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Stockhausen, Höller e la musica tedesca d'oggi
Villa Massimo
20 luglio 1990
25romaeuropa.net

Karlheinz Stockhausen, York Höller

Concerto su musica di Stockhausen ed Höller


Tra i protagonisti di questa edizione 1990 del Festival, compare senza dubbio la musica tedesca, nuovamente in primo piano con un concerto dedicato a due influenti compositori contemporanei, da una parte un maestro come Karlheinz Stockhausen e dall’altra il più giovane (ma in rapida ascesa) York Höller. A tenerli uniti sembra essere la modalità compositiva delle due opere presentate, entrambe concepite per orchestra e nastro magnetico, anche se con esiti espressivi profondamente diversi: Höller in Umbra vuole tessere un gioco sonoro di rimandi e contrasti tra l’esecuzione dal vivo e la traccia registrata, Stockhausen, nel terzo capitolo di Hymnen, usa l’elettronica soprattutto per decostruire e nuovamente assemblare una serie di inni nazionali, ribaltando i cliché di una musica concepita per fare rapida presa sulle masse popolari. Pietra miliare dell’avanguardia del secondo dopoguerra, Hymnen (1966-69) si divide in quattro regioni, per una durata d’esecuzione di circa due ore: il concerto ne ha proposto solo la terza, comunque sufficiente a comprendere il complesso progetto del suo autore che indica, almeno nella musica, la possibilità di un fecondo superamento delle differenze e delle rivalità nazionali.
L’esecuzione è stata affidata all’Orchestra della Rai, le cui capacità interpretative in fatto di musica contemporanea l’hanno resa negli anni un ensemble apprezzato da molti compositori del secondo Novecento: a dirigerla, Ingo Metzmacher, una bacchetta che da sempre ha fatto del repertorio contemporaneo il terreno di una attenta e profonda analisi.

STOCKHAUSEN, HÖLLER E LA MUSICA TEDESCA D’OGGI
di Riccardo Bianchini

Meno di venti anni separano la data di nascita di Karlheinz Stockhausen da quella di York Höller. Ma questi anni segnano una separazione netta fra quella che si potrebbe chiamare la generazione dell’avanguardia storica e quella dei compositori che hanno iniziato la propria attività negli anni Sessanta e Settanta. Ormai la prospettiva storica inizia a permetterci di vedere gli avvenimenti musicali del secondo dopoguerra con una certa obiettività, piuttosto che con gli occhi del cronista. E, a nostro avviso, cinque nomi spiccano fra tutti: quelli di Bruno Maderna, di Luigi Nono, di Pierre Boulez, di Luciano Berio e, appunto di Karlheinz Stockhausen (per non dire di John Cage, che rappresenta un caso a parte).
Non che il livello della loro produzione compositiva sia sempre costante (e d’altra parte difficilmente si potrebbero perdonare, per esempio, a Ludwig van Beethoven opere come la Cantata per l’Imperatore Giuseppe II o La vittoria di Wellington), ma l’influenza che questi musicisti hanno avuto, nel bene e nel male, sui loro coetanei e sui più giovani segna indiscutibilmente l’evoluzione musicale della seconda metà del Novecento.
Ciascuno di questi cinque compositori ha contribuito a un particolare aspetto del pensiero musicale. Esemplificando, potremmo parlare dell’umanesimo di Bruno Maderna, dell’espressività di Luigi Nono, del positivismo di Pierre Boulez, dell’artigianato di Luciano Berio e della vocazione della ricerca di Karlheinz Stockhausen.

Stockhausen è forse, fra questi, il compositore in cui più forte è la trascendenza. Le sue musiche rimandano quasi sempre a un mondo altro, e ogni sua composizione implica una ricerca nuova. Stravinskij disse che Vivaldi aveva scritto seicento volte lo stesso concerto.
Ebbene, nella ricerca di Stockhausen c’è materiale per l’opera di tre o quattro compositori, tanto grande è in lui il bisogno di rimettersi in gioco al momento di scrivere una nuova partitura. Ed è forse questa caratteristica che rende particolarmente difficile ai compositori più giovani fare i conti senza di lui, sia che lo si accetti e lo si ammiri, sia che lo si respinga. Semplicemente, parafrasando il titolo di un celebre saggio di Pierre Boulez, Stockhausen rimane.
Dal momento che la sua carriera compositiva compie più o meno quarant’anni, ci si sente almeno parzialmente autorizzati a considerarlo da una prospettiva storica, non più solo cronistica. In questo senso si possono distinguere, anche nell’opera del compositore di Modrath, alcuni periodi. Il primo è quello del serialismo integrale, che comprende opere come Kontra-Punkte, Kreuzspiel e Punkte.

