eclettico che alterna elementi della tradizione europea con quelli di una tradizione africana. Potremmo definire le sue metafore musicali non come delle citazioni folkloriche ma come un folklore “inventato”, ossia non un recupero in termini etnomusicologici ma come la messa in atto di una immaginazione d’artista che proietta la propria scrittura in una società multiculturale.
Volans nella sua arte non ha mai voluto integrare la musica africana a quella europea, ma farle convivere nel rispetto delle loro differenze cercando di creare degli oggetti artistici capaci di evitare la banalità presente in molti esempi di World Music. È proprio il suo riuscire a stare in un percorso di borderline tra dire e non dire che gli permette di eludere le aspettative dell’ascoltatore cambiando continuamente la prospettiva dell’ascolto.
In un mondo sottoposto alla forte pressione di una globalizzazione musicale e ad una conseguente omologazione di ascolto e del pensiero positivo, fa piacere trovarsi di fronte un autore che riesce con un gesto generoso a presentare un pensiero musicale arricchente. Un pensiero disposto a correre dei rischi, mettendo in discussione i proprio risultati, la ricerca incessante dell’elaborazione di un concetto di stile nel linguaggio nel linguaggio musicale contemporaneo: una definizione che deve essere intesa non come una verità assoluta ma come articolazione di verità.
CONFESSIONS OF ZENO
di Gioia Costa
Un autore è un mondo che si apre, che pone a suo modo domande e suggerisce risposte individuali.
William Kentridge ha incontrato la scrittura di Italo Svevo lo scorso anno, quando mise in scena Zeno at 4 p.m., e torna adesso a dialogare con lui con Confessions, un estratto della Coscienza di Zeno. È per Kentridge un modo per guardare da vicino l’incapacità di vivere, che caratterizza la borghesia europea alla vigilia della guerra e che all’autore sembra essere lo specchio dell’attuale situazione di Johannesburg, sua città nel sud dell’Africa.
In Confessions confluiscono tutti gli elementi della sua poetica: il teatro d’ombre, l’animazione del disegno, la ripresa cinematografica dal vivo, le marionette dell’Handspring Puppet Company, il movimento musicale di ogni figura scenica. Tutto sembra essere pensato per dare forma all’indistinzione dei caratteri del romanzo. Le ombre sul grande schermo bianco sono la spia dell’indeterminatezza dei personaggi, di cui Zeno è l’incarnazione principe: vorrebbe smettere di fumare e non ci riesce, come non riesce a scegliere fra sua moglie e la donna che ama. In qualsiasi situazione, riappare la sua incapacità di affrontare la realtà. In Confessions esce dalla sua camera d’insonnie e vaga per le strade di Trieste, incontrando figure e fantasmi. “Zeno volteggia avanti e indietro fra incertezze e timori, diventando una metafora della costruzione di una vita senza uno scopo”, racconta Kentridge. “Due aspetti convivono nel mio lavoro: il procedimento formale di lavorazione – in questo caso l’uso delle ombre dei personaggi – e la ripresa cinematografica diretta. Volevamo che il romanzo fosse solo un canovaccio ma poi, come il mio Soho che inventai anni fa, figura prototipo del capitalista o dell’industriale, e che riappare nei disegni fino a diventare un tipo dotato di una sua personalità, così Zeno riappariva nell’elaborazione dello spettacolo, che si è sempre più avvicinato al romanzo”.
Confessions è un’opera poco convenzionale che unisce al film creato in diretta il canto, la musica live di Kevin Volans, la recitazione e le marionette. Kentridge definisce questo spettacolo “un teatro-giocattolo come quelli nei quali si mettevano le figurine di carta, ma è anche teatro musicale. Un oratorio per schermo, cantanti e quartetto”. Il lavoro sulla musica ha in effetti un ruolo centrale: rielaborando canzoni e motivi della Trieste dell’epoca di Svevo, Kevin Volans ha composto una partitura per archi di grande suggestione, affidata al Sontonga Quartet. Il senso dell’ironia che avvolge Zeno è venato di tristezza, e questo tratto fa dell’opera un saggio poetico sull’esitazione, che tanto è vicina al carattere contemporaneo dilaniato fra virtualità, insicurezze e indecisioni tanto potenti quanto in conflitto. Eugenio Montale, che fu il primo ad intuire il valore di Italo Svevo, ha definito La coscienza di Zeno “il poema della nostra complicata pazzia contemporanea”.
