Parafrasando il titolo della celebre opera di Manuel de Falla, Noches en los jardines de España, l’Accademia iberica ha scelto come titolo, per un breve ciclo di eventi, Serate nei giardini dell’Accademia di Spagna. Ma il rimando a de Falla non è solo nominale, i concerti presentati infatti hanno voluto tessere un mosaico in cui fosse evidente una delle peculiarità sostanziali della musica del compositore, ovvero la capacità di rielaborare in modo personale e non privo di attenti rimandi alla musica contemporanea europea, il patrimonio etnico ed il bagaglio della tradizione popolare. E così i concerti in programma hanno offerto uno spaccato della musica contemporanea spagnola, mostrandone una delle caratteristiche principali: la fusione tra le tendenze europee e le radici melodiche e ritmiche più profondamente autoctone.
Il Grupo Círculo de Madrid, formazione cameristica di strumenti a fiato e a corde, si è fatta portavoce della nuova musica spagnola, poco conosciuta dal grande pubblico eppure forte di una generazione di autori perfettamente allineati allo spirito di ricerca contemporaneo. Diretto da José Luis Temes, l’ensemble ha eseguito opere di Adolfo Núñez, Jorge Hernández Guerra, Francisco Luque (la sua Reverie è stata composta appositamente per il Grupo Círculo de Madrid), Antonio Orts e Tomás Garrido, quest’ultimo presente anche sul palco come violoncellista.
IL FLAMENCO, ANIMA DELLA SPAGNA
di Elsa Airoldi
Capelli crespi, occhi incupiti dalla memoria di remote passioni, corpo plastico scosso dal fremito di un zapateado che percuote la terra con rabbia impotente. È Mario Maya, bailaor gitano di Granada: che sia lui il flamenco?
Un vocalizzo lungo tormenta tra i suoi melismi le sillabe “Ay” e “Lelí” ed è tormentato da una voce nasale, raschiata, quasi impedita. La fantasia materializza un muezzin sulla cima di un minareto. Lui, ne siamo certi, conosce il mistero del flamenco. Certezze vane, non certezze.
Per il flamenco si sono versati fiumi di inchiostro; il numero degli esegeti, specie negli ultimi decenni, non si conta. Tuttavia nessuno è riuscito a trovare la parola definitiva. Almeno per quanto concerne genesi e filologia. Ché per contro, l’analisi musicale è avvantaggiata dall’osservazione di alcune forme ricorrenti. Consultiamo i sacri testi. Un capogiro di contraddizioni. Imperterriti, come consuetudine impone, iniziamo dall’etimo. Da dove verrà il vocabolo “flamenco”? Dall’arabo, è ovvio: da fellah mengu che significa cantare come da falai kun che vuol dire contadino. Ma perché non dal provenzale ilama, insinua qualche ameno? Allude alla fiamma, al fiammeggiare. Mentre altri chiamano in causa i fiamminghi giunti in Spagna all’epoca di Carlo V, o meglio quei flamencos, ossia “felloni” in argot, che arrivarono sì dalle Fiandre ma erano orde gitane.
“Flamenco”, del resto, è anche il nome di un fenicottero rigido e impettito proprio come i cantaores flamenchi. Ma, se non fosse tutto per la parola “flamenco”, orizzonti infiniti si aprono per i termini ad esso connessi. Cante hondo ad esempio, per Falla il più antico canto andaluso e persino europeo, e per Louis Lucas il primo apparso in natura su imitazione del canto degli uccelli e del grido degli animali. In ogni caso un elemento che i più (ma non tutti) collegano al canto flamenco. Anche lui, il cante hondo, ha la sua brava radice lessicale. Potrebbe essere l’ebraico jom-hol, giorno buono; oltre che, è ovvio, l’andaluso jondo, profondo, intimo, segreto. Mentre olé, il grido di incitamento rivolto a tocaores, cantaores, e bailaores (suonatori, cantanti e ballerini) può scegliere tra il dionisiaco Evohé dei greci, l’espressione d’entusiasmo joleh degli ebrei e l’invocazione Allah degli arabi.
Quanto poi al significato del termine flamenco, leggiamo indifferentemente che con esso si intende ogni espressione della cultura gitana, oppure che è un vocabolo generico atto a indicare una particolare qualità di cante, baile e toque (canto, danza e assolo di chitarra) in uso in Andalusia e nella Spagna del sud.
