Conosciuta per le sue memorabili interpretazioni nelle coreografie di Antonio Gades (in Italia si ricorda soprattutto la sua Carmen a Spoleto nel 1984) e nei capolavori di Carlos Saura, Cristina Hoyos propone con la sua compagnia una sorta di antologia del flamenco, la celebre danza tradizionale sivigliana che porta sui palcoscenici di tutto il mondo fin dall’età di 12 anni.
Affidato ad otto ballerini ed a Manolo Marín, con il quale la Hoyos ha curato la coreografia, lo spettacolo si articola in diversi quadri, alternando il virtuosismo delle esibizioni soliste (Farruca, Taranto, Solea por Bulerias) al respiro ampio dei numeri che coinvolgono l’intero ensemble e ne mostrano il grande affiatamento: il risultato è un percorso lungo la storia, i costumi e le emozioni di un popolo, rivissuti attraverso una danza in cui tutto ciò si è sedimentato nei secoli e di cui Cristina Hoyos rimane una delle interpreti più intense e creative.
IL BAILE INNANZITUTTO
di Elsa Airoldi
Questa volta la storia ce l’ha messa proprio tutta. Solo s’è permessa di distrarsi, di prendere sotto gamba quel “particulare” che è la trovata del pensiero di Guicciardini. Insomma non ha fatto i conti con l’hispanidad: orgoglio che non cede, non arretra, non demorde. Così, se da un lato, pur davanti all’evidenza di apporti arabi e indiani piuttosto che ebraici o persiani, molti preferiscono credere alla totale autonomia culturale spagnola, e se addirittura il musicologo Felipe Pedrell, analizzando l’enigmatico cante hondo, suggerisce l’idea dei mori che attingono dalla Spagna e non già di quest’ultima che ne subisce l’influenza, noi, che oggi parliamo di danza, ci troviamo a osservare come il baile della piazza abbia sempre prevaricato ogni diversa espressione del genere.
La storia, che non voleva escludere la penisola iberica dal gioco di scambi che ha connotato l’Europa, ha provveduto a dare madri e mogli spagnole a Luigi XIV di Francia; a consegnare due spose italiane a Filippo V di Spagna; a insediare nell’Escurial un Carlo III che arrivava dall’Italia. Il che avrebbe dovuto significare una linea comune di danza colta (quella accademica) parallela alle relative etnie rimaste appannaggio del popolo.
A fasti e amori dei coronati, in buona parte riferita a essi, è dovuta poi la presenza nel paese di personaggi specificamente legati alla storia evolutiva del balletto. Salvatore Viganò, grande innovatore napoletano di origine reggiana, arrivato a Madrid per l’incoronazione di Carlo IV, vi trova moglie (la mitica Maria Medina) ed il maestro, il “riformatore” Jean Dauberval. Più tardi, a formalizzazione accademica ampiamente avvenuta e anzi in procinto di sgretolarsi, vediamo vagare per le pianure mancheghe Marius Petipa. Insomma per la Spagna ci passarono tutti, ma nessuno riuscì a intaccare un folclore che ancora oggi pare avere la meglio su ogni altra realtà.
Le ali di elfi e silfidi divennero mantiglie, il morbido ballon dei principi violenza di zapateado, il candore dei tutù trionfo di balze e frange. Nacque l’affascinante ibrido chiamato “scuola bolera”. Quando in fine, ansanti, approdarono alla ribalta alcuni balletti “spagnoli”, tutto era perfettamente ispanico: dalla musica di Manuel de Falla, al libretto di García Lorca, al tipo di satira sociale, al rito del fuoco e degli incantamenti. È ben vero che anche l’opera, o il repertorio cameristico e sinfonico, una volta allontanatisi dalla culla d’origine si tinsero delle peculiarità dei nuovi paesi di migrazione. Ma crediamo che in nessun caso gli apporti estranei abbiano subito un simile processo di personalizzazione.
Nella Spagna di oggi esistono fior di scuole accademiche. Ma non riescono a convincere; nemmeno quando si chiamano Ballet del Teatro Liríco Nacional diretto da Maja Plissetskaja, il fiore all’occhiello della ufficialità classica facente capo al Teatro Lirico della Zarzuela; l’altra faccia del Ballet Nacional de España di José Antonio dedito al baile.