A PROPOSITO DI ZENO
di Giulio Ferroni
Zeno sfugge a ogni soluzione definitiva, si nasconde e si sottrae continuamente a se stesso e al lettore, compie una serie di sotterfugi per ridursi al minimo, non vuole né può essere un eroe modello, una immagine assoluta, ma solo il protagonista di una esperienza singolare, come singolare è l’esperienza di ogni uomo. Con lui la malattia si configura come la sola autentica possibilità di essere dell’io: il personaggio moderno si impone come “malato”, rinunciando a tutte le pretese eroiche dei personaggi tradizionali. Il narrare, nel momento stesso in cui ruota attorno ad una coscienza individuale, come una inchiesta che l’io compie su di sé, si risolve così in una riduzione dell’io, in una rivelazione del suo perpetuo squilibrio, della sua mancanza di centro, della sua sostanza evanescente, aleatoria, casuale.
La psicoanalisi si rivela strumento essenziale per la costruzione di questo personaggio “malato”, per la rivelazione di questo squilibrio che costituisce l’io; non soltanto le memorie di Zeno vengono presentate come frutto di una cura psicoanalitica interrotta o divulgata da un medico, ma in molti momenti del suo racconto si sente l’effetto dello sguardo del tutto nuovo che Freud aveva portato sulle tensioni nascoste in ogni atto psichico; alla psicoanalisi si può ricollegare l’ottica con cui vengono rappresentati i comportamenti irregolari di Zeno e gli stessi modi in cui egli scopre sintomi di irregolarità sotto l’apparente normalità di altri personaggi. E la presenza di Freud si sente particolarmente nella rappresentazione dei sogni del protagonista, nella sua abitudine ai motti di spirito, nel suo continuo incorrere in lapsus ed equivoci. Nei termini della psicoanalisi, è la nevrosi, con le sue molteplici manifestazioni, la malattia che domina il mondo di Zeno. Ma sarebbe sbagliato (come pure si è a volte cercato di fare) definire in modo chimico più preciso la natura della nevrosi di Zeno: accumulando “verità e bugie”, avviluppandosi nella sua malattia e continuando comunque a ricercare la guarigione, Zeno non ci presenta un “caso” specifico di nevrosi, ma una immagine più ampia della condizione nevrotica dell’uomo contemporaneo. Nel suo sottrarsi alla cura e nella critica ironica e sarcastica della psicoanalisi che compie nell’ultimo capitolo del romanzo, egli indica d’altra parte che la psicoanalisi vale per lui soprattutto come modo di conoscenza, come rivelazione delle complicazioni su cui si costituisce l’esperienza umana, come strumento narrativo e interpretativo, “avventura psichica” che assomiglia per certi versi allo spiritismo, non certo come metodo di cura universalmente valido, toccasana per tutti i mali. La nevrosi dell’individuo è anche la nevrosi della civiltà e della cultura; la guarigione non esiste, esistono solo equilibri provvisori che nascono dalla coscienza dell’inevitabilità della malattia. E Zeno cerca immagini della malattia universale anche al di fuori dell’orizzonte della psicoanalisi: memorabile l’attenzione che egli riserva al morbo di Basedow (da cui a un certo punto viene deformata la bellezza di Ada), che gli appare come una rivelazione delle “radici della vita la quale è fatta così: tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow che implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito di un cuore sfrenato, e dall’altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica, destinati a perire di una malattia che sembrerebbe un esaurimento ed è invece di poltronaggine”.
Così anche il rapporto tra vitalità e inerzia si risolve in un rapporto tra malattie, mentre il “giusto medio fra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta”.
La malattia diventa insomma strumento fondamentale di conoscenza; e in questo essa si intreccia, fino ad identificarvisi, con la letteratura: scrivere è anche cercare le ragioni segrete delle malattie, usare la malattia come forza critica, che rivela le contraddizioni della realtà, l’inganno che si nasconde sotto le apparenze sociali, ma nello stesso tempo la scrittura è invenzione, artificio, sistema di inganni che allontanano da una conoscenza autentica. Lo stesso linguaggio è falsificazione: ogni “confessione” sincera è impossibile per iscritto (e per Zeno, abituato a parlare triestino, lo scrivere in italiano non può essere altro che falso e menzognero). Questa tendenza alla falsificazione, questo inevitabile immergersi dell’uomo in un gioco interminabile di inganni e di autoinganni, anche se offre molta materia di lavoro alla psicoanalisi, rende però impossibile il raggiungimento di una verità ultima dell’io, confermando l’inutilità della cura.
