Direttrice dal 1987 del Tanztheater di Dresda, nonché coreografa e prima ballerina, Arila Siegert si è presentata, sola, sul palcoscenico, proponendo una danza che è innanzitutto una personalissima e meditata ricerca interiore, scevra di ogni effetto spettacolare come delle convenzioni posticce del balletto classico.
Il programma è dedicato ad un’altra grande solista, Dore Hoyer, di cui la Siegert rielabora Afectos Humanos: articolata nell’esplorazione di cinque passioni umane (vanità, cupidigia, odio, paura e amore), la coreografia, che risale al 1962, contribuì non poco, con il suo taglio espressionista e cupo, al progressivo isolamento della Hoyer dagli ambienti istituzionali del balletto, situazione che finì per logorarla profondamente, fino al conclusivo suicidio. Affekte è il titolo del secondo assolo portato in scena dalla Siegert, firmato da ella stessa ma legato comunque a filo doppio all’ispirazione che guida Afectos Humanos e teso a comporre, attraverso una gestualità essenziale ed intensa, un vocabolario sentimentale dell’animo umano.
AFECTOS HUMANOS
di Donatella Bertozzi
Arila Siegert è un’artista di assai singolare individualità. Oggi, apparentemente l’unica erede, ad oriente del “muro” tedesco, di quella ricca e importante tradizione coreografica che risale alla corrente tecnico-estetica del modernismo e dell’espressionismo centroeuropeo. Se non l’unica, perlomeno una delle poche la cui fama sia giunta in questi anni fino a noi.
Ma questo non basta. La Siegert riassume in sé i caratteri di una duplice vocazione: accanto ad un apprendistato di danzatrice moderna, presso la celebre Palucca-Schule di Dresda (fondata da Gret Palucca nel 1925 chiusa dai Nazisti nel 1939 poi riaperta nel 1945 e divenuta una delle più prestigiose istituzioni culturali della Germania dell’Est) la Siegert ha coltivato un esemplare talento per il balletto, è stata una celebre prima ballerina, acclamata interprete di tutti i principali ruoli del repertorio classico, dal Lago dei cigni a Giselle, da Coppelia a Bayadère. In un certo qual modo il suo talento singolare l’ha mantenuta in equilibrio al di sopra dei contrasti fra l’aspro modernismo d’anteguerra e i sussulti di restaurazione neoclassica che hanno scosso le compagnie e i teatri di tutta la Germania negli anni della guerra fredda.
La Siegert ha potuto accostarsi da bambina alla danza secondo i rigorosi principi del modernismo europeo. “La scuola della Palucca, al tempo di Dore Hoyer ma anche più tardi, quando l’ho frequentata io – ricorda oggi – era un’istituzione culturale che formava l’intera personalità: i gusti, la filosofia, l’impegno e il rapporto con la forma, fino ad avvicinare l’interprete al proprio compito artistico”.
E questa scuola di così severe e profonde intenzioni formative ha lasciato una durevole traccia in lei. Allo stesso modo è stata poi decisiva per la giovane professionista l’esperienza compiuta con Tom Schilling a Berlino, dal 1971 al 1976, presso il Tanztheater der Komischen Oper.
Schilling, allievo a sua volta tanto della Wigman e della Hoyer che della scuola di ballo del Teatro dell’Opera di Dassau, è un’altra di quelle figure di raccordo fra modernismo e classicismo a tutt’oggi fin troppo sottovalutate nella ricostruzione degli ultimi cinquant’anni di storia della danza europea. Dice oggi la Siegert: “La scuola di Schilling, a Berlino, è stata per me determinante, perché il metro di misura usato da Schilling con i suoi ballerini era la varietà, la molteplicità”. E da questa varia molteplicità di influenze e di stimoli l’autrice tedesca ha tratto linfa sufficiente a nutrire una propria vocazione di creatrice, scegliendo di muoversi nel campo dell’invenzione e della ricerca, dunque sul terreno di un nuovo modernismo.
Fin dal 1974 ha composto le sue prime coreografie – quando ancora la sua carriera di interprete con la Staatsoper, poi con la Semperoper di Dresda, la portava in giro per il mondo in lunghe tournées. Il suo desiderio di approfondire lo studio la conduceva intanto anche a Leningrado, a Londra e in diversi teatri della Repubblica Federale Tedesca.