C’è poi la questione del rapporto tra flamenco e cante hondo. Due mondi assolutamente autonomi, dice qualcuno; filiazione l’uno dell’altro, sentenziano altri; due differenti definizioni per lo stesso canto, sostengono altri ancora. Secondo una credibile classificazione raccolta da un recente studio di Israel J. Katz, il cante hondo altro non sarebbe che un tipo di canto flamenco.
Ma sia come si vuole, i dubbi che turbano i sonni di storici ed etnomusicologi nulla tolgono alla fatale imperturbabilità degli artisti impegnati sul “tablao” o nelle piazze di Siviglia. Come sulle scene dei grandi teatri del mondo. Più che i cantaores eredi di una feconda e celebrata tradizione, vagano per i continenti i bailaores. E anche i più preparati di essi, come Mario Maya, Antonio Gades o gli esperti ingaggiati dall’organo ufficiale del Ballet National de España, non se lo sognano nemmeno di spingere il discorso oltre qualche dissertazione accademica sulle danze regionali e su quelle di scuola “bolera”, e cioè su danza e musica segnate dalla contaminazione tra popolare ispanico e scuola classica franco-italiana: non a caso il critico catalano Alfonso Puig, alludendo alla scuola bolera, parla di “sintesi dell’ispanismo romantico”. Se già Marziale lodava le danzatrici di Cadice e Giovenale la passionalità dei cantaores, José Blas Vega riferisce come sul finire del Settecento fiorissero in Spagna tre scuole: quella di danza popolare, quella di nacchere e quella flamenca. E come le prime due assistessero alla “misteriosa” nascita della terza. I centri di flamenco, racconta Israel Katz, erano Triana (il quartiere gitano di Siviglia), Cadice, Jerez de la Frontera e le città di porto in genere. Si individua nel flamenco anche la prima matrice del genere teatrale popolare della tonnadilla.
Il flamenco vive il suo periodo d’oro tra il 1860 e il 1930. In tale lasso di tempo teatro naturale del genere sono i cafés cantantes (caffè-concerto) con i loro tablaos (pedane) dove gli artisti siedono in semicerchio. Nel 1880 in alcuni “cafés” appaiono le prime sottane a strascico e i primi cappelli a larga tesa. Nel 1914, all’Alhambra di Londra, Antonia Mercé, detta la Argentina, mette in scena Embrujo de Sevilla, sancendo il passaggio dal baile (comprensivo del flamenco) al balletto e dalla piazza al teatro. I punti di riferimento del genere, entrambi firmati Manuel de Falla, sono EI amor brujo e EI sombrero de tres picos. La stessa strada sarà poi battuta da Vicente Escudero, Encarnatión López, detta la Argentinita, Pilar López, sorella di Encarnatión e maestra di quasi tutti coloro che contano oggi: a iniziare da Antonio Gades. Del 1922 è la famosa “Fiesta de cante jondo” organizzata a Granada da Manuel de Falla e Federico García Lorca. Del 1933 la “Gran compagnia di balli spagnoli” fondata dalla Argentinita. Nonostante il fervore di iniziative il flamenco puro si avvia tuttavia verso un periodo di decadimento, anche accentuato dallo scoppio della guerra civile e dagli eventi che ne seguono. Solo nel 1957, a Jerez de la Frontera, è istituita la prima cattedra di flamencologia.