La narrazione di frammenti della propria esistenza, lo scavo del proprio io imposto dall’analista si confrontano necessariamente con il tempo: La Coscienza di Zeno è anche un’opera sul tempo, una sottile indagine sul rapporto tra tempo della scrittura (e della cura) e tempo della vita, tra il flusso del presente (in cui la coscienza interroga se stessa ed i propri ricordi) e il flusso dell’esistenza trascorsa e perduta. È la stessa cura psicoanalitica ad imporre un recupero del tempo, un ritorno all’infanzia, a situazioni e a traumi originari, un riassorbimento di tutto il vissuto nella coscienza presente, una continua attenzione ai ricordi e ai sogni. Ma Zeno impegnato com’è a ricordare e a raccontare, si accorge che non è possibile nessun rapporto sicuro o lineare con il tempo: da una parte il tempo si ripete e si riavvolge su di sé; dall’altra il suo ritornare si trasforma in qualcosa di diverso da ciò che era, ne lascia solo frantumi eterogenei, lo muove e lo deforma. I ricordi diventano sempre un’altra cosa, creano nuove realtà che non è possibile identificare con quelle originarie; la coscienza si muove solo allontanandosi da sé. A differenza di quello che accade in Proust, per Svevo non è possibile nessuna salvezza nella memoria, nessun recupero del tempo perduto. Il tempo narrativo del romanzo si costruisce attraverso continue sfasature, con movimenti in tutte le direzioni, come mostra la stessa struttura dei capitoli, lo stesso disporsi degli eventi secondo un ordine tematico e non cronologico, lo stesso perdersi e frantumarsi della narrazione e il suo definitivo risolversi in diario.
Nell’ultimo capitolo l’abbandono della cura si collega alla esibizione della distanza che separa il protagonista, ormai vecchio, dalle sue “avventure” precedentemente narrate: la scrittura si accanisce a mostrare come la cura basata sulla insincerità, arriva a mettere in dubbio fino in fondo la verità della narrazione; e il lettore è costretto a dubitare perfino della verità di questo diario finale. È certo comunque che la frattura su cui La coscienza di Zeno si chiude è figurata fortemente dall’incombenza della guerra: questa si pone anche come segno simbolico dell’uscita da un’epoca, della rottura di un mondo compatto quale era stato, al di là dei suoi precari equilibri, quello del giovane Zeno, della nuova minaccia di distruzione che incombe sul mondo borghese. Raggiunto improvvisamente da una guerra che fino all’ultimo egli aveva creduto lontana, Zeno si accorge che la sua malattia e il gioco dei suoi desideri gli hanno fatto ignorare la realtà ma, grazie ad un imprevedibile ed ambiguo rivolgimento, Zeno sembra ottenere la guarigione proprio da questa situazione, dai fortunati affari che la guerra gli permette di fare. Questa guarigione lo riconduce però – dal punto di vista sicuro di chi riesce a salvarsi nella catastrofe universale – ad allargare lo sguardo alla malattia che ha colpito l’intera civiltà umana: le ultime battute del romanzo mostrano come sia lo stesso accumulo di oggetti e di “ordigni” che rende l’uomo più civile e lo allontana dalla natura, ad accrescere la sua malattia, a comunicarla all’intero pianeta (“La vita attuale è inquinata alle radici”). Come ha rivelato la guerra, lo sviluppo dei mezzi industriali e il dominio della natura si rovesciano in distruzione e morte: e il romanzo si chiude proiettando il suo movimento nel tempo verso un futuro minaccioso, dilatando la malattia di Zeno verso l’ipotesi di una distruzione della terra, per effetto di una esplosione creata dalla malattia degli uomini: “Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e malattie”.
