Eco

Light

Eco

Light

Torna su
Cerca ovunque |
Escludi l'Archivio |
Cerca in Archivio

Teatro Argentina
31 ottobre, 1 novembre 2001
25romaeuropa.net

Frank Castorf

Endstation Amerika


Photo © Piero Tauro
Endstation Amerika

Alla guida della celebre Volksbühne di Rosa-Luxemburg-Platz a partire dal 1992, Frank Castorf porta a Roma in prima italiana Endstation Amerika, rilettura (ma senza titolo originale, per una questione di diritti negati) di Un tram che si chiama desiderio. Nato a Berlino Est e da sempre propugnatore di un teatro dalle forti connotazioni ideologiche, Castorf trasforma il capolavoro di Tennessee Williams in una dolente requisitoria dell’american way of life, e, in una più ampia prospettiva, del moderno capitalismo occidentale: anche i due protagonisti, Stanley Kowalski e Blanche Dubois, si trasformano in una prefigurazione di Lech Walesa il primo (polacco finito negli ingranaggi spietati della società americana) e dello stesso Williams la seconda, grazie alla sua natura di personaggio solitario e fuori dagli schemi, che paga sulla propria pelle quella diversità che il commediografo sperimentò nella vita perché omosessuale e tossicodipendente.

Lo spettacolo, che si colloca nel ciclo di iniziative “La nuova Berlino a Roma”, coordinato dal Goethe Institut, è affiancato inoltre da due proiezioni all’Università di Roma Tre, introdotte da Lino Miccichè e Franco Ruffini: Un tram che si chiama desiderio di Elia Kazan (che consegnò Kowalski e Blanche al mito grazie alle interpretazioni di Brando e Vivien Leigh) e Tutto su mia madre di Pedro Almodóvar.

DERIDERE E DIVIDERE
di Jens Roselt

Un regista che rende il palcoscenico una specie di santuario delle contraddizioni sociali, è Frank Castorf. Nel 1992 Castorf è stato nominato sovrintendente della Volksbühne, dove, da allora, insieme a drammaturghi, scenografi e attori, coltiva uno “stile Volksbühne”.
Il suo motto estetico potrebbe essere “Deridere e dividere”. Ma cosa dividere? Tutto quello che si comporta come unità, quello che poggia su se stesso e si ritiene concluso. Dunque tutto quello che i politici vorrebbero dimostrare quando si mettono in posa davanti ad una telecamera, ossia le tre unità che compongono il tedesco perbene: l’unità individuale, quella estetica e quella tedesca.

L’aspetto individuale
Punto fisso del teatro borghese è la figura, come portatrice dell’azione e germe della motivazione. Le figure di Castorf vanno spesso fuori dal sé, cercando gli estremi dell’isteria e della letargia. L’interpretazione psicologica passa in secondo piano, quando il soggetto viene ripresentato attraverso mancanze linguistiche o fisiche: l’unità del carattere viene rivelata come chimera. Il personaggio e l’attore si distaccano l’uno dall’altro.
Il sovraccarico mentale è lo stato normale. Gli uomini di Castorf sono degli umiliati che, non in
pace con se stessi, vengono gettati sotto i riflettori dal regista: solo il lavoro degli attori può garantire che tutto ciò non degradi in una semplice procedura da facili effetti.
È questo il teatro incentrato sugli attori, ma, ovviamente, in altro senso: gli attori si mettono in gioco e si mettono alla prova, ma resta sempre spazio per l’ironia, per uno sguardo distratto sul proprio metodo e sulle aspettative del pubblico.

L’aspetto estetico
Le regie di Castorf evitano tutto quello che può dare un’impressione di “accuratamente pensato” o di equilibrato. Gli spettacoli si sfilacciano soprattutto all’inizio e alla fine: sono quasi sempre troppo lunghi, la fine spesso arbitraria. Gli spettacoli corrono sempre il rischio di non essere equilibrati. Sono esagerati, si dilatano e si prolungano. Con coraggio viene portato sul palcoscenico e messo in luce tutto quello che si vuole lacerare. L’avventura è il principio estetico di Castorf. Si potrebbe pensare che una “perfetta” riuscita lo metterebbe in imbarazzo.

