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Le Boléro di Ravel, Le Sacre du Printemps di Stravinskij
Villa Medici
26 luglio 1990
25romaeuropa.net

L'Orchestre National de Lille, L'African Jazz di Manu Dibango

Concerto su musica di Dibango, Stravinskij, Ravel


Un incontro raro quello avvenuto tra la musica classica occidentale, rappresentata da un portavoce autorevole come l’Orchestre National de Lille, e l’African Jazz di Manu Dibango, artista capace di mescolare creativamente le melodie tradizionali della sua terra con le suggestioni del soul e del reggae.
Situate inizialmente su due palchi distinti, le due formazioni si sono esibite alternativamente fino ad unire la propria voce nell’esecuzione di due brani di Dibango, Minya e Douala serenade, mentre il sassofono del musicista camerunese si staccava dal tappeto musicale creato dagli archi dell’orchestra.
Nel secondo tempo dello spettacolo, altro momento di incontro è stato l’esecuzione de Le Sacre du Printemps di Stravinskij, a cui il maestro Jean-Claude Casadesus ha dato il via dopo che i percussionisti africani, chiamati a dividere il palco con i francesi, lo avevano audacemente introddotto.
Il finale è spettato ad una trascinante versione del Bolero di Ravel, affidata, questa volta, alla sola Orchestre de Lille, il cui repertorio da tempo riserva un posto di primo piano alle creazioni del compositore francese.

LE BOLÉRO DI MAURICE RAVEL
di Mauro Mariani

Il ritmo domina il Boléro come la Sagra della primavera, ma in Ravel è un ritmo di elementare semplicità, che si ripete regolare e inalterabile dall’inizio alla fine, in un ossessivo ostinato ritmico, cui si sovrappone una flessuosa melodia dal sapore ispano-moresco, che viene anch’essa continuamente ripetuta (18 volte in totale): la prima volta si delinea in un pianissimo del flauto sulla scansione ancora impercettibile del tamburo (un abbinamento strumentale primordiale, usato già nei riti dionisiaci dell’antica Grecia), ma ad ogni nuova ripetizione altri strumenti si aggiungono, in un crescendo orchestrale millimetricamente dosato, fino a quando l’urlo dell’intera orchestra giunge nelle ultime battute a spezzare l’incantesimo del cerchio magico. Proprio allora, quando questo lunghissimo, estenuante crescendo, tramite una repentina intensificazione, sta per toccare il parossismo, un’improvvisa modulazione da Do maggiore a Mi maggiore – che in altri contesti passerebbe pressoché inosservata – dà libero sfogo alla tensione accumulata durante le ossessive ripetizioni.
È una struttura semplicissima, tanto che Ravel la definì “un compito di strumentazione, che qualunque allievo di conservatorio avrebbe potuto svolgere, una volta assegnatogli il tema”: ovviamente era tutt’altro che un compito facile da realizzare questo progressivo accumulo di timbri sempre nuovi, mantenendo contemporaneamente immobili tutti gli altri parametri compositivi, tanto che il compositore ricorse a strumenti di rarissimo uso nell’orchestra sinfonica (i sassofoni e la tromba piccola in Re) e recuperò non meno rari strumenti ormai arcaici (l’oboe d’amore). Ravel era il primo ad esserne consapevole, ma usava spesso le parole più per nascondersi che per rivelarsi e anche in questo caso aveva cercato di ripararsi dietro un motto di spirito. Ma forse rivela meglio le sue intenzioni una battuta sfuggitagli quando, durante la prima all’Opera di Parigi nel 1928, un’anziana spettatrice gridò: ” È pazzo!”; allora Ravel, sorridendo enigmaticamente, sussurrò agli amici che gli stavano vicino: “Quella, almeno, ha capito!”.

 

LE SACRE DU PRINTEMPS DI IGOR STRAVINSKIJ
di Mauro Mariani

Nel 1912 Diaghilev era alla ricerca di un nuovo balletto da presentare l’anno successivo nel corso della nuova stagione dei suoi Ballets russes a Parigi. Poiché Fokine l’aveva abbandonato, si rivolse a Nijinskij – che aveva fatto il suo debutto come coreografo con il controverso L’après-midi d’un faune – perché realizzasse la coreografia di questo nuovo balletto, la Sagra della primavera (Le Sacre du Printemps), di cui Stravinskij stava stendendo lo scenario con la collaborazione del pittore Nicolas Roerich, un’autorità nella Russia pagana.
Le difficoltà della partitura e gli strani movimenti coreografici richiesero innumerevoli prove (centoventi in tutto) e alla fine la prima esecuzione si svolse il 29 marzo 1913 al Teatro degli Champs-Elysées di Parigi, sotto la direzione di Monteux. Diaghilev, che aveva molti dubbi sulle reazioni del pubblico, informò Monteux che doveva andare avanti, qualsiasi cosa fosse successa in sala. Appena si alzò il sipario una parte del pubblico cominciò infatti a rumoreggiare e presto l’intero teatro era in rivolta. Diaghilev allora fece accendere le luci in sala perché la polizia potesse individuare ed espellere i più scalmanati. Ma fu inutile: appena le luci si abbassarono di nuovo, le proteste ricominciarono.
Solo con una nuova coreografia di Massine, nel 1920, il balletto fu accolto favorevolmente. Resta il fatto che la coreografia originale di Nijinskij era un tentativo di realizzare qualcosa di nuovo. Egli evocò un’atmosfera forte e primitiva, creando per i suoi danzatori movimenti pesantemente marcati, legati alla terra, spesso con i piedi rivolti all’interno: tutto era in completa opposizione ai canoni tradizionali del balletto classico. Non c’è da stupirsi se fu uno shock per il pubblico delle prime dell’epoca.
La partitura di Stravinskij mette in campo una sbalorditiva padronanza tecnica nell’uso di forze orchestrali eccezionalmente ampie (che vennero ridotte in una successiva versione) così come si avverte sempre una potente forza ordinatrice all’opera per coordinare in ogni momento l’apparente evasione dalle leggi dell’armonia e l’apparentemente perverso caos ritmico.