INTERVISTA A WILLIAM KENTRIDGE
a cura di Simona Vendrame
Parliamo dei due personaggi chiave di una serie di tuoi film, Soho e Felix. Mi colpisce la figura di Soho, capitalista arido di sentimenti e interessato unicamente al profitto. Sempre al telefono, a far tornare i conti, a investire al meglio il proprio denaro, egli è l’emblema dell’individualismo prodotto da un capitalismo esasperato. Tutto ciò che riguarda gli altri non è un problema suo; l’importante è preservare l’ordine che permette al sistema di funzionare. Anche esteticamente Soho è mostrato in termini negativi: è un individuo tozzo, dai lineamenti duri, vestito con lo stereotipato abito dell’uomo d’affari. Felix, al contrario, è rilassato, immerso nella vasca da bagno o intento a osservare l’orizzonte: è il sognatore, l’uomo libero da ambizioni mondane che vive dei propri sentimenti. Spesso appare nudo, in una dimensione di essenzialità che evoca la condizione di purezza di un ipotetico Eden. Gradualmente, tuttavia, i contorni si sfumano. Soho, capitalista che sfrutta e opprime i dipendenti è, nel contempo, oppresso dal proprio lavoro e schiavo di quel sistema che solo in apparenza domina. In History of the Main Complaint lo ritroviamo, in coma, su un letto d’ospedale, grottescamente vestito con giacca e cravatta. La sua impotenza sollecita un senso di pietà, acuito dal fatto che le radiografie del suo torace mostrano al posto del cuore un telefono e un registratore di cassa.
All’inizio è stato più semplice, perché Soho era lo stereotipo del capitalista o dell’industriale. Solo dopo parecchi anni ho compreso che questo personaggio era più simile a me di quanto inizialmente pensassi: mi sono reso conto che, in parte, senza volerlo, avevo tratto il suo aspetto fisico da alcune fotografie di mio nonno. Non era dunque tanto diverso da me, e così sono divenuto più indulgente nei suoi riguardi. È diventato più difficile separare Soho da Felix. Ciò dipende, comunque, da chi voglio disegnare.
Nel rappresentare Soho mentre viene esaminato dai dottori sarebbe stato più naturale mostrarlo nudo, come generalmente appare Felix, ma risulta molto più forte rappresentarlo con il suo abito. Anche in queste condizioni estreme egli non può sbarazzarsi della sua identità. In tal modo il disegno precede il significato e gli aspetti inconsci del lavoro prevalgono su quelli consci. In altre parole, disegno i soggetti senza un significato prestabilito, nella speranza che, nonostante tutto, risultino coerenti a lavoro concluso. Soho, che pensavo di utilizzare in una sola opera, ha cominciato a ripresentarsi, un po’ come se si trattasse di uno dei caratteri della Commedia dell’Arte dotati di rigide personalità in grado di inscenare storie differenti ogni sera.
Talvolta, nella sequenza narrativa dei tuoi film appare l’acqua, disegnata con un pastello blu intenso. L’acqua accompagna, ad esempio, le scene d’amore tra Felix e Mrs Eckstein, la moglie di Soho e, in genere, tutti i momenti in cui un personaggio pare abbandonarsi ai propri sentimenti. Sembra essere un’entità purificatrice al cui contatto ciascuno riesce a liberarsi da ogni costrizione e a far emergere la propria interiorità…
Johannesburg è una città molto arida; non ci sono laghi, ma ci sono piscine. Così, da un certo punto di vista, si può disegnare un paesaggio e, semplicemente aggiungendo del blu, donargli acqua, cambiarlo, renderlo utopico. Non appena mi sono avvicinato al fantastico pastello blu ho cercato una scusa per impiegarlo. L’acqua è accompagnata da un senso di benedizione soprattutto in un clima secco. Aggiungere questo colore in un paesaggio in bianco e nero è come inserire in un testo commenti e note a piè pagina. È una sorta di illusoria imposizione sul contesto paesaggistico.
Hai dichiarato una volta che per te non esiste una responsabilità politica dell’artista, in quanto la sua unica responsabilità è quella di fare al meglio il proprio lavoro. Ciò nonostante, hai contestualmente dichiarato che ti interessa l’arte politica. In effetti il tuo lavoro riveste una forte valenza politica, anche se indiretta. Le storie che racconti nei tuoi film sono profondamente legate al contesto sociale del Sudafrica ma, nel contempo, riguardano una dimensione esistenziale più vasta, pertinente all’uomo nella sua complessità e universalità.