L’aspetto tedesco
All’inizio degli anni Novanta l’obiettivo dell’unità tedesca era di diffondere il livello occidentale ovunque – nei salari, nelle automobili, nell’arredamento degli uffici e possibilmente anche nelle teste. In quegli anni apparve sul tetto del Volksbühne una scritta in neon: Est.
Prima che la successiva ondata nostalgica rendesse culturalmente apprezzabile lo stile di vita dei nuovi cittadini federali, Castorf definì la Volksbühne, in modo provocatorio, un articolo di “marca Germania Est”. Anziché cercare forzatamente il livello occidentale, il teatro volle assolutamente sgonfiare l’arroganza pantedesca attraverso spettacoli che ne ripercorressero, ostinatamente, la storia. Il teatro ha acquistato un nuovo pubblico, nel quale si mescolano quelli dell’est e quelli dell’ovest, i giovani e i vecchi, come in nessun teatro della capitale. Nonostante ciò, l’enorme edificio sulla piazza Rosa-Luxemburg è un luogo della polarizzazione che attrae continuamente amici e nemici.

Il regista si mostra colpito, sorride fiducioso e prosegue nella sua strada. I suoi spettacoli sembrano, non di rado, ambivalenti: divertenti e faticosi, superficiali e profondi, comici e brutali. Chi vede “un Castorf” per la prima volta, potrà pure scuotere la testa rispetto all’attacco frontale, estetico, alle proprie aspettative sul teatro, come se avesse ingoiato una pillola amara. Ma questa potrebbe essere solo un’illusione: quel movimento della testa potrebbe, in realtà, essere il risultato del sentirsi personalmente scosso.
Alla Volksbühne viene attaccata e derisa ogni forma di mitologizzazione, senza far troppe distinzioni tra quella delle azioni gloriose della sinistra – nella guerriglia di strada degli anni Settanta – o quella del perbenismo di destra. Il fatto che la Volksbuhne potrebbe diventare un nuovo mito è la contraddizione alla quale bisogna pensare per i prossimi anni (e anche oltre).

FRANK CASTORF: CAPITALISMO E DEPRESSIONE
di Cornelia Niedermeier e Claus Philipp

Lei normalmente si appropria di testi estremamente epici, creando un effetto di grande precarietà…
Sì. Il punto principale naturalmente sta nell’interiorizzare lo strato testuale, sincronizzandolo però con quanto i corpi scindono dal pensiero. Intorno a ciò possiamo poi creare le situazioni base,
ossia processi che nella loro struttura hanno qualcosa di chiaro: una traccia, elementi di accelerazione o di rallentamento. Questa è la mia costruzione. In un certo senso la mia
tecnica di lavoro è abbastanza tradizionale: c’è uno spazio, ci sono degli uomini, e quelli imparano un testo. E io provo, poi, a scomporlo in quegli elementi che ritengo assolutamente grandiosi.
Certo, questa procedura si può interpretare come fracasso, come frattura. Ma è solo una questione di punto di vista: alcuni vedono soltanto la distruzione, altri vedono come dalle macerie possa nascere qualcosa di nuovo. Ed è quello che mi interessa.
Mi interessa l’intensità. Io interpreto l’arte teatrale come un continuo sovraccarico dei propri mezzi. Da un lato l’uomo sta seduto lì, beve il suo caffè, e tutto ad un tratto è coinvolto in una situazione estrema, e l’accelerazione è tale che lo distacca dall’oggetto. L’uomo comincia a correre, diventa più veloce. Poi c’è una forma intermedia, ossia la danza. Ma la nostalgia dell’uomo di muoversi più velocemente, è ancora quella di Icaro, l’uomo che vola… Peccato che gli attori lo facciano troppo poco, ma è quello che veramente si dovrebbe fare.
Certo, tutto ciò potrebbe essere simulato: ma la cosa interessante – e anche la professionalità – non è nel rispecchiare la semplice realtà, ma nel continuo ricondurla allo stato di riproducibilità, dunque allo stato di arte.
Pensiamo ad un partita di calcio: non avrebbe senso interromperla dopo venti minuti e proseguire trasmettendo una partita simulata ideale. In qualche modo ci si accorgerebbe che qualcosa non va. Che c’è un altro ritmo. Cose del genere si capiscono con l’intuito. Tutto deve essere dal vivo, senza pietà – anche la caduta, anche la ferita, anche il sangue, anche l’invecchiare: tutta la serietà di una professione che ha molto a che fare con la bellezza, con la poesia. Io preferisco tenermi anche i momenti mal riusciti che non tutte cose ben simulate.
Vediamo per esempio un attore, seduto, semplicemente: un uomo nel suo reale esaurimento. Io lo guardo in faccia e lui non è capace di fingere. È come nella battaglia di Maratona: il primo, giunto dopo tutto il percorso, ha detto “abbiamo vinto una battaglia” – e poi è morto. Eccolo, l’esaurimento: non poteva mentire. Tutto era vero, fino alla morte.
Dopo questi momenti enormemente forzati attraverso la comicità, la violenza, la musica, subentra qualcosa come la quiete. E questa quiete ha in sé qualcosa di infinitamente bello, perché se il movimento fosse infinito, noi non riconosceremmo più nulla nel mondo. Dopo gli eccessi di movimento, dopo i momenti dell’amore per la rivoluzione, ho bisogno di momenti di quiete per poter riconoscere qualcosa. O per lasciar sviluppare l’amore, l’erotismo.
Tutto ciò non è solo un problema privato di attori che arrivano fino all’esaurimento, ma è anche qualcosa che sarebbe utile tradurre in un elemento politico. Abbiamo messo in scena I Demoni in un mondo fatto di containers, ben prima che nascesse il fenomeno televisivo del Big brother. È interessante il fatto che la gente si isoli, che qualcuno si sforzi per indovinare che cosa ci sia dietro quelle mura, dietro quell’isolamento nella sfera privata, nello pseudo-individualismo, che fa sì che ognuno affermi: “io in fondo sono il massimo di quel che posso immaginare”.
Questo ci fa parlare dell’aspetto morboso del successo, che molto spesso raggiungiamo pensando che sia facile come percorrere un’autostrada. Ma poi viene un’interruzione, una caduta, che non riusciamo a comprendere. Quando il successo viene a mancare noi non dubitiamo del sistema, ma dubitiamo di noi stessi. Diciamo: “Abbiamo fallito, ho fallito…”. E così si arriva alla depressione. La depressione non può avere possibilità di cura perché non esistono alternative sociali: ogni singolo vive come piccolo produttore di merci in un contesto desocializzato.