Dopo i primi esperimenti, condotti a metà degli anni Settanta, lavora con regolarità e costanza alla preparazione di brevi coreografie nonché di assoli pensati per se stessa, riprendendo in questo modo una tradizione tipica dell’espressionismo tedesco e comune tanto alla Wigman quanto alla Hoyer e alla Palucca, le tre grandi primedonne della coreografia moderna in Germania.
Tentata dal testo e dai codici espressivi del teatro, nel 1984 ha realizzato, su alcuni sonetti di Shakespeare, una sua creazione in collaborazione con il regista Wolfang Engel e Fattrice Cornelia Schmaus. Nel 1986 è a Vienna, dove collabora, come assistente alle coreografie, alla messinscena dell’opera di Hans Werner Henze Orpheus. Nello stesso anno compone due assoli, Gesichte e Herzschlage che le valgono un indiscusso prestigio e contribuiscono non poco a risollevare le sorti della danza di ricerca nel suo paese.
Dal 1987 assume la direzione del Tanztheater im Schauspielhaus di Dresda e si fa promotrice contemporaneamente di importanti incontri e conferenze dedicate alla danza in quella stessa città.
La sua parabola di interprete e creatrice ricorda, per certi versi, quella di Susanne Linke, cui la Siegert assomiglia un po’ perfino fisicamente. Curiosamente, quasi nello stesso periodo, le due artiste tedesche hanno deciso entrambe di dedicare energie alla composizione di un “omaggio a Dore Hoyer” e alla rievocazione proprio di quel medesimo ciclo di danze della loro maestra e ispiratrice, che rappresenta una sorta di testamento spirituale della sfortunata autrice e interprete tedesca, la cui vita trascorse interamente consacrata alla sua arte, spesa per lo più nella lotta contro una crescente e soffocante incomprensione che circondava la ricerca sperimentale e il suo lavoro in particolare.
La Hoyer aveva studiato nella celebre scuola di Hellarau – una città giardino satellite di Dresda – con Gret Palucca (ma non con la Wigman). Qui, guidate dai principi riformatori relativi alla formazione dell’artista enunciati da Dalcroze, fondatore della scuola, insegnavano la Wigman e la Rambert e si formarono le migliori danzatrici tedesche dell’epoca: oltre a Gret Palucca anche Yvonne Georgi, Hanya Holm, Rosalia Chladek.
La Hoyer vi aveva assorbito quei principi di filosofia dell’arte che la portavano ad indagare senza sosta le pieghe più riposte dell’anima alla ricerca di nuova genuina ispirazione per le sue danze. Considerata “un’artista fra le più grandi, di strabiliante individualità e raffinata tecnica, l’ultima erede di quella teoria di danzatrici tedesche cominciata con Mary Wigman”, la Hoyer, fra la fine degli anni Quaranta e il principio degli anni Cinquanta, collaborò come direttrice del ballo con l’Opera di Stato di Amburgo per tornare poi a una carriera di solista indipendente che sentiva istintivamente più congeniale al suo carattere e alle sue inclinazioni creative.
Al 1957 risale il suo debutto in America presso l’American Dance Festival del Connecticut College e a New York (Columbia University). Negli anni successivi fece lunghe tournée soprattutto in Sudamerica, sempre con Dimitri Wiatowitsch, pianista e compositore, autore di molte delle partiture che accompagnavano le sue danze.
Fra le sue coreografie più note – alcune delle quali messe in scena durante il periodo della permanenza all’Opera di Amburgo, come direttrice del ballo – si ricordano Visione (sul Concerto in Re di Stravinsky), Zingara (sul Divertimento in tre movimenti di Bartók) e la sua versione del Bolero di Ravel.
Circondata da una crescente incomprensione la Hoyer si tolse la vita l’ultimo giorno di dicembre del 1967.
In Afectos Humanos la Hoyer evocava, attraverso brevi composizioni solistiche, sottolineate da scarne e pregnanti notazioni di colore – nelle scene e nei costumi – la cruda, elementare verità e potenza dei sentimenti che affliggono – o rallegrano – il cuore: vanità, cupidigia, odio, amore. Affetti di forte e intensa presa sulla nostra psiche. Così potenti, a volte, da identificarsi addirittura con essa, fino a travolgerla.