Ma come nasce questa ermeticissima “cosa” chiamata flamenco? Ovviamente i pareri sono discordi, ma tutti partono dall’osservazione geografico-politica della terra di maggior diffusione, l’Andalusia, che fu punto di sintesi delle civiltà musicali sparpagliate per il Mediterraneo: dalla Grecia a Cartagine e da Roma a Bisanzio. Manuel de Falla, in un suo studio fondamentale, poi regolarmente contraddetto, sottolinea la portata di alcuni eventi storici: l’adozione della liturgia bizantina da parte della chiesa spagnola, l’invasione araba, l’immigrazione dei gitani e lo stabilirsi di alcuni di essi (i castellanos neuvos) fuori dalle mura della città. Falla definisce con il nome di cante hondo un gruppo di canti andalusi il cui tipo base si riconosce nella seguiriya gitana. Nella seguiriya egli individua elementi bizantini e arabi ma anche varianti aggiunte nel corso del 1400 dai gitani andalusi. Dalla seguiriya si sarebbero sviluppati i generi di polos, martinetes e soleares. Israel Katz ricorda l’invasione islamica del ‘700, ma soprattutto l’arrivo a Córdoba, dove fondò una scuola di canto, di Ziryab, il famoso musico di Bagdad. La musica diviene predominante differenziandosi nel tempo da quella dei califfati di Damasco e Bagdad, cioè integrandosi con le espressioni musicali preesistenti. Più tardi si registra l’influsso del gregoriano, mentre non è certo l’apporto della liturgia ebraica. La stessa fonte sottolinea i punti di contatto, anche figurativi tra flamenco e tradizione indiana, quella originaria del popolo gitano, osservando affinità con l’intelaiatura melodica costituita dal raga.
Per l’analisi delle forme musicali c’è maggiore coerenza di giudizio. In musica si nota il passaggio di tonalità sul filo di microintervalli inferiori al semitono. Si osserva l’estensione melodica, mai superiore a una sesta (anche se vengono utilizzati molti più suoni di quelli previsti dal nostro sistema temperato). Si sottolinea l’assenza di un ritmo metrico rigido, fatto che implica una grande dinamicità di respiro. Analizzando alcuni generi rappresentativi, come la zambra gitana di derivazione araba o la juerga, sensuale, segreta, e diretta a una platea iniziatica e numericamente limitata, ci si sofferma sul cuadro flamenco. Sul numero che tutti conosciamo per essere spesso il protagonista e spesso il momento di chiusura di ogni spettacolo riservato al folclore iberico. I solisti, ballerini, cantanti o suonatori, si staccano dal gruppo per esibirsi in gioiosi assoli, sempre incoraggiati dal grido e dal battimano del gruppo.
Nello spettacolo flamenco l’apertura è generalmente riservata al cupo e dolente vocalizzo del cantaor sulle sillabe di “Ay” o “Lelì” (gipido). Il canto è quindi organizzato in coplas (strofe) che variano per numero di versi e sillabe relative. Tuttavia di frequente organizzate in una sorta di quartina di ottonari. Le coplas dei canti più antichi sono accompagnate dal battito delle mani (jaleo), o dallo schiocco dell’indice sul medio (pito). Il canto privo di accompagnamento è detto a polo seco. I vocalizzi melismatici del cantaor sono detti salidas. Canto e chitarra ricorrono sovente all’uso reiterato di una stessa nota con appoggiature inferiori o superiori. Le volute ornamentali vengono intese come rinforzo emotivo. Spesso è presente la poliritmia: il canto procede su un ritmo binario accompagnato dal ritmo ternario della musica. Il ritmo incrociato è reso possibile da taconeo, palmas sordas e pitos che utilizzano il battito di piedi, mani e dita. Il cantante ha in genere una voce nasale, aspra, raschiata. La chitarra ricopre il duplice ruolo di accompagnamento e strumento solista. Può essere impiegato nel rasgueado (raschiato), nel paseo (effusione melodica) e nelle falsetas (interludi tra copla e copla).
Un rituale antico e attento divide anche il pubblico in practicos, quelli che “sanno”, e téoricos, i fans.
Alcuni studiosi distinguono tra categorie di flamenco: cante chico, il più semplice; cante grande, comprensivo del tipo hondo; e cante intermedio. Alcuni canti (se ne catalogano una settantina) prendono nome da famosi cantaores: la soléa Tomas Pavón o la seguiriya El Manolito.
Parlando di canto, ci piace ricordare alcune raccomandazioni di Falla. Egli metteva in guardia contro la perdita del “canto grave e ieratico di ieri”, contro la povertà tonale e la grossolana metrificazione delle coplas così private di quella flessibilità ritmica che ne costituisce la grandezza. Insomma raccomandava di stare attenti al “flamenquismo” commerciale.
