Un percorso sonoro prende il via al calar della sera ed accompagna i visitatori lungo il viale di Villa Medici che conduce alla scalinata e al mausoleo. Una serie di diffusori acustici, collegati ai rispettivi amplificatori, diffonde un insieme complesso di musiche e suoni che hanno la propria origine nel repertorio del teatro sperimentale degli ultimi anni. Ne risulta la creazione suggestiva di un’atmosfera sonora che privilegia l’incertezza e la sorpresa e si ricompone in una percezione chiara solo alla fine del percorso, quando il pubblico raggiunge il belvedere.
“Se infatti in generale – puntualizza Raffaella Ottaviani – l’evidenziare una prospettiva può essere considerato un fattore dell’aumento del realismo di una immagine, vorremmo considerarne solo l’aspetto artificiale, invertendone gli elementi, i principi: proiettare le forme fuor di se stesse invece di ridurle ai loro limiti visibili, e disgregarle perché si ricompongano in un secondo tempo, da un punto di osservazione determinato” (Raffaella Ottaviani, Catalogo del Festival di Villa Medici, 1986).
Oggetti scenici, immagini e illuminazioni di varia natura arricchiscono questa installazione personalissima, che crea un nuovo incontro tra la tradizione storica rappresentata da Villa Medici e le nuove forme espressive e tecnologiche.
“… STRANO DESTINO”
di Gino Castaldo
In Italia la ricerca musicale ha avuto uno strano destino. Sulla scia degli anni sessanta e per tutti gli anni settanta è uscita, per una volta, dalle accademie, diventando una mentalità diffusa, un atteggiamento capace di scuotere e vivacizzare non importa se il jazz, il rock, la musica popolare, e in alcuni casi perfino la canzone. Dappertutto si seguivano le tracce del “nuovo” con fervore irripetibile, in una sorta di rivoluzione permanente che correva parallelamente all’altro piano, più mercantile e consolatorio, che incanalava le energie giovanili. Il metodo era caotico, disordinato. Mancava, forse volutamente, il rigore teorico che aveva caratterizzato le avanguardie colte, ma di sicuro lo spirito della sperimentazione era per una volta sceso per le strade, aveva contagiato un’intera generazione di musicisti, penetrava dovunque, e dovunque metteva in discussione norme e convenzioni.
Poi più nulla. Come per incanto una coltre dal netto sapore di controriforma ha coperto e addormentato ansie e tensioni innovative. Tutto un movimento ha deposto le armi, ucciso da un’industria della musica che in Italia è particolarmente miope e conservatrice, in particolare quella discografica che non ha mai saputo e voluto investire sul nuovo. Ucciso poi dalla totale e scandalosa assenza dell’intervento pubblico, che ha lasciato tutto un mondo brulicante di nuove proposte in balìa degli avvilenti e restrittivi regimi di mercato.
Non che altrove, all’estero, non trionfi la più bieca commercializzazione, ma è indubbio che mercati più floridi e multiformi (e anche storicamente più coraggiosi) favoriscono la preservazione di margini dignitosi per lo sviluppo delle nuove tendenze. E non dimentichiamo che solo pochi anni fa proprio negli Stati Uniti (che è il mercato guida insieme a quello inglese) è accaduto che un brano di Laurie Anderson sia arrivato al primo posto delle classifiche discografiche. Una gloriosa eccezione, certo, ma che comunque è la punta di diamante di una situazione mai del tutto asservita alle leggi della domanda.
Se oggi in Italia non si sperimenta più, sempre in riferimento alla musica non accademica, è perché mancano centri di produzione adatti, perché manca una struttura organizzativa del lavoro musicale, e alla fine perché a questo punto è venuto a mancare anche un pubblico, o meglio un interlocutore (basti pensare che un personaggio come Giovanna Marini è costretta a sviluppare la sua ricerca sull’uso della voce quasi esclusivamente in Francia, dove è accolta con eccezionale interesse, da noi ormai impensabile). Se un tempo, parallelamente ai modelli anglosassoni, si era formata una coscienza dell’alternativa, ai giovanissimi che oggi si affacciano al godimento della musica viene offerta solo musica commerciale, che peraltro c’è sempre stata e non è il caso di scandalizzarsene. Grave casomai che non ci sia altro, o quasi, con cui confrontarsi.
