In linea con lo spirito della sezione Colonne sonore, Fulvio Maras esegue dal vivo, in prima assoluta, alcune delle musiche composte per il palcoscenico, tra cui dei brani tratti da Bagni acerbi e Barmoon, di Fabrizio Monteverde, e dalle coreografie di Bob Curtis e Tiziana Starita. Il concerto non prevede un ensemble fisso, ma un vero e proprio alternarsi sul palco di diversi musicisti che al fianco delle percussioni di Maras, formava di volta in volta un settetto, un trio ed infine, dopo un assolo, una vera e propria Big Band.
Maras, come molti dei suoi colleghi presenti a questa edizione del festival, sperimenta volentieri le sonorità sintetiche dei sequencer, delle tastiere e della batteria elettronica, ma sempre con l’obiettivo di ottenere un sound caldo e coinvolgente, capace di restituire tutto il valore primigenio e tribale delle percussioni. “La banda porta con sé l’attualità dell’uomo evoluto e il ricordo della tribù che ha mosso le prime note”, scrive Gabriele Rifilato nella sua presentazione, “La musica di Maras ha questi fuochi. E lui stesso ama visualizzarli, e non crearsene solo un concetto”.
L’ESPLOSIONE DEL RITMO
di Gabriele Rifilato
Maras è un percussionista. Ha cominciato portando il tempo sulla musica d’altri. Poi ha deciso di far vivere di luce propria le sue percussioni. Le musiche del suo concerto rappresentano un lungo viaggio attraverso quindici anni di sperimentazione. Non vuole essere ingannevole il massiccio uso di elettronica: lo sbocco verso tastiere, sequencer, batteria elettronica è nell’evoluzione naturale del fare musica oggi: quest’imponente tecnologia è soprattutto un trionfo del ritmo, e dell’armonia necessaria a sostenerlo.
Nel concerto assistiamo infatti all’esaltazione del gruppo di percussioni, con quella ritualità che ci ricollega all’Africa.
L’inizio è per soli strumenti a percussione: anche vibrafono, marimba ed effetti elettronici. È come raccontare l’alba della musica, fatta di suoni arcani, semplici, in un’atmosfera sonora ancora molto rarefatta.
Le forme poi si diversificano. Armonia e melodia nascono d’una loro vita propria; potrebbe essere un settetto: i bassi, i fiati, la liquida melodia del piano.
Ma c’è ancora una nuova esplosione di suoni: tutto confluisce, alla fine, all’interno di una orgiastica banda. È un po’ come la dissacrazione del mito, del suono primordiale che diventa canzone. La banda porta con sé l’attualità dell’uomo evoluto e il ricordo della tribù che ha mosso le prime note.
La musica di Maras ha questi fuochi. E lui stesso ama visualizzarli, e non crearsene solo un concetto. La sua musica, infatti, questa percussività del movimento, nasce generalmente come contrappunto ad una coreografia: ai numerosi spettacoli di danza che ha ritmato, per esempio; o come commento ad un gesto teatrale o come colonna sonora di un film.
Dopo aver dato vita al tamburo, dopo aver dato un ritmo ai suoni e una musica alle percussioni, per Maras il progetto finale è quello di dare parola alle immagini.
“… STRANO DESTINO”
di Gino Castaldo
In Italia la ricerca musicale ha avuto uno strano destino. Sulla scia degli anni sessanta e per tutti gli anni settanta è uscita, per una volta, dalle accademie, diventando una mentalità diffusa, un atteggiamento capace di scuotere e vivacizzare non importa se il jazz, il rock, la musica popolare, e in alcuni casi perfino la canzone. Dappertutto si seguivano le tracce del “nuovo” con fervore irripetibile, in una sorta di rivoluzione permanente che correva parallelamente all’altro piano, più mercantile e consolatorio, che incanalava le energie giovanili. Il metodo era caotico, disordinato. Mancava, forse volutamente, il rigore teorico che aveva caratterizzato le avanguardie colte, ma di sicuro lo spirito della sperimentazione era per una volta sceso per le strade, aveva contagiato un’intera generazione di musicisti, penetrava dovunque, e dovunque metteva in discussione norme e convenzioni.
Poi più nulla. Come per incanto una coltre dal netto sapore di controriforma ha coperto e addormentato ansie e tensioni innovative. Tutto un movimento ha deposto le armi, ucciso da un’industria della musica che in Italia è particolarmente miope e conservatrice, in particolare quella discografica che non ha mai saputo e voluto investire sul nuovo. Ucciso poi dalla totale e scandalosa assenza dell’intervento pubblico, che ha lasciato tutto un mondo brulicante di nuove proposte in balìa degli avvilenti e restrittivi regimi di mercato.
Non che altrove, all’estero, non trionfi la più bieca commercializzazione, ma è indubbio che mercati più floridi e multiformi (e anche storicamente più coraggiosi) favoriscono la preservazione di margini dignitosi per lo sviluppo delle nuove tendenze. E non dimentichiamo che solo pochi anni fa proprio negli Stati Uniti (che è il mercato guida insieme a quello inglese) è accaduto che un brano di Laurie Anderson sia arrivato al primo posto delle classifiche discografiche. Una gloriosa eccezione, certo, ma che comunque è la punta di diamante di una situazione mai del tutto asservita alle leggi della domanda.