L’obiettivo della Hoyer, lo scopo di queste brevi composizioni, era quello di esprimere attraverso il movimento e per mezzo del linguaggio stilizzato della danza, la “verità” dei sentimenti e tutta la brutale e affascinante semplicità della loro essenza. Per far questo la Hoyer ricorreva a un inflessibile, doloroso lavoro di introspezione e di ricerca sul movimento e tracciava poi, con brevi pennellate nello spazio, l’essenza di ciò che aveva trovato dentro di sé. Pochi tratti di colore, semplici antitesi dialettiche di bianchi e di neri nelle scene, davano dimensione teatrale alla disposizione architettonica del movimento nello spazio.
La ripresa di quelle rigorose coordinate interiori caratterizza oggi la “ricostruzione” delle danze della Hoyer da parte della Siegert. “Io non ricostruisco le danze della Hoyer per motivi tecnici o storico-materiali – afferma la Siegert – piuttosto per trasportare contenuti utili nel mondo attuale e imparare da un lavoro coerente”. Sarà interessante osservare – anche a paragone con l’analogo lavoro compiuto da Susanne Linke su gli stessi temi – quanto gli esiti di questa operazione sappiano restituirci dell’epoca e del clima in cui la prima ispirazione di queste danze era maturata e quanto, anche, ci dicano del mondo nostro contemporaneo.
PERCHÉ RICOSTRUZIONI
Conversazione fra Peter Zacher e Arila Siegert
Se in un’epoca vengono raccolte vecchie tradizioni e determinate cose invece messe ad acta (come quando, con l’entrata in scena di Isadora Duncan, il balletto classico, come forma teatrale, cominciò a vacillare), allora continuano a esistere molte opere d’arte degne di essere conservate. Lavori che dovrebbero essere conservati come testimonianze. È data un’unità di misura alla quale ci si può e ci si deve attenere.
Tu dici che il balletto classico ha cominciato a vacillare. Intendi con questo la tecnica classica o il balletto d’azione?
Che il teatro d’azione, nel senso più ampio, tratti di rapporti fra persone e che catturi la vita è scontato e sarà sempre così. I contenuti sono cambiati adeguandosi ai tempi. Si può lavorare su un avvenimento seguendo un determinato modello, senza che questo abbia a che fare con noi, con la nostra vita.
Pensi che la tecnica classica sia inadeguata a rappresentare contenuti attuali?
Sì, io credo che la tecnica classica sia un’ottima scuola per il corpo, perché dà la possibilità ad un ballerino di poter lavorare con il proprio corpo come strumento. Io non credo che la tecnica classica o una qualsiasi altra sia sufficiente a fare del teatro. E questo vale per la tecnica e il teatro di qualsiasi tipo.
Quindi: la tecnica della Hoyer o della Siegert non bastano?
La tecnica è solo la base, niente di più. Io non ricostruisco le danze della Hoyer per motivi tecnici o storico-materiali, bensì per trasporre contenuti utili nel mondo attuale e imparare da un lavoro coerente.
Fino a che punto è possibile questo? Ogni ballerino, di una certa importanza, ha un proprio linguaggio del corpo.
Io non sono Dore Hoyer, le mie esperienze di vita sono altre. Ma lei ha saputo racchiudere i suoi contenuti in una forma talmente chiara che il suo valore resiste a un cambiamento. La sento molto vicina, perché veniamo dalla stessa scuola. La Palucca-Schule – al tempo di Dore Hoyer, ma anche più tardi quando l’ho frequentata io – era una istituzione culturale che formava l’intera personalità: i gusti, la filosofia, l’impegno e il rapporto con la forma fino ad avvicinarsi ad un compito artistico. Per questo sento di avere molto in comune con lei.
Ritorni adesso al significato che questa scuola ha avuto per te. In altre parole: il periodo in cui eri nel balletto dell’opera è da considerare al di fuori del continuum tra scuola e realtà odierna? Hai cambiato e allungato il percorso?
Questo deve essere permesso.
II mio non era un rimprovero.