E qui entra in ballo il teatro. C’è stata tutta una generazione di teatranti, cresciuta su una nuova concezione della musica che ha fatto parte indissociabilmente della nuova cultura degli anni ’60 e 70. La musica, non più intesa come accessorio voluttuario, è diventata un bisogno primario, uno strumento conoscitivo, forse il principale strumento di identificazione, e comunque un possente meccanismo di aggregazione collettiva. La musica è diventata in qualche modo necessaria, indispensabile.
Inevitabilmente questa nuova generazione teatrale ha stabilito con la musica un rapporto diverso da quello dei loro predecessori. La musica non era più intesa come sottofondo, come “colonna sonora” d’accompagnamento, se pur nobile, ma come un vero e proprio linguaggio, come un mondo di segni da inglobare nella pratica teatrale a pieno titolo, da vivere e padroneggiare fino in fondo.
Per molti di questi gruppi, citiamo soprattutto La Gaia Scienza, Falso Movimento e Magazzini Criminali, la musica è entrata nella rappresentazione come un elemento di forza, come un piano di linguaggio fondamentale e irrinunciabile, e per questo le musiche “di scena” dei loro spettacoli sono spesso lavori di grande interesse. Ancora di più questa tendenza è espressa dai gruppi che si muovono nell’area del Teatro-Danza, dove la fusione suono-gesto è ovviamente fondamentale.
Colpisce soprattutto la disinvoltura nel mescolare indifferentemente sonorità metropolitane, musiche tribali, minimalismo, ritmi rock, musica popolare e rumori in una moderna concezione sincretistica che in un certo senso, rovescia provocatoriamente quello che avviene nelle attuali strutture della comunicazione. Un sincretismo che, molto più della musica istituzionale, rispecchia davvero il “suolo” del nostro tempo.
Questi gruppi sono diventati dei veri e propri committenti per una ricerca svincolata da obblighi mercantili, che non deve più fare i conti con i patteggiamenti del mercato. Una musica spesso assai intensa, altamente significativa, perfino autonoma, nel senso che nei casi più riusciti può essere recepita indipendentemente dalla funzione a cui è assegnata.
Certo, in quanto musica commissionata, è stata costruita per “servire”, per essere funzionale ad uno spettacolo, ma riesce ugualmente ad affermare una sua libertà stilistica e originalità, perché non è mai pensata come subalterna, ma al contrario come uno scenario fondamentale, spesso così importante da guidare l’azione scenica, paritaria agli altri linguaggi in gioco; in una totalità priva di precisi confini.
Nella pratica di questi gruppi capita spesso che il gesto richieda una determinata musica, ma anche che sia una determinata musica a stimolare la costruzione del gesto. Qualche volta la metodologia di base parte proprio dalla musica.
Dunque la musica non è atmosferica, clima sonoro, illustrazione, ma diventa scansione ritmica, comunicazione parallela, talvolta definizione di uno spazio e di un tempo per l’azione teatrale.
E così, per un destino davvero strano, il teatro finisce per essere oggi una delle rare zone dove è ancora, non solo consentita, ma addirittura richiesta una ricerca del “nuovo” musicale. Ed è proprio nella creazione di una musica applicata che oggi i compositori possono sentirsi più liberi.
Ascoltare i lavori dei compositori che in questi anni si sono legati al teatro, significa non solo immaginare nuove possibilità di comunicazione provenienti dallo spazio scenico, ma anche andare a scrutare nel vivo di una ricerca musicale, in fondo mai morta, che mantiene vivo il gusto della sperimentazione come creazione di paesaggi sonori che sono “altre” possibilità del nostro pensiero.
Crediti
Realizzazione Paolo Modugno, Raffaella Ottaviani, Marco Solari
Musica e suono Paolo Modugno
Scenografia e artwork Raffaella Ottaviani
Scenografia e luci Marco Solari
Organizzazione Teorema Snc / M. Pasquini
Durata 60 minuti circa