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Teatro dell'Angelo
11 Ottobre 1997
25romaeuropa.net

Concerto su musica di Heiner Goebbels


Intervista a Goebbels
Montecchi su Goebbels
Musica Heiner Goebbels (In the Country of Last Things, Suite for Orchestra and Sampler, La Jalousie, Industry & Idleness, Black on White, Surrogate Cities)
Testi Paul Aster (In the Country of Last Things), David Hamilton (Surrogate Cities)
Ensemble ORT – Orchestra della Toscana
Direzione orchestra Peter Rundel
Suono Willi Bopp
Interpreti (solisti) David Moss (batteria, voce), Ali N. Askin (tastiere, campionatori)

Tra i più audaci e originali sperimentatori della musica contemporanea, Heiner Goebbels è stato invitato dall’ORT, l’Orchestra Regionale della Toscana, per due concerti in Italia, uno da tenersi a Romaeuropa e l’altro nel corso del festival Fabbrica Europa di Firenze.
Il compositore tedesco ha seguito personalmente le prove, vista la complessità delle sue partiture, che non solo mescolano classica e jazz, pop ed elettronica, ma giocano spesso con un grande bagaglio di suoni/rumori, improvvisazioni e campionamenti: proprio per questo, l’Orchestra, guidata da uno dei direttori del prestigioso Ensemble Modern di Francoforte, Peter Rundel, si avvale anche del contributo di Ali N. Askin, tastiere e di David Moss (storico collaboratore di Goebbels), batteria e voce nei due pezzi cantati.
In scaletta compaiono i brani più conosciuti del musicista, da In the Country of Last Things, su testo di Paul Aster, a Surrogate Cities, passando per Suite for Orchestra and Sampler, La Jalousie, Industry & Idleness, Black on White, secondo un percorso musicale che mantiene un forte impianto visivo e teatrale: non a caso, fu proprio Goebbels con il trio Cassiber negli anni Ottanta, ad essere tra i protagonisti del cosiddetto “art rock”, declinazione scenica del rock, esperienza in parte complementare all’altra grande collaborazione del compositore, quella con il drammaturgo Heiner Müller.

IL SEGNO DI GOEBBELS: “IMPROVVISO, DUNQUE SONO”
a cura di Ottavio Matteini

Soltanto da una decina di anni guardo all’orchestra tradizionale, accademica, come a uno strumento possibile per le mie opere. Sino alla fine degli anni Ottanta suonavo prevalentemente il pianoforte o il sintetizzatore con gruppi di art-rock (come i Cassiber) o con ensemble di ottoni. La musica che scrivevo, per film, o per balletti, era destinata prevalentemente a un solo strumento o a gruppi jazz. Via via mi sono reso conto che è necessario prendere le distanze dalla propria musica, evitando di suonarla, per averne una visione più globale ed obiettiva. Mi furono anche commissionate musiche per orchestra da camera – dall’Ensemble Modern, per esempio, dall’Ensemble Intercontemporain, dalla Junge Deutsche Philharmonie – e così attualmente faccio quasi esclusivamente il compositore.

Quale tipo di musica la interessa?
È importante chiedersi perché fare musica. Bisogna considerare la situazione della società in generale e reagire in base ai suoi stimoli. La musica del futuro sarà quella che avrà stretta relazione con la società. Non è fondamentale inventare suoni particolari, ma semmai collezionarli e metterli insieme e poi fare in modo che la musica sia come una memoria della società. La cosa che mi interessa di più è il fatto di voler essere il testimone di un’esperienza sociale. Naturalmente compongo ogni volta che mi immagino o vivo un’emozione, ma cerco subito di condividerla con altri. Non sento dentro la musica che sto per comporre, né mi sento legato alla musica contemporanea accademica, semmai più a certa musica di improvvisazione, persino a certi rumori. Prendo vari suoni, li mixo, li elaboro. Il mio tipo di musica non esclude nulla, non ha un appoggio pedagogico, non vuole insegnare niente né tanto meno lasciare messaggi.

E la cosa funziona?
Penso di sì, se a Vienna come in Canada è stato possibile richiamare pubblici assai numerosi, e più diversi, aperti sia al pop che al jazz, al rock o al classico.

Qual è l’organico strumentale sul quale preferibilmente lavora?
Uso gli strumenti convenzionali, però con l’amplificazione del suono, in maniera da rendere udibili persino i più riposti rumori. E poi uso il sampling, cioè il campionatore, che mi permette di inserire suoni provenienti da fonti totalmente diverse da quella orchestrale.
La relazione tra orchestra e campionatore è simile alla relazione tra il dentro e il fuori: il dentro rappresentato dall’orchestra, il fuori dal campionatore. Il campionatore è una sorta di biblioteca sonora sempre a disposizione, e i suoi interventi non sono improvvisati ma scrupolosamente indicati in partitura.

Che rimane, in tutto ciò, del jazz o del rock?
La mia esperienza di rock è stata importante e non voglio perderla. Per cui, essendo pretenzioso chiedere all’orchestra tradizionale le sonorità del rock, cerco di recuperare il rock integrandolo con le esigenze ed il gusto di un’orchestra. Non voglio comporre come un Boulez o in una qualsiasi maniera che possa farmi etichettare in un cliché: tento questa fusione, questo incontro, questa ricerca nuova.

Quale autore classico preferisce?
Per capirci, mi piace Bach piuttosto che Chopin. Cioè gli autori che riempiono una struttura. Se suono Bach costruisco oggettivamente tutta l’architettura di un mondo sonoro, se suono Chopin devo correr dietro alla sua soggettività melodica. E questo vale anche per la musica del XX secolo. Nel jazz amo Miles Davis, ma non quel jazz fatto di virtuosismo. E considero più importante il lavoro di Prince o dei Beatles che non quello dei compositori di musica colta dello stesso periodo, e questo però non significa che non mi piacciono certi loro pezzi.