Anch’io mi dico la stessa cosa. La scuola di Tom Schilling a Berlino – lui frequentava ancora le lezioni di Dore Hyer – è stata determinante, perché il metro di misura usato da Schilling con i ballerini e la varietà, la molteplicità di Casa Felsenstein sono diventati per me l’esperienza primordiale del teatro. La scuola rimane solo scuola, la realtà si trova a teatro. Per questo mi sono trovata bene durante il mio primo periodo a Dresda e a Berlino.
Cosa è che ti incoraggia a seguire questa strada? Sei quasi la sola in questo paese.
In un tempo in cui l’Essere sociale invita sempre più alla responsabilità individuale è per me un dovere vivere in questo modo. Non si possono cedere le proprie responsabilità e la responsabilità che io ho sulla scena non può assumerla nessun altro. Io però non voglio sottomettermi a un compito in cui non credo o che non posso accettare nel mio intimo.
Vivi te stessa sulla scena?
Si, ma il palcoscenico non è la vita.
Ma quello che tu fai sul palcoscenico ha anche conseguenze private.
Ci sono sempre gli alti e bassi ed è un fatto spiacevole. Che io lo voglia o no, non ho scelta. Concretizzare, trovare la soluzione, fondere, tutto questo è molto difficile. Ma credo che sia normale. Superare e risolvere i problemi non è una cosa divertente, ma non serve a niente accantonarli.
È questo il motivo per il quale si è giunti, nella seconda parte, alla musica di Gerald Humel?
Sì, mi rendo la vita difficile, l’uva è appesa in alto.
Comunque, gli Afectos humanos della Hoyer hanno un indiscutibile valore artistico, indipendentemente da una nuova realizzazione.
Sì, sono indipendenti, così come la mia Weiterfübrung è immaginabile e indipendente senza l’antefatto della Hoyer. Il punto di partenza di Dore Hoyer era che gli affetti ci guidano nei piccoli e nei grandi avvenimenti mondiali, e che anche le nostre decisioni riguardo le persone, la vita, la morte e la politica mondiale sono determinate dagli affetti. Io penso che questo sia in gran parte vero. Ha lavorato insieme al suo compositore sugli affetti fondendoli in movimento con la massima limitazione e concisione, cosa che io ammiro molto. Io cerco di mettere in rapporto, in connessione gli affetti. Io procedo diversamente, non voglio rappresentare gli affetti, ma rielaborarli all’interno di un rapporto sociale, in base ad un passaggio attraverso le porte di quest’epoca. Senza il passato e il futuro io non posso essere presente.
Rassegna stampa
“Sia Arila Siegert che Susanne Linke, come già Dore Hoyer e Mary Wigman, prediligono le recite solistiche, concepiscono la danza come espressione della propria personalità, la usano come ricerca introspettiva, come indagine della realtà contemporanea: il tutto espresso con un movimento mai grazioso e sempre essenziale, intenso e drammatico.
Questi caratteri si riscontrano anche in Affekte, il secondo assolo proposto da Arila Siegert. In questo brano la coreografa, entrando e uscendo da diverse porte allineate le une vicine alle altre in due pannelli perpendicolari fra loro, esprime diversi stati d’animo che si mescolano e si incrociano come nel gioco della vita. I sentimenti, sempre marcati da un senso drammatico dell’esistenza, sono espressi con una gestualità che se risulta meno originale delle parallele ricerche del Tanztheater tedesco, in quanto segnata dal gusto enfatizzante della danza espressionista e “sporcato” da passi del balletto classico, non è per questo meno efficace come potenza espressiva”.
(Francesca Bernabini, Violenza delle passioni, Corriere della Sera, 18 luglio 1990)
Crediti
Messa in scena e coreografia Arila Siegert
Ensemble Tanztheater Staatsschauspiel di Dresda
Scenario Eva Schön
Creazione maschera di danza Wolfgang Krause
Drammaturgia Peter Zacher
Direzione di scena Detlef Müller
Luci Peter Meißner
Interpreti Arila Siegert
AFECTOS HUMANOS. LA VANITÀ, LA CUPIDIGIA, L’ODIO, LA PAURA, L’AMORE
Coreografia e costumi Dore Hoyer
Musica Dimitri Wiatowitsch
Rielaborazione e interpretazione Arila Siegert
KENTAUREN
Filmato di Peter Voigt con il testo di Heiner Müller
AFFEKTE
Spettacolo di danza ispirato al Die Folterung der Beatrice Cenci
nella versione per concerto di Gerald Humel