Se oggi in Italia non si sperimenta più, sempre in riferimento alla musica non accademica, è perché mancano centri di produzione adatti, perché manca una struttura organizzativa del lavoro musicale, e alla fine perché a questo punto è venuto a mancare anche un pubblico, o meglio un interlocutore (basti pensare che un personaggio come Giovanna Marini è costretta a sviluppare la sua ricerca sull’uso della voce quasi esclusivamente in Francia, dove è accolta con eccezionale interesse, da noi ormai impensabile). Se un tempo, parallelamente ai modelli anglosassoni, si era formata una coscienza dell’alternativa, ai giovanissimi che oggi si affacciano al godimento della musica viene offerta solo musica commerciale, che peraltro c’è sempre stata e non è il caso di scandalizzarsene. Grave casomai che non ci sia altro, o quasi, con cui confrontarsi.
E qui entra in ballo il teatro. C’è stata tutta una generazione di teatranti, cresciuta su una nuova concezione della musica che ha fatto parte indissociabilmente della nuova cultura degli anni ’60 e 70. La musica, non più intesa come accessorio voluttuario, è diventata un bisogno primario, uno strumento conoscitivo, forse il principale strumento di identificazione, e comunque un possente meccanismo di aggregazione collettiva. La musica è diventata in qualche modo necessaria, indispensabile.
Inevitabilmente questa nuova generazione teatrale ha stabilito con la musica un rapporto diverso da quello dei loro predecessori. La musica non era più intesa come sottofondo, come “colonna sonora” d’accompagnamento, se pur nobile, ma come un vero e proprio linguaggio, come un mondo di segni da inglobare nella pratica teatrale a pieno titolo, da vivere e padroneggiare fino in fondo.
Per molti di questi gruppi, citiamo soprattutto La Gaia Scienza, Falso Movimento e Magazzini Criminali, la musica è entrata nella rappresentazione come un elemento di forza, come un piano di linguaggio fondamentale e irrinunciabile, e per questo le musiche “di scena” dei loro spettacoli sono spesso lavori di grande interesse. Ancora di più questa tendenza è espressa dai gruppi che si muovono nell’area del Teatro-Danza, dove la fusione suono-gesto è ovviamente fondamentale.
Colpisce soprattutto la disinvoltura nel mescolare indifferentemente sonorità metropolitane, musiche tribali, minimalismo, ritmi rock, musica popolare e rumori in una moderna concezione sincretistica che in un certo senso, rovescia provocatoriamente quello che avviene nelle attuali strutture della comunicazione. Un sincretismo che, molto più della musica istituzionale, rispecchia davvero il “suolo” del nostro tempo.
Questi gruppi sono diventati dei veri e propri committenti per una ricerca svincolata da obblighi mercantili, che non deve più fare i conti con i patteggiamenti del mercato. Una musica spesso assai intensa, altamente significativa, perfino autonoma, nel senso che nei casi più riusciti può essere recepita indipendentemente dalla funzione a cui è assegnata.
Certo, in quanto musica commissionata, è stata costruita per “servire”, per essere funzionale ad uno spettacolo, ma riesce ugualmente ad affermare una sua libertà stilistica e originalità, perché non è mai pensata come subalterna, ma al contrario come uno scenario fondamentale, spesso così importante da guidare l’azione scenica, paritaria agli altri linguaggi in gioco; in una totalità priva di precisi confini.
Nella pratica di questi gruppi capita spesso che il gesto richieda una determinata musica, ma anche che sia una determinata musica a stimolare la costruzione del gesto. Qualche volta la metodologia di base parte proprio dalla musica.
Dunque la musica non è atmosferica, clima sonoro, illustrazione, ma diventa scansione ritmica, comunicazione parallela, talvolta definizione di uno spazio e di un tempo per l’azione teatrale.
E così, per un destino davvero strano, il teatro finisce per essere oggi una delle rare zone dove è ancora, non solo consentita, ma addirittura richiesta una ricerca del “nuovo” musicale. Ed è proprio nella creazione di una musica applicata che oggi i compositori possono sentirsi più liberi.
Ascoltare i lavori dei compositori che in questi anni si sono legati al teatro, significa non solo immaginare nuove possibilità di comunicazione provenienti dallo spazio scenico, ma anche andare a scrutare nel vivo di una ricerca musicale, in fondo mai morta, che mantiene vivo il gusto della sperimentazione come creazione di paesaggi sonori che sono “altre” possibilità del nostro pensiero.
Crediti
Musica Fulvio Maras
Coordinamento musicale Gianluca Ruggeri
Organizzazione Teorema Snc / M. Pasquini
Interpreti Fulvio Maras (timpani, vibrafoni, marimba, batteria, batteria elettronica, sequencer computerizzati, percussioni), Pietro Dall’Oglio (percussioni), Alfredo Minotti (percussioni), Francesco Puglisi (basso), Paolo Iuric (pianoforte), Checco Marini (sassofono), Caludio Pacifici (sassofono), Ciccio Arduini (sassofono), Alfredo Posillipo (trombone), Massimo Nunzi (tromba), Enrico Fineschi (tromba)
Durata 60 minuti circa