Esortava, come direbbe García Lorca, alla perenne ricerca del duende: l’estro, la passione, l’estemporaneità, il costante fatale ammiccamento alla morte: “il duende non arriva se non vedi una possibilità di morte, se non sai che dovrai corteggiarla, se non hai la sicurezza che dovrà cullare quei rami che tutti portiamo con noi, e che non hanno, non avranno mai, consolazione.
ALLA SCOPERTA DELLA MUSICA SPAGNOLA
di Mauro Mariani
Per l’appassionato che non si sia preoccupato di approfondire molto l’argomento, la musica spagnola è simboleggiata soprattutto dalle nacchere e dal flamenco, dalla chitarra e da alcune celebri canzoni rimaste nel repertorio dei grandi tenori. Certamente per alcuni musica spagnola significa anche Granados, Falla e gli altri compositori della cosiddetta Scuola Nazionale fiorita tra la fine del secolo scorso e i primi anni del nostro. Ma pochi immaginano che da oltre un millennio la penisola iberica abbia una storia musicale ricchissima e affascinante: la dominazione araba, l’isolamento geografico, l’alternanza di periodi di splendore e di decadenza non sono mai stati d’ostacolo alla vivacità della cultura spagnola.
Questi due concerti ci ripropongono alcuni compositori della Scuola Nazionale e ci fanno conoscere alcuni nuovi esponenti delle giovani generazioni.
Verso la fine del secolo scorso la musica spagnola conosce una nuova fioritura, prima grazie ad alcuni grandi virtuosi del violino e del pianoforte, che conquistarono i pubblici di tutta Europa come esecutori ma anche come autori di pezzi dal vivace colore spagnoleggiante, e poi grazie ad alcuni compositori che si rivolsero al ricchissimo patrimonio di canti e danze popolari spagnole con un’attenzione più profonda alle loro autentiche radici, tenendo però d’occhio anche l’evoluzione del linguaggio musicale del loro tempo.
Appartiene al primo gruppo Pablo de Sarasate, violinista fra i più celebrati della fine dell’Ottocento. Possedeva in sommo grado il dono di conquistare il pubblico con la suprema seduzione del suono che sapeva trarre dai suoi Stradivari. Ad ammaliare l’ascoltatore non erano infatti le sue mirabolanti doti tecniche, ma la magia di un suono che tutti i testimoni contemporanei giudicavano inimitabile e indescrivibile.
Scrissero per lui celebri compositori come Lalo e Bruch ed egli stesso scrisse una quantità di brani che mettono in mostra una facile vena melodica, applicata al filone tzigano-spagnoleggiante, in gran voga al tempo. Una simile combinazione di tratti popolari ed elementi virtuosistici si può riscontrare anche in José del Hierro e nella sua Jota, una danza cantata originaria dell’Aragona.
Appartiene invece al secondo gruppo Manuel de Falla, le cui composizioni sono impregnate delle qualità melodiche e ritmiche della musica popolare spagnola, cui si aggiunse negli anni della maturità anche l’influsso francese, in particolar modo di Debussy e Ravel. Le Siete canciones populares españolas, composte nel 1914-1915, erano in origine sette pezzi per mezzosoprano e pianoforte, ma vengono qui eseguite in una trascrizione violinistica: l’ascendenza popolare è forte e chiara ma è anche evidente la capacità di Falla di trasfigurare gli elementi folclorici. Nello stesso concerto troviamo anche due musicisti italiani del Settecento. Al bolognese Tomaso Alvaro Vitali, celebre violinista e autore di varie raccolte di Sonate per violino e basso continuo, veniva fino al 1970 attribuita questa celebre Ciaccona, in realtà apocrifa: consiste in una serie di variazioni costruite sulla ripetizione “ostinata” di un breve basso. Anche Giuseppe Tartini fu un celebre violinista, forse il massimo del diciottesimo secolo. Oggi una notevole porzione della sua musica è stata riscoperta dopo due secoli di oblio, ma fino a pochi anni or sono il suo nome era legato esclusivamente alla Sonata in Sol minore per violino e basso continuo, cui – al di là degli indiscutibili pregi intrinseci – giocò molto la leggenda che la voleva ispirata a Tartini nel sonno dal diavolo in persona: da qui il titolo di Trillo del diavolo.