Nemmeno quando, preceduta da impressionante battage, arriva a Spoleto una Maria Esturdo che fa vaneggiare la stella sovietica Maja sotto la bacchetta delle coreografie di José Granero. I ballerini spagnoli dediti al classico insomma non sono convinti di quello che fanno. Non lo sentono. Qualcuno in effetti è riuscito ad accettare la stilizzazione edonistica dell’accademia. Ma appena ha potuto non ha esitato a cercare respiro in quelle strutture che utilizzano il classico per dire cose concrete, per trasformarlo in violenza espressiva. Victor Ullate è stato a lungo con Béjart. Ana Laguna e María Bianco hanno sposato il grido di Birgit Cullberg; Nazareth Panadero la lacerazione esistenziale di Pina Bausch. Quasi una questione di pelle.
La Spagna non vuole accettare gli intellettualismi costretti e indubbiamente restrittivi di casa ovunque, nel vecchio come nel nuovo mondo, vittoriosi persino dell’italico individualismo. Parliamo di un paese passionale che si identifica nelle sue liturgie. Nella tauromachia, per esempio, la festa dei tori. Una sorta di messa dove si adora e si sacrifica al dio e dove l’officiante, l’uomo in lotta con la bestia, obbedisce a un calligrafismo gestuale assai vicino a quello che regola il baile.
In arena come nella cueva gitana si celebrano le categorie dell’assoluto: bellezza, gioventù, grazia, eroismo, onore, amore. E Lorca, che ha cantato il toro e Ignacio, come avrebbe potuto, in un’altra terra, dire i simboli scarnificati di un’infanzia trascorsa nella campagna granadina? Come il sole, la luna, il cristallo, il Guadalquivir delle stelle? Dove se non qui avrebbe potuto nascere la violenza luministica di Zurbarán, la visionarietà di El Greco, l’allucinazione di Goya, la radicalità goticheggiante del Gaudí?
In questa terra assoluta e assolata pare esserci spazio solo per il sentire. Un sentire forte, che si esprime a tutto tondo. Finora era stato lo straziante e fatale vocalizzo hondo. Adesso si affaccia un sentimento più universalizzato, che racconta ancora la sua terra ma con parole raccolte affannosamente in tutti i centri disponibili sparsi nel mondo.
È una Spagna nuova che si cerca per trovarsi: senza la rassegnazione fatale di sempre. L’epicentro del terremoto ancora timido e in molti casi ancora malato di hispanidad è la Catalogna, in particolare Barcellona. È lì che sul finire degli anni Settanta Anna Maleras apre il primo centro di danza jazz e moderna, invita coreografi stranieri e forgia i primi allievi: Francesco Bravo, Cesc Gelabert, Avelina Argüelles. Lì nascono i primi gruppi, come l’Espantall (1977) e la Heura (1979), già ora cancellati da una mappa appena tracciata dove le strade sono solo abbozzate e non conoscono futuro e destinazione.
I nuovi cercatori di Dio vanno in Europa, in America e poi tornano. Si uniscono e disgregano. Qualcuno ha più fortuna, o parla più forte. Come Cesc Gelabert che, di ritorno dagli Stati Uniti, costituisce una compagnia con Lydia Azzopardi, artista di nazionalità inglese che insegna all’Istituto del Teatro di Barcellona (uno degli spazi più importanti accanto a La Fabrica e a Bügé). La Cesc Gelabert y Lydia Azzopardi Companya de Dansa debutta nell’86 con Desfigurat per realizzare poco dopo una versione del Requiem di Verdi.
È grido, trasgressione, denuncia. La violenza allucinata non è troppo lontana da quella provocata da un altro gruppo catalano, La Fura dels Baus, il “topo del baus”, il torrente che passa per il quartiere barcellonese di Moía. Il 1983 assiste, sempre a Barcellona, alla nascita di lavori fondamentali: Casc Insólit di Nuria Olive, Duna di Angels Margarit, Avui dimars i demá dimecres di Avelina Argüelles. I nomi si moltiplicano e le compagnie proliferano. Arrivano anche i primi riconoscimenti internazionali spesso sanciti da festival francesi.
Fino a oggi l’unica rassegna dedicata alla Spagna nella sua totalità coreografica, dalla Plissetskaja a José Antonio attraverso vari saggi di sperimentazione, è stata promossa da Reggio Emilia nell’88. È in quell’ambito, Bailar España, che il nostro pubblico può avvicinare Mudances della Margarit, Bocanada Danza di Blanca Calvo e María José Ribot, la Compañia de Dansa di Carmen Senra o la Herencia Dux di Maria Muñoz e María Antonia Oliver Ribas. Si parlano tutte le lingue, con arte più o meno matura. E in fondo si sente sempre, ancora, la Spagna.
CRISTINA POR CRISTINA
di Cristina Hoyos
Per me, che non sono donna di teoria, spiegare che cosa significa il flamenco è come decifrare un enigma. Tanto meno so perché l’ho incontrato, o quali forze propizino la fusione di un’arte con un individuo, creando un certo modo di sentire, ma nel mio intimo penso che sia stato il ballo a cercare me.