Il secondo periodo, che data all’incirca dalla metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Sessanta, ha prodotto, fra l’altro, Zeitmässe, Kontakte (nella duplice versione, per solo nastro e pianoforte, percussione e nastro), e Carré. Questo secondo periodo potrebbe essere denominato del comportamento e dello spazio, poiché i suoi tratti caratteristici sono quelli della modificazione della musica scritta (per esempio in Zeitmässe) a seconda della durata della respirazione degli esecutori.
Dalla metà degli anni Sessanta inizia il terzo periodo, che dura una diecina d’anni, e potrebbe essere chiamato il periodo mistico-trascendente. Comprende, fra l’altro, proprio le Hymnen, le due Mikrophonie, i due Momente e i sette brani di musica intuitiva Aus den Sieben Tagen. Coincide, fra l’altro, con l’affermazione internazionale di Stockhausen, che in quegli anni si recò in Giappone (dove compose Telemusik su commissione della radio giapponese), all’Università di California a Davis (ed è il 1966, l’anno delle Hymnen), e nel 1970 di nuovo in Giappone, dove all’Expo 70 di Osaka venti fra cantanti e strumentisti eseguono opere di Stockhausen per cinque ore e mezza al giorno per sei mesi, in un auditorio sferico che il compositore sognava da quasi vent’anni.

Qui è forse la chiave della comprensione di tutta l’opera di Stockhausen. Infatti le opere di questi anni, che dal punto di vista strettamente musicale non sono forse le migliori, servono a spiegare e a chiarire parecchi punti oscuri presenti anche nelle composizioni precedenti, e a penetrare più in profondità nel suo modo etico-estetico.
È forse azzardato, date le premesse di cui si diceva a proposito della prospettiva storica, comprendere in un quarto periodo le opere più recenti, fra le quali spicca, Work in progress, Licht, l’opera composta da sette giornate, e di cui conosciamo il lunedì, il giovedì e il sabato (appunto, Montag, Donnerstag e Samstag aus Licht).
Ma la chiave alla comprensione di queste e di altre composizioni di Stockhausen va proprio cercata in quel terzo periodo di cui si è detto sopra. Nel cosiddetto misticismo, per quanto concerne l’aspetto nascosto, e nell’applicazione delle formule (Formel, termine che dà anche il titolo a un brano orchestrale) per quanto concerne il dato tecnico-compositivo.

Le Hymnen, che fanno largo uso del nastro magnetico, costituiscono perciò un momento particolare della produzione di Stockhausen. L’idea generatrice è quella di utilizzare gli inni nazionali di tutti i paesi del mondo per dare vita a una sorta di musica universale attraverso la cui armonia si possa raggiungere anche l’armonia sociale e politica. L’idea porta con sé sospetti di ingenuità e a prima vista ricorda certi giochi di citazioni di cui la storia della musica pullula. Per non partire troppo da lontano (e trascurando perciò l’uso di melodie altrui e note nel tenor della musica polifonica), basterà pensare al gustoso uso che Johann Sebastian Bach fa della canzone popolare Kraut und Ruben haben mich vertriebe (“i crauti e le rape mi hanno stufato”), o alle citazioni proprie e altrui che Mozart introduce nella scena del banchetto del Don Giovanni (fra le altre, La cosa rara e “Non più andrai”), o ai Rule Britannia dei quali è condita la beethoveniana Vittoria di Wellington (una cattiva vendetta ai danni del Napoleone imperatore, dopo la nota delusione della dedica dell’Eroica), per finire con la Marseillaise e l’inno zarista con i quali Chajkovskij esemplifica, nella Ouverture 1812, le opposte forze in campo (un’altra citazione ai danni di Napoleone!).
Ma le intenzioni di Stockhausen non sono queste. Non sono quelle di rimandare, per mezzo di una melodia e dell’intreccio di più melodie tratte dagli inni nazionali, alle rappresentazioni musicali, e per traslato, a quelle sociali e politiche delle diverse nazioni. Il tentativo è piuttosto quello di comporre un’opera olistica, nella quale, cioè, il tutto sia ben più della somma delle singole parti. Anche la smisurata lunghezza della composizione completa tende, come in certe scene di Montag aus Licht, ha portare l’ascoltatore in un mondo differente, in cui non valgono più le leggi dell’ascolto musicale convenzionale, ma nel quale si richiede all’ascoltatore-officiante una percezione più psicologica che auditiva, e gli si richiede, in fondo, di sentirsi per qualche ora un iniziato.

Sarebbe estremamente scorretto parlare di Umbra, del più giovane York Höller, assumendo come termine di paragone le Hymnen, o, quanto a questo, qualsiasi altra composizione di Stockhausen. Gli anni che separano le date di nascita dei due compositori, sono gli anni dei Ferienkurse di Darmstadt, cioè quelli in cui si è radicalmente deviato il flusso della musica europea. Höller aveva meno di dieci anni quando i giovani Stockhausen, Maderna, Berio e gli altri si ritrovavano nel castello di Kranchstein, poco fuori Darmstadt, per confrontare le loro ricerche. La carriera compositiva di Höller inizia dopo, ed è, come tutte quelle dei compositori quarantenni, a un tempo più semplice e più problematica. Il periodo della cosiddetta avanguardia è concluso, sembra che si sia scoperto tutto quanto vi era da scoprire, da sperimentare tutto lo sperimentabile compresi il comportamentismo in musica, gli influssi della pop-art, l’alea e tutto il resto. Si tratta ora di fare musica, di applicare le scoperte e gli esperimenti, di cui la generazione precedente è stata fin troppo prodiga. Restano quindi da sviluppare i risvolti espressivi della musica di Höller, che sono forse il dato più interessante sotto l’aspetto dell’ascolto puro. Almeno sotto l’aspetto delle coincidenze aneddotiche, ha probabilmente un senso preciso notare come York Höller sia l’attuale direttore dello studio di musica elettronica del West Deutscher Rundfunk, cioè proprio di quello studio che fu affidato a Stockhausen per parecchi anni, e nel quale egli compose la maggior parte delle proprie composizioni elettroniche o miste (cioè per strumenti e mezzi elettronici).