Quando ero studente, un fantastico fotografo sudafricano di nome David Goldblatt mi disse: “In fondo il lavoro che fai riguarda te stesso, le tue paure e i tuoi desideri”. Mi ha fatto comprendere che è necessario realizzare il lavoro che si percepisce autentico poiché, alla fine, solo questo rileva chi tu sia realmente. Se è estremamente reazionario o conservatore, se possiede energia o ne è privo, racconta inevitabilmente qualcosa di te stesso. Non puoi cominciare pensando: “Guarda che grande persona sono, come posso rivelarlo nell’opera?”. Ho realizzato molti progetti con gruppi e altre équipe che presupponevano una sorta di prospettiva leninista: “Quali disegni si devono fare? Facciamo una lista di ciò di cui abbiamo bisogno”. Dopo averci lavorato alcuni anni ho compreso che non potevo sostenere tale programma. L’unico tipo di lavoro in cui mi sento a mio agio è quello personale e meno programmatico, anche se nel realizzarlo spero non risulti semplicemente mio, ma si rivolga a tutti. Il mio recente progetto si basa su La coscienza di Zeno: pur essendo incentrato sui comportamenti e sulle ansie banali della borghesia, mi interessava il modo in cui il romanzo avrebbe potuto allargare la prospettiva a un mondo più ampio.
La coscienza di Zeno è un’opera figlia della profonda crisi che ha colto l’Europa agli inizi del Novecento, dopo la guerra mondiale e il rapido sviluppo della società industriale. Zeno è un individuo in bilico, incapace di attuare le sue decisioni. È l’individuo perennemente frustato nelle sue aspirazioni, che subisce la vita invece di esserne artefice, forte nelle passioni ma troppo debole per difenderle fino in fondo. Mi chiedevo il motivo del tuo particolare interesse per questo romanzo: potrebbe esserci un parallelismo tra la crisi esistenziale di Zeno, tra il suo senso di disorientamento e d’inadeguatezza, e la crisi di identità che sta attraversando il Sudafrica attualmente, dopo il periodo dell’apartheid?
Credo sia vantaggioso vivere nel Sudafrica, lontano dalla cultura europea. Per esempio, ho realizzato una produzione di Woyzeck di Georg Büchner, un testo che tutti in Germania hanno studiato e che è appesantito dalle diverse interpretazioni. Da noi invece non si conosceva. Ciò ha favorito una certa libertà di intervento, come è avvenuto anche nel caso di Zeno. So bene che esistono diverse pièce teatrali basate su questo romanzo, ma non ne ho mai letta, o vista alcuna, così mi sembra – in modo falsato ovviamente – un libro appena pubblicato. Nella storia stessa si riscontra una forma di virtù del dubbio. L’eroe è un uomo la cui principale caratteristica è quella di essere completamente insicuro: dichiara di voler smettere di fumare, ma non riesce; di voler lasciare la sua amante ma non può farlo; volteggia avanti e indietro, la qual cosa diviene un’altra metafora della costruzione di una vita senza, o in cerca di uno scopo. In tal senso, Zeno mi è sembrato vicino a Johannesburg e al mio modo di pensare. Tale personaggio è decisamente ai margini della comunità e credo che il Sudafrica indubbiamente avverta rispetto all’Europa, all’America e alla comunità globale una posizione di emarginazione. Queste sono alcune delle ragioni che mi hanno fatto percepire il libro familiare, quando da ragazzo l’ho letto per la prima volta. Eppure non ci avevo pensato nei termini di una crisi, come tu suggerisci. A questo punto, è difficile dire esattamente in che modo la nostra pièce sia collegata al romanzo, dal momento che quest’ultimo non ha molto a che fare con le silhouettes e le ombre di carta. Vi sono essenzialmente due aspetti che entrano in gioco nel mio lavoro: in prima istanza, il procedimento formale di lavorazione – in questo caso l’uso delle ombre dei personaggi e la ripresa cinematografica in diretta, che porta ad osservare sullo schermo eventi che avvengono ai suoi margini: un po’ come sognare e vedere il meccanismo del sogno. In secondo luogo vi è il romanzo, che offre in parte il canovaccio delle vicende dei protagonisti e alcune interazioni. In realtà, tuttavia, non avevamo inizialmente pensato di realizzare un film che riproducesse fedelmente il romanzo.