Da piccola, chiusa in una stanza davanti a uno specchio e con la complicità di una radio, benché non ne fossi ancora consapevole, ero già destinata a vivere di e per il flamenco. Non ho mai pensato che la danza sarebbe diventata per me più importante di qualsiasi altra cosa, e che mi avrebbe portato a una tale ansia di conoscere, di bere da tutte le fonti possibili, di moltiplicare lo spettro di vedute in tutta la sua grandezza.
Il mio affanno è stato quello di abbracciare nuove essenze, di investigare fra le antiche tradizioni, di indagare alle radici per cercare nuove forme, sempre con un’idea fissa: bisogna lavorare, imparare qualcosa di nuovo ogni giorno, e ogni giorno fare il conto di quello che ancora non si sa; così sono giunta a una sensazione che non assomiglia a nessun’altra: un miscuglio di passione e di dolcezza che alla fine, nel momento stabilito, con scene, luci e pubblico, crea il romanzo fra me e lui – il flamenco -, soli nella realtà.
Non potrei descrivere che cosa sia.
Il flamenco non è qualcosa nella mia vita, esso vive in me e la mia vita è il flamenco.
CRISTINA HOYOS, L’INCONSCIO DELLA SPAGNA
di Elsa Airoldi
Alla ribalta di Romaeuropa si affacciano due Spagne apparentemente antitetiche; quella antica, spontanea e radicata del folclore e l’altra, ancora giovane e non ancora affrancata della sperimentazione. La prima è rappresentata da Cristina Hoyos, la seconda dal gruppo Lanónima Imperial.
Cristina la conoscono tutti, e la ricordano indissolubilmente legata ad Antonio Gades del quale è stata partner artistica per quasi vent’anni. Pochi, crediamo, hanno potuto vederla bambina per le vie di Siviglia, né adolescente e già esperta bailaora flamenca. Come sono ancora scarsi coloro che l’hanno potuta ammirare nel nuovo ruolo di direttore della sua compagnia.
In tale veste, tuttora intrisa del modernismo surreale che costituisce il momento insuperato e insuperabile della poetica di Antonio, Cristina sta cercando la propria individualità. Sta continuando il processo di maturazione personale interrotto allorché Gades la elesse come estrella per forgiarla a propria immagine e somiglianza. Il distacco dei due artisti forse era destinato, forse necessario perché Cristina Hoyos potesse finalmente parlare con la sua voce. Certo non sono mancate delle cause occasionali, degli screzi, delle incomprensioni. Il tutto, come da copione, sul set. Gli ultimi tre lavori di Gades in ordine di tempo, Bodas de Sangre, Carmen e Fuego, hanno anche una veste cinematografia a cura del regista Carlos Saura.
La frattura, per quanto se ne sappia, comincia proprio con l’avvento di Saura, che in Carmen Story (tale il titolo di Carmen-film) predilige a Cristina, Laura Del Sol. Una ragazza dalla bellezza prorompente che tuttavia non basta a cancellare la nostalgia per arte e passionalità di Cristina.
Successivamente, in El amor brujo (altra pellicola di Saura-Gades) Cristina e Laura appaiono entrambe. Quanto alle versioni teatrali, le più recenti riprese di Carmen sono affidate a Stella Arauzo, anche protagonista femminile del recente Fuego. Ma la punta di diamante, l’alfiere del sentire iberico, il momento d’arrivo della lunga tradizione popolare rimane sempre lei. Sempre Cristina, il cui volto conosce nella recita i colori toccanti della tenerezza e dell’elegia. Il cui corpo, dalle linee segnate che sanno di terra, diventa in scena guizzo di anche, lame di braccia, immobilità scultorea di un busto che pare ignorare il fremito del taconeo. Il tipo di bellezza remota e un po’ arcaica ha inciso a tutto tondo la nóvia di Nozze di sangue, ha esasperato, in Carmen, l’eterno femminino; la femminilità fatta non tanto di sensualità o avvenenza quanto di delirio di libertà. Lo stesso che vieta l’eroina a se stessa e agli altri: rendendola martire e parente agli dei. Ecco, Carmen: la vediamo ancora fiammeggiare nella bodega arredata di povertà, battuta dal ritmo inesorabile delle mani, dei piedi, dei bastoni che percuotono la terra. Segnata dal fato e dalla catarsi che precipita l’azione verso la morte.