Rassegna stampa

“Prima parte della serata affidata al solo gruppo africano, per un set purtroppo brevissimo, animato dalle straordinarie qualità di musicista ed anche di entertainer di Manu Dibango. Una quarantina di minuti, conclusi dalla sempreverde Soul Makossa, che hanno lasciato un po’ la bocca asciutta a un pubblico folto e affettuoso che aveva appena cominciato a scaldarsi. Poco male: in realtà il piatto forte era riservato nella seconda parte.
La fine dell’intervallo vede schierata l’orchestra nella tradizionale ed elegante tenuta da concerto. Improvvisamente irrompono cinque percussionisti africani in perizoma che intonano un trascinante dialogo fra tamburi e voce, che stacca, altrettanto repentinamente, su un frammento di Le sacrifice de la terre della Sagra di Stravinskij. Perplessità. Tocca poi a due brani scritti dall’africano, Minya e Douala serenade, che ricalcano il medesimo schema: introduzione dell’orchestra, entrata del sassofonista e del suo gruppo che vengono rinforzati soprattutto dai fiati dell’orchestra, con gli archi lasciati a fare da tappeto sonoro, un po’ la funzione solitamente affidata alle tastiere elettroniche. Il rapporto tutto sommato funziona; non appare granché ardito, ma forse è già una simpatica bizzarria l’aver concepito un incontro del genere. Dibango è costretto a pigiare sul pedale morbido, romanticamente “ingenuo”, della sua musica, per lasciare spazio alle sonorità orchestrali ed evitare così asprezze verso le quali gli archi forse non potrebbero seguirlo. Un esperimento che forse merita un ampliamento e una nuova verifica, vista anche la brevità del saggio offerto in questa occasione, conclusa da un Bolero eseguito soltanto dall’orchestra. Quindi ci si chiede che senso avesse, al di là del ruolo di riempitivo”.
(Aldo Lastella, Sinfonietta africana, la Repubblica, 28 luglio 1990)

“Per i puristi era la dissacrazione del Sacre di Igor Stravinskij. Per i ventenni era una dichiarazione d’amore: tutta la musica fa la Musica, così lo slogan lanciato dagli organizzatori della Orchestra nazionale di Lille. […] D’un tratto si è udito un canto ritmato e sono entrati di corsa i sei ragazzi di Manu Dibango, il muscoloso torso nero lucido di sudore. Erano l’immagine stessa dell’allegria giovanile. Cantando, scatenati, hanno preso possesso di una infilata di autentici tam-tam africani percuotendoli con il palmo delle mani nude. E, da quell’irresistibile suono percussivo, esaltato anche da un fischietto e un campanaccio, è partito senza soluzione di continuità il fenomeno Sacre. Le Sacre du Printemps stravinskiano. Nulla poteva sfuggire alla eccitazione fisica della duplice sortita. Le Sacre era stato nel 1913 l’atto di nascita di quel che si usa chiamare la musica contemporanea con la medesima irruenza provocatoria delle Demoiselles d’Avignon di Picasso, e con la medesima giustificazione: una sorta di opera-manifesto.
Manu Dibango ne ha fatto il manifesto della fratellanza fra i popoli (e con la benedizione dell’Orchestra di Lille). Poco dopo la medesima orchestra ha accompagnato Dibango & co. in un lungo brano di puro jazz. E a questo punto, il Bolero di Maurice Ravel non è sembrato più che un giochetto da bambini europei. La barbara Russia di Stravinskij aveva vinto il tête-à-tête africano di Villa Medici”.
(Mya Tannenbaum, Due continenti in un tête-à-tête, Corriere della Sera, 28 luglio 1990)

Crediti

Ensemble Orchestre National de Lille, Gruppo di Manu Dibango, Percussioni di Manu Dibango, Percussioni del Maître Nono, Percussioni di Elima
Musica Manu Dibango (Minya, Douala serenade), Igor Stravinskij (Le Sacre du Printemps), Maurice Ravel (Le Boléro)
Direzione orchestra Jean-Claude Casadesus
Solista Manu Dibango (sassofono)