E lei affronta questa desocializzazione nel suo lavoro, ma con un collettivo di attori che si sottrae al tradizionale isolamento dei protagonisti…
Una simile comunità di attori crea automaticamente una forma diversa di contesto sociale. Per me è importante la produzione artistica con quelle persone che ho trovato nel mio percorso – che sono vecchi o giovani, a volte di sinistra o di destra – e che, attraverso un lavoro comune, possono enormemente umanizzarsi. La cosa più bella in fondo è quel che già praticavo nel più profondo Est, come impegno politico contro la politica culturale post-staliniana della RDT, cioè la costruzione di nessi sociali diversi e di un coraggio maggiormente politico. La cosa interessante è che tutto ciò non avviene in tunnel metropolitani accuratamente prescelti, o nell’underground, ma all’interno di una istituzione, in un normalissimo esercizio teatrale di una città tedesca. E su questa linea ho a lungo continuato a sperimentare: al Residenztheater di Monaco e in altri teatri, prima di arrivare, nove anni fa, alla Volksbühne di Berlino, dove ho tentato di creare un’istituzione seguendo queste stesse premesse. E qualche volta ci sono riuscito.
Forse, un tempo, mi sembrava più importante attaccare la società in modo genericamente più politico, esprimere quello che non mi piaceva, fornire una terapia. In quest’ottica, quando creo la mia personale comunità all’interno del nostro settore artistico, faccio un passo indietro: sostituendo il concetto del sociale con quello comunitario, che comunque mantiene un orientamento base individualistico, anarcoide.
lo non ho mai costretto nessuno. Quando un attore non vuole più lavorare con me, quando ha problemi con i miei modi di salire sul ring, allora non ci sta e basta. Altrimenti sarebbe un numero da circo. Chi vuole, faccia del teatro “preciso”. A me invece interessano sempre i punti di rottura, dove posso continuamente scoprire proprio quella particolare persona.