L’altro concerto ci fa fare un salto netto nella contemporaneità: presenta infatti alcune composizioni recentissime, che danno la misura della vitalità della musica spagnola, che non era mai venuta del tutto meno neanche negli scorsi decenni (si pensi a compositori quali Gerhard, Halffter, de Pablo) ma che ha trovato nuovo alimento nel clima più libero e aperto della ritrovata democrazia.
Adolfo Nuñes ha composto Ensayos nel 1982: sono tre brevi pezzi nei quali si esaminano diversi atteggiamenti strumentali e le atmosfere sonore che ne derivano. Nel primo, intitolato Galleggiante, si realizza una sospensione nel tempo mediante la proliferazione di disegni molto rapidi e “liquidi”. Il secondo, Vegetale, suggerisce il modo di crescere dei disegni melodici. Nel terzo, Espressivo, si cerca l’espressione di suoni lunghi, mescolati con brevi movimenti ritmici.
Cantos del Morron de la noche di Tomás Garrido è un insieme di sedici microbrani, composti nel 1987 per l’ora disciolto Trio Arlecchino e rielaborato l’anno scorso per flauto, clarinetto, pianoforte e violoncello.
Extrio per flauto, pianoforte e violoncello è considerato un lavoro “minore” nel catalogo di Jorge Fernandez Guerra, volendo con questo intendere non tanto una sua inferiore qualità bensì un carattere esteriormente disimpegnato, da divertimento o da esercizio spontaneo che non pretende maggiori ambizioni.
Reverie di Francisco Luque fu composta l’anno scorso per un concerto del Grupo Círculo a Parigi. È un’opera breve ma molto rigorosa nella scrittura. L’organico è nettamente diviso in due parti: il pianoforte, quasi sempre con microinterventi a solo che creano la trama di fondo nella quale spazia l’opera, e il quartetto di strumenti monodici, che si esibiscono quasi sempre congiuntamente, come opponendosi agli interventi del pianoforte.
Infine Poliedrica per pianoforte, violino e violoncello di José Antonio Orts. Consta di una successione di undici episodi nei quali il ritmo, il timbro e le tensioni e distensioni da questi provocate costituiscono l’asse fondamentale.
Rassegna stampa
“In prima esecuzione assoluta Poliedrica del trentacinquenne José Antonio Orts, borsista dell’Accademia. Il rigore dell’elaborazione non esclude l’impatto emotivo: dall’impercettibilità di un soffio al grido di estreme dissonanze, il gruppo di flauto, clarinetto, pianoforte, violino e violoncello percorre un cammino di grande varietà timbrica e di mutevole spessore contrappuntistico. A un primo ascolto sembra risaltare soprattutto la percussività di un battito ritmico insieme calcolato e variabilissimo.
Interessante anche Reverie di Francisco Luque, per lo stesso organico. Sospeso tra un puntillismo quasi anni cinquanta e un contrappunto postmoderno vagamente bachiano, Trio vivo di Jorge Hernández Guerra. Cantos de Morrón de la noche di Tomás Garrido, il violoncello del gruppo Círculo, cerca di catturare in 16 brevissime pagine l’aura di un uccello misterioso.
Infine, Ensayos di Adolfo Núñez espone in tre pannelli tre diversi atteggiamenti contrappuntistici. Bravissimo il Grupo Círculo de Madrid […], diretto con molta precisione da José Luis Temes.
Festeggiatissimi tutti gli interpreti, applauditi anche i compositori Orts e Luque venuto apposta da Parigi. Il pubblico, numeroso e sceltissimo, è sembrato godere la serata”.
(Dino Villatico, Quelle notti nei giardini di Spagna, la Repubblica, 24-25 giugno 1990)
Crediti
Musica Adolfo Núñez (Ensayos), Tomás Garrido (Cantos de Morrón de la noche), Jorge Hernández Guerra (Extrìo), Francisco Luque (Reverie), Antonio Orts (Poliedrica)
Ensemble Grupo Círculo de Madrid
Direttore José Luis Temes
Interpreti Salvador Espansa (flauto), Carmen Guillem (oboe), Salvador Vidar (clarinetto), Dominique Deguines (fagotto), Adela González Campa (pianoforte), Pedro Estevan (percussioni), Rubén Fernández (violino), Francisco Sard (viola), Tomás Garrido (violoncello), Pablo Múzquiz (contrabbasso)