Ma, come si accennava in precedenza, se Stockhausen è un ricercatore, Höller applica i risultati delle sue ricerche e di quelle dei compositori della cosiddetta scuola di Darmstadt (che scuola non fu mai), e li pone al servizio del dato espressivo. In questo, se si vuole fare un accostamento, Höller è forse più vicino alla musica di Luigi Nono. Umbra, in particolare, è principalmente giocato sul registro medio e grave, ciò che ha fatto paragonare alcune sonorità di questo brano a quelle che Wagner scrisse per descrivere Fafner. Il paragone ci sembra azzardato e anche piuttosto superficiale.
La musica di Höller, anche dove sembra solleticare gli strati più esterni della percezione musicale, non scende mai al livello di un puro effetto fonico, ma ogni elemento è perfettamente integrato nel contesto generale, e assolutamente conseguente. Höller conosce molto bene la musica che lo ha preceduto: semplicemente, dichiara che i tempi sono cambiati, e che i risultati della ricerca di venti anni di musica europea vanno ora applicati alla musica tout court.

Rassegna stampa

“La Marsigliese (ma è lei, non ci sono dubbi) sepolta sotto un cumulo di ottoni stralunati e di percussioni sghembe, l’Internazionale (eppure la si riconosce, perfettamente) nascosta dietro un grappolo di echi elettronici, l’inno americano deformato crudelmente da intervalli impossibili (ma non è Jimi Hendrix). A più di vent’anni dalla nascita le Hymnen di Karlheinz Stockhausen sono ancora capaci di tramortire, di creare vertigini e smarrimenti, di rovesciare, insomma, il rapporto “storico” tra suono e percezione, tra la musica e chi l’ascolta.
L’enunciazione, a volte cruda, a volte snaturata degli inni nazionali di diversi paesi produce, secondo una inesorabile logica matematica, moduli ritmici, melodici, armonici e timbrici sempre più avvitati su se stessi, e avvolge in questa stessa spirale lo stesso ascoltatore. […] Riascoltando venerdì sera a Villa Massimo l’esecuzione della “terza regione” di Hymnen (la versione integrale delle quattro “regioni” dura circa due ore) veniva da chiedersi quale delle “utopie” vissute Stockhausen alla fine degli anni sessanta non sia stata ancora sepolta. Scrutando il pubblico, per la verità assai scarso, chiamato nella sede dell’Accademia Tedesca da “Romaeuropa ’90” non sembrava cogliere particolari brividi utopistici.
Peccato, perché l’esecuzione offerta da Ingo Metzmacher e dall’Orchestra Sinfonica della Rai di Roma era percorsa da lucide pulsioni vitali e da impetuose correnti di energia sonora”.
(Guido Barbieri, Omaggio a Stockhausen, Il Messaggero, 22 luglio 1990)

“Perché Stockhausen ha scelto la tematica degli inni nazionali? Per la assoluta ovvietà che li distingue. Così li ha modulati e occultati all’infinito; li ha usati come simboli e come segnali. Li ha ridotti a frantumi citandoli come in una cattiva trasmissione delle onde corte. E gli inni erano anche questa volta oggetto di seduzione e di suspense. Oggetto di sfida, appunto.
C’è poi da fare attenzione all’argomento di sutura africano inserito tra la seconda e la terza regione di Hymnen per orchestra, seguito dal cosiddetto Ponte russo: sono sei minuti circa di sola musica orchestrale. La terza regione poggia su tre punti cardinali: il lento ingresso dell’inno russo, il collage dell’inno americano e across the Ocean, attraverso l’Oceano, approdando all’inno spagnolo. Che cosa si è potuto cogliere di tutto questo? Non più che un appunto alla memoria. Höller, presente al concerto, è stato molto applaudito; e Stockhausen, come sempre, inevitabilmente ammirato”.
(Mya Tannenbaum, Ha frantumato gli inni nazionali sul nastro magnetico, Corriere della Sera, 24 luglio 1990)

Crediti

Musica York Höller (Umbra, per grande orchestra e nastro magnetico, versione 1983), Karlheinz Stockhausen (Hymnen, terza regione, per orchestra e nastro magnetico)
Ensemble Orchestra Sinfonica della Rai di Roma
Direzione orchestra Ingo Metzmacher