La coscienza di Zeno è un romanzo molto complesso, con differenti livelli di lettura. È vero che il personaggio è “malato”, ma alla fine del romanzo esce dalla sua “malattia”. E diviene parte della società, ne condivide i comportamenti, impara a far affari, ad agire. L’autore ci sta dicendo, in un certo senso, che nel tipo di società in cui viviamo due sono le possibilità: o siamo schiavi delle circostanze, o diventiamo lupi più forti di altri lupi intorno a noi. Ritorniamo alla storia di Soho, non credi?
Non vi ho mai pensato in questi termini. Tutto inizia con la prima guerra mondiale, che crea un tale scompiglio – Zeno viene separato dalla sua famiglia. È stata una strana scoperta per me, poiché in Sudafrica si cresce con la versione inglese della storia bellica.
Sapevo che l’Italia era coinvolta, ma non avevo idea di quanto fossero state violente le campagne militari intorno a Trieste. Le preoccupazioni, le ansie, le azioni e le inattività di Zeno vengono improvvisamente calate in un contesto diverso, a causa delle dimensioni della guerra che lo inghiotte. Il nostro lavoro prenderà tale direzione. Un tema che sembra particolarmente appropriato oggi, quando una realtà borghese sicura come quella newyorkese si mostra così vulnerabile da poter essere facilmente distrutta con tanta rapidità. A livello tematico, dunque, la struttura del romanzo si trova nel punto in cui le preoccupazioni di quel piccolo mondo vengono proiettate in una dimensione più ampia.
Riguardo alla trama dei tuoi film, hai più volte affermato che non esiste uno story-board preliminare, ma che procedi semplicemente disegnando. La storia prende corpo da sola, quasi per una forza interna a se stessa. L’urgenza con cui i tuoi disegni sembrano imporsi alla tua poetica mi fa tornare in mente Pirandello e i suoi Sei personaggi in cerca d’autore.
Penso che anche i protagonisti di Pirandello provengano dalla Commedia dell’Arte; come i saltimbanchi di cui si serve Picasso, sono personaggi pronti ad esibirsi in qualsiasi momento, senza aver mai la certezza di quello che faranno e restando in attesa della direzione che assumerà la storia. Zeno at 4 a.m inizia con le ombre che vengono create prima di realizzare la ripresa. Pur essendoci un copione, continui a domandarti: “Che cosa faranno?”. Non avevo pensato alle similitudini con Pirandello, ma forse è così…
L’opera in definitiva necessita di un fruitore generoso che riempia gli spazi bianchi, che stabilisca le connessioni. Talvolta acquistano senso collegamenti a cui non avevo pensato. Il tuo riferimento a Pirandello mi sembra perfetto. Altre volte vi sono troppe forzature e appare chiaro che l’interpretazione riguarda più l’osservatore che l’opera stessa. Metto nel mio lavoro ciò che penso, e spero che questo costituisca un terreno di incontro.
(in “Tema Celeste – Arte contemporanea 90”, marzo/aprile 2002)
Rassegna stampa
“Nulla è gridato, tutto ha il carattere della discrezione, della finezza: i monologhi di Zeno (Dawid Minnaar) – in genere in piedi sul letto o sul divano – i suoi dialoghi col padre, la moglie, l’amante, hanno una vena ironica sottile e sorridente, all’inglese, che ci sottrae all’angoscia esistenziale. Le voci potenti e magnifiche dei soprano Lwazi Ncube e Phumeza Matshikiza (moglie e amante di Zeno) e del basso Otto Maidi (il padre), si stagliano invece per la loro aulicità, insieme con la musica, su altri strumenti linguistici della pièce, più correnti ed effimeri: eppure il contrasto è anch’esso necessario all’espressione delle inconcludenze, delle incertezze, delle difficoltà di vivere di Zeno. Lo spettacolo, di molto alta qualità, è stato recepito da un pubblico sorpreso, compreso, generoso di riconoscimenti”.
(Paola Pariset, Svevo rinasce con le marionette, Il Tempo, 26 ottobre 2002)
“Tutto funziona a meraviglia, nel senso che le parole si accordano con il canto, il canto si accorda con la musica, e la musica sembra calibratissima (ancorché poco simpatica) rispetto alle immagini di Kentridge L’unica cosa che lascia perplessi è Svevo. Perché Svevo? Che cosa aggiunge questo spettacolo alla nostra conoscenza della sua opera? E anzi: è proprio quello evocato dai suoni e dalle immagini di Volans e Kentridge un mondo che possa in qualche modo somigliargli o interpretarlo?”.