Lei ha scritto molte pagine per il teatro e per la radio, su testi di Heiner Müller. Quali affinità ha trovato in questo scrittore?
Anche lui non inventa storie, non esprime soggettività nella scrittura, ma spesso lavora su testi esistenti, per esempio quelli di Shakespeare. È come se avesse anche lui un campionatore. Così la sua scrittura drammaturgica diventa sintassi di un possibile discorso musicale.

HEINER GOEBBELS
di Giordano Montecchi

Quando negli anni Ottanta cominciò a circolare il termine “art rock”, Heiner Goebbels e il suo trio Cassiber furono tra i principali responsabili dell’affermarsi di questa locuzione che suonava come un ossimoro, un abbinamento di opposti. Da allora il percorso verso la piena legittimazione estetica di generi e linguaggi estranei all’alveo – o meglio ai molteplici alvei della musica dotta – ha coperto un tragitto molto lungo. Insieme ad altri musicisti la cui lista non cessa d’aggiornarsi, Goebbels, nutrito degli infiniti apporti delle sottoculture metropolitane, educato al magistero drammaturgico di Heiner Müller, ci mostra fino a che livello di rielaborazione linguistica e di compenetrazione possano spingersi i linguaggi musicali eterodossi, gli idiomi dalla cultura popular fra le mani di un artista geneticamente orientato ad una concezione della ricerca musicale liberata da gerarchie, da delimitazioni di campo e sostanzialmente aliena da ogni fisionomia di matrice neo-accademica.

Lo scarto differenziale che distanzia la ricerca musicale di Goebbels dalle derive delle neo-avanguardie di estrazione dotta si misura non tanto nella diversità dell’esito linguistico, bensì, soprattutto, nell’approccio, nel modo cioè con cui gli idiomi, i materiali, gli stimoli e le reazioni vengono assunti preliminarmente, componendosi in un quadro di riferimento di eccezionale apertura visuale. A differire sono la pulsione iniziale, il background intriso di elementi propri delle sottoculture metropolitane da cui discendono una prassi compositiva e una prospettiva estetica congenitamente altra. La ricchezza del pensiero e la complessità della sintassi di Goebbels appartengono indiscutibilmente alla musica d’arte, e ciononostante la differente genealogia culturale ne marcano in modo prepotente la forza e la novità, in termini persino provocatori rispetto alla nozione corrente di musica di tradizione dotta.

I brani e gli artisti riuniti in occasione di questo concerto formano un piccolo ma agguerritissimo campione di una nuova generazione di artisti per i quali misurarsi nei più diversi contesti stilistici e di linguaggio rappresenta non l’esito di una ricerca – magari etichettabile sotto la consunta rubrica della contaminazione -, bensì una condizione naturale, un dato originario. Heiner Goebbels, David Moss, Peter Rundel, Ali N. Askin formano un coacervo straripante di stimoli e ormai ricco di storia; chiamano in gioco il percorso emblematico di una comunità artistica coraggiosa e innovatrice come l’Ensemble Modern Ensemble Modern, rimandano alle ultime vicende europee di Frank Zappa, alle straordinarie frequentazioni con la multimedialità e la drammaturgia di Heiner Müller. I brani proposti in concerto sono un’esemplificazione di una fucina trasversale, il sampling di una poetica nella quale l’originalità non sta tanto nel fatto che vi si combinino sostanze musicali pure e materiali spuri o quotidiani, bensì nella valenza e nella forza di suggestione con cui questi accostamenti, sfuggendo magnificamente alla ricerca intellettualistica sui materiali, si dedicano a restituirci una lettura del mondo presente assolutamente pertinente e soggiogante nei suoi connotati uditivi.

(in Catalogo Romaeuropa Festival 1997)

Rassegna stampa

“Sabato c’era Italia e Inghilterra. Ebbene, ciò non ha impedito a un folto pubblico soprattutto di giovani di andare alle 17.30 al concerto inaugurale della Stagione dell’Istituzione Universitaria dei Concerti: certo restava dunque tutto il tempo per andare all’Olimpico. Ma tra bis e saluti si può fare più tardi e poi magari il traffico blocca le vie per lo stadio. Invece i giovani c’erano lo stesso, gremivano l’Aula Magna. […] E più bravi ancora quelli che la sera hanno riempito il Teatro dell’Angelo per il concerto di Heiner Goebbel , con l’ORT, Orchestra della Toscana diretta da Peter Rundel, alla batteria uno strepitoso David Moss, alle tastiere Ali N. Askin, ingegnere del suono Willi Bopp.
Il concerto – organizzato da Romaeuropa Festival 97 – proponeva musica “art rock”, una delle vie d’uscita dallo stagno dell’accademismo delle avanguardie epigonali, vale a dire dei figli orfani e impotenti della grande avanguardia musicale del dopoguerra. È una musica d’impatto immediato: e qui sta il suo rischio. Ma, viva la faccia, lo corre.
Ebbene, a sentire questa via d’uscita la gente al Teatro dell’Angelo stava gremita, occupava tutti i posti disponibili. Allora viene da fare una riflessione: ma non sarà che le istituzioni ufficiali hanno perduto proprio il contatto con il vero pubblico? Non sarà che il pubblico romano è stanco di ascoltare per la decima volta la Quinta di Beethoven e vuole musica nuova, ancora non affermata, forse discutibile, ma che, meno male, fa discutere invece di addormentare come un sonnifero?”.
(Dino Villatico, Basta ultrà, W i giovani dei concerti, la Repubblica, 14 ottobre 1997)