Ciò significa che lei chiede al pubblico un atteggiamento percettivo inusuale, lo confronta consapevolmente con i limiti del comprensibile?
Quanto più invecchia il pubblico di un teatro, tanto più si limita a voler riconoscere soltanto quello che sa. Non cerca l’avventura. Si tratta solo di una riflessione sul funzionamento del ceto medio che ha un certo successo nella vita. Per troppo tempo queste persone hanno costruito la loro carriera, le loro esperienze ed una stupida serata al teatro non può certo metterli in dubbio: “Io il mio Faust l’ho letto bene”. E alcuni in effetti lo hanno letto, quindi vogliono sentire precisamente quelle battute che forse ancora ricordano. Se poi sentono cose diverse, allora si offendono non solo come consumatori di arte e di teatro, ma anche come uomini di successo sociale nel mondo in cui viviamo. Proprio per questo il teatro tradizionale è, di solito, immensamente appiccicoso. Un modo di essere che disturbava già Brecht. A me invece sembra molto importante una certa complessità, una complessità espressa in un approccio percettivo stratificato ma che, dal punto di vista contenutistico, si trova già nei romanzi di Dostoevskij.
Anche per questo, solitamente lavoro sui romanzi: le rappresentazioni teatrali spesso non sono altro che un piano generale. La maggior parte degli spettacoli teatrali suggeriscono una certa riconoscibilità e dominabilità del mondo. Altro non è, poi, che il credo del neoliberalismo, il quale afferma che tutto è riconoscibile e dominabile. Prima si domina, poi si riconosce. Per questo sono un tipo d’anarcoide: non necessariamente tutto andrà a finire così come sembra che dovrebbe andare a finire.

 

Rassegna stampa

“Il sogno (o lo scacco) americano, da quel soggiorno neoborghese e razionale, si scopre tutto interno alle due Germanie e alle due Berlino che erano. Mescolandosi certo nel ricordo e nelle esperienze di ognuno, ma ben presente e inglobato nello spettacolo. Un tv color trasmette in primo piano quello che una telecamera riprende nel bagno del appartamento sulla scena; gli amici di famiglia, tra i quali l’amore impossibile di Blanche che cita Psyco di Hitchcock, vestono divise d’ordinanza della comunità gay berlinese. Ogni mito sembra rovesciarsi nel proprio fallimento sulla scena di Castorf, che per due ore e mezzo batte impietoso (ma anche con partecipe ironia) su quelle illusorie debolezze. Questo Capolinea America è per gli attori l’occasione per mostrare la propria tecnica eccellente, per il pubblico romano la scoperta di un artista che certo si può discutere quando rischia la maniera, ma possiede bene nel proprio teatro la complessa velocità del presente”.
(Gianfranco Capitta, Blanche e Kowalski, interno borghese, il Manifesto, 2 novembre 2001)

“Una tiepida accoglienza degli spettatori, messi a dura prova da un allestimento di due ore e quarantacinque minuti senza intervallo, ha contraddistinto l’atteso passaggio di questo famoso provocatore, ostile all’antico regime comunista quanto all’attuale influenza del liberismo economico americano. Il meraviglioso dramma di Tennessee Williams, Un tram che si chiama desiderio, si è trasformato nelle sue mani in un canovaccio pretestuoso costretto ad ospitare una feroce e tagliente critica del mondo contemporaneo. Il sottile smascheramento dell’ipocrisia borghese contenuto nel testo originario è diventato un motivo per proiettare nella sua messa inscena tutta la ripulsa per una decadenza sociale inarrestabile e sempre più alienante. […] I frequenti effetti stranianti e la tendenza ludica dell’interpretazione offrono una personale rilettura dell’esperienza brechtiana, superata attraverso Müller e la più recente teatrografia tedesca, ma l’indubbia qualità tecnica dell’impegno scenico rischia spesso di ridursi a una raggelante pulizia che non lascia trapelare emozioni. L’encomiabile professionalità dei sei attori, lineari e rigorosi nei dialoghi quanto nelle complesse improvvisazioni jazz suonate e intonate dal vivo con gradevole maestria e ironica disinvoltura, costituisce uno dei fondamentali punti di forza di una visione registica che si affida molto, e forse troppo, allo smontaggio creativo di un testo noto in partenza”.
(Tiberia De Matteis, Tennessee Williams nel sociale somiglia a una soap opera, Il Tempo, 2 novembre 2001)