(Franco Cordelli, Le “confessioni” sudafricane di Zeno, Corriere della Sera, 30 ottobre 2002)
“Quello che manca è proprio lo spessore vissuto del Sudafrica, anche perché queste Confessions sono nate in una serie di studi compiuti negli ultimi anni nei principali festival europei. Forse, conoscendo la storia di Kentridge e la sua sensibilità artistica, proprio nel personaggio di Zeno Cosini, nella sua indeterminatezza e nel suo lasciarsi vivere, si può sentire l’eco australe del dopo-Mandela. Ma è solo una suggestione, che potrebbe anche essere arbitraria. E allora non resta che affidarsi al fascino avvolgente delle ombre, delle musiche e dei personaggi, aspettando ancora che l’artista ci porti altre voci di storia dal sud”.
(Gianfranco Capitta, Italo Svevo in forma d’ombra, il manifesto, 26 ottobre 2002)
“Questo Zeno si muove davanti e sopra un letto mobile poi sostituito da un divano scomponibile, mentre dietro di lui passano in modo assai affascinante sagome mezzo umane mezzo meccaniche in silhouette contro un paesaggio di desolazione lunare: sono gli incubi del suo inconscio, alludenti al rapporto con lo psicanalista che nel romanzo è all’origine della narrazione. Queste proiezioni sono tanto più notevoli in quanto vediamo come vengono prodotte da inservienti che manovrano strane marionette fatte in casa. Però sono sempre più o meno le stesse, e questo alla lunga causa un senso di monotonia che purtroppo le disarmonie insistenti e sgradevoli, non per nulla composte da Kevin Volans, discepolo di Stockhausen, accentuano senza pietà, fino a soffocare i barlumi di umorismo che affiorano nel racconto spezzato del protagonista”.
(Masolino d’Amico, L’inconscio di Zeno, La Stampa, 27 ottobre 2002)
“La coscienza di Zeno di Svevo vista da Johannesburg presenta anche aspetti per noi italiani piuttosto curiosi: delle “mule” triestine di pelle nera e il coro degli alpini (Tapùn, tapùn) che nel finale si sovrappone alla musica, fastidiosa e distraente, di un poco fantasioso epigono di Stockhausen. L’idea di Kentridge era di far dialogare Zeno con il proprio inconscio che prende la forma di ombre cinesi e disegni animati proiettati su uno schermo. Ma l’espediente non ha funzionato e l’inconscio animato di Zeno resta solo un fondale scenografico davanti al quale imperversano dall’inizio alla fine e cantano due signore, moglie e amante di Zeno, affidato al bravo Dawid Minnaar, l’unico dotato di gestualità appropriata e in grado di riconsegnare l’ironia di Svevo”.
(Rita Cirio, Zeno l’africano, l’Espresso, 14 novembre 2002)
Crediti
Regia, ideazione, animazione William Kentridge
Musica Kevin Volans
Design marionette William Kentridge
Realizzazione marionette Adrian Kohler
Scenografia Adrian Kohler
Costumi Mathilda Engelbrecht
Suono Simon Mahoney
Interprete Dawid Minnaar (Zeno)
Interpreti (musicisti e cantanti) The Sontonga Quartet (Waldo Alexander, Brian Choveaux, Xandi Van Dijk, Marc Uys), Otto Maidi (basso), Lwazi Ncube (soprano), Phumeza Matshikiza (soprano)
Interpreti (marionettisti) Handspring Puppet Company (Busi Zokufa, Tau Qwelane, Fourie Nyamande, Adrian Kohler, Basil Jones)
Produzione Handspring Puppet Company (Sudafrica), Schauspiel Frankfurt, Art Bureau München. In collaborazione con Berliner Festspiele, Documenta 11 (Kassel), Festival d’Automne à Paris, Théâtre d’Angoulême, Kampnagel Hamburg, Ministero per i Beni e le Attività Culturali/Direzione generale per l’architettura e le arti contemporanee/Centro nazionale per le arti contemporanee di Roma, Romaeuropa Festival, Salamanca 2002- Ciudad Europea de la Cultura, KunstenFESTIVALdesArts