La nuova Cristina Hoyos non potrà essere molto diversa dall’immagine che abbiamo scolpita nella memoria. Sarà semplicemente “nuova”, costruita da pulsioni che le appartengono da sempre e dalle quali, nel bene e nel male, Antonio Gades l’ha sottratta ancor prima ch’esse affiorassero a livello conscio.
Rassegna stampa
“Una pioggia fitta e minuta ha colto Cristina Hoyos nel suo secondo assolo, una Solea per bulerias. Quasi per contrastare la pioggia la ballerina Sivigliana ha infuso ancora più passione, sentimento e grinta alla sua danza. Ma non c’è stato nulla da fare: lo spettacolo si è dovuto interrompere e il pubblico, che riparandosi con mezzi di fortuna ha continuato a battere i piedi sugli spalti applaudendo entusiasta, ha dovuto lasciare Villa Medici senza assistere al finale.
Il successo dello spettacolo è dovuto alla danza flamenca, alla sua miscela esplosiva di danza e passione, sensualità, potenza espressiva, nobile eleganza, musicalità e virtuosismo che coinvolgono lo spettatore più disattento. Ma soprattutto alla forza carismatica di Cristina Hoyos, la più grande ballerina della danza iberica […].
Come già Gades, Cristina Hoyos stilizza la danza in modo rigoroso, asciutto, essenziale. Le sequenze danzate dei ballerini sono di una precisione matematica, tanto che, nei momenti di gruppo, gli interpreti sono talmente affiatati da sembrare copie di un unico individuo. Forse il flamenco della Hoyos è meno spettacolare e selvaggio delle esibizioni gitane. Mancano le grida, gli “olè”, ma certamente è più moderna e raffinata che folcloristica o pittoresca, e non per questo meno intensa.
Alla Hoyos non servono i virtuosismi da baraccone per esprimere l’autorità , la rivolta, l’attesa, il desiderio, la speranza, la disperazione: le basta un giro secco finito con le braccia alzate, uno sguardo, un cenno rapido della testa per esprimere un universo di sentimenti, per creare un evento irripetibile, per dare vita a un’arte unica che, come dice Federico Garcia Lorca, “scomparirà con ognuno di loro e nessuno potrà mai imitare””.
(Francesca Bernabini, Ballano con il cuore, gli “olè” non servono, Corriere della Sera, 13 luglio 1990)
“La serata propone una sequela di danze folcloristiche, farruche, Tangos, Alegrias, Bulerias, assoli, danze in coppia o d’assieme che tormentano i corpi in spettacolari spirali di corteggiamento o di contrapposizione tra i due sessi che si fronteggiano ad armi pari: la linearità dinamica degli “hombres” e la sinuosa morbidezza delle “mujeres”, sul tappeto improvvisato di tocaores e cantaores. Un ballo che sa di antico, di secolare, una tradizione assimilata col latte materno. La giovane compagnia dimostra grande affiatamento e concentrazione, senso innato del ritmo, musicalità del movimento, capacità di travolgere gli spettatori in un narcotizzante aroma. Alla fine gli applausi generosi sono per tutti, ma gran parte del pubblico è già sciamata sotto una irritante pioggerella estiva giunta tanto per spegnere il “caliente fuego””.
(Lorenzo Tozzi, I sogni flamenchi di Cristina Hoyos, Il Tempo, 14 luglio 1990)
Crediti
Regia Cristina Hoyos
Coreografia Cristina Hoyos, Manolo Marín
Ensemble Ballet Cristina Hoyos
Musica Arringa, Fraire, Hoyos
Costumi Justo Salao, Cornejo
Luci Paco Donis
Suono Jesus Molina
Danzatori Cristina Hoyos, Juan A. Jemenez, Juan Parades, Juan Ortega (Segurilla – Lamento), Fernando Romero (Farruca Sobriedad), Manuela Reyes, Macarena Bejar, Rosario Cala (Bamberas – Ensueño), Manuela Reyes, Macarena Bejar, Rosario Cala, Charo Cruz, Juan A. Jemenez, Juan Parades, Juan Ortega, Fernando Romero (Tangos – Misterio), Cristina Hoyos (Taranto – Pasión), Manuela Reyes, Macarena Bejar, Rosario Cala, Charo Cruz, Juan A. Jemenez, Juan Parades, Juan Ortega, Fernando Romero (Alegrias – Compas), Cristina Hoyos (Solea por Bulerias – Solera), tutta la compagnia (Bulerias – Jubilo)
Musicisti Arriaga (chitarra), Franco (chitarra), Eugenio Iglesias (chitarra), Juan José Amador (voce), El Extremeno (voce), Manolo Se villa (voce)
Produzione tournée italiana in collaborazione con ATER, Associazione Teatri Emilia Romagna