“Castorf utilizza la materia del testo a sua modo, ne cambia il titolo in Endstation Amerika, e fa sì che il Kowalski di oggi ci racconti della marce e dei picchetti di Solidarnosc. Quello che gli appare chiaro è un mondo di differenti umanità, di sogni, di desideri erotici o minute aspirazioni, e quindi di adattamenti e forzature, di stridenti convivenze tra individui, sentimenti, visioni della vita. Non è un caso che Castorf sostenga che Berlino sia ancora divisa in due zone psicologicamente molto diverse, e che il suo resti un teatro dell’Est. Rimangono nello spettacolo quel sordido e anonimo interno con una radio sempre accesa su una pesante musica rock, e quel bagno-rifugio dell’insicura Blanche, ripreso però in diretta da una camera che ce lo mostra attraverso il televisore della stanza. Al gruppo di energici interpreti il regista chiede toni aspri e legnosi, visi attoniti e irrigiditi, insomma riesce nel difficile esperimento di tirar fuori tutto il dolore e l’amarezza di quell’opera, mettendo poi da parte certe sfumature mélo che qui si trasferiscono semmai in coloriture grottesche. […] Qualcosa, invece, nel lavoro di Castorf rimane sospeso, e quei temi autobiografici di Williams, l’alcolismo, l’omosessualità, la follia, seppur ripresi con una calligrafia verbale e scenica fortemente attualizzata, non arrivano dentro di noi con quella forza dissonante che avevano all’epoca della scrittura della commedia e che vorrebbero aver in questa, sia pur energica, trascrizione registica”.
(Antonio Audino, Un tram a Berlino Est, Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2001)

UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO: NON C’È VIA DI SCAMPO…
di Carl Hegemann

Ognuno è responsabile delle proprie verità. Verità superiori, convinzioni fideistiche erodono velocemente la nostra società: solo la moneta riesce ancora a richiamare la dignità della vecchia metafisica. Questa incalzante trascuratezza si confronta con la vita. Le verità spariscono, ma la vita rimane. La vita di ognuno di noi, fragile, aperta a tutte le destinazioni: la vita è il seme attorno al quale tutto ruota. La conseguenza immediata della trascuratezza è la brama di vivere: c’è chi si butta
nella vita alla ricerca della propria fettina di dolce. Ma non la ottiene. O ne ottiene una fetta troppo piccola.
Cosa c’è dietro? Il desiderio non esaudito per una vita esaudita provoca paranoia. Trame sinistre, bugie e manipolazioni impediscono una vita vera. Qualcuno, una persona, una organizzazione, mi vuole colpire e attenta alla mia vita. Siamo tutti colpevoli di trascuratezza e di questa miseria. Nella “Nuova economia” ognuno è responsabile della propria verità, ognuno è imprenditore di se stesso, libero e autodeterminato, non limitato da alcuna verità superiore. Ma siamo noi i primi a fallire, noi incapaci di usare appieno questa libertà. Pochi altri, invece, riescono.
Questa consapevolezza porta alla depressione, alla crisi privata ed economica. Nulla va bene.

Il classico teatrale di Tennessee Williams, Un tram che si chiama desiderio, rappresentato per la prima volta nel 1947, è anche la prima prova “protoamericana” di questo fenomeno. La condizione generale è quella della trascuratezza, della brama di vivere, della depressione. Non trovano spazio né la sicurezza né la soddisfazione: rimane solo il desiderio, da alimentare continuamente, e l’amore, infelice. Non c’è via di scampo. Questo vale per Blanche Dubois, che fugge in un mondo di sogno, perché non può sopportare la realtà, e vale per l’animale Stanley Kowalski, che sopravvive credendo che “La felicità è credere che si ha fortuna”. Vale anche per Stella, ormai dipendente da Stanley, e per Mitch, l’alter ego timido e impacciato di Stanley. Donne sull’orlo di una crisi di nervi, uomini prima del delirio. La crisi della piccola borghesia sullo sfondo, il poker e le bande…

Le figure di Williams si muovono tra terrore dell’espropriazione e megalomania. Oltre cinquant’anni dopo, lo spettacolo non ha perso forza e capacità di diagnosticare il male della società. Il regista Pedro Almodóvar, nel suo film Tutto su mia madre ha usato il testo di Williams come paradigma: tutti i protagonisti del film conoscono l’opera teatrale e vi si riconoscono. I personaggi del film vedono lo spettacolo a teatro e i Kowalski di oggi possono vedere il film di Almodóvar nel proprio soggiorno. Un tram che si chiama desiderio è una manifestazione di malati per malati, per cui malattia significa anche non riuscire più a distinguere tra sano e malato. Non c’è speranza di miglioramento.

 

Crediti

Regia Frank Castorf
Ensemble Volksbühne am Rosa-Luxemburg-Platz
Testo Tennessee Williams (da Un tram che si chiama desiderio)
Drammaturgia Carl Hegemann
Scene e costumi Bert Neumann
Luci Lothar Baumgarte
Produzione Volksbühne am Rosa-Luxemburg-Platz (Berlino), Salzburg Festival (Salisburgo) – Progetto realizzato a Roma in collaborazione con il Goethe Institut Inter Nationes Rom e il Senato della Città di Berlino