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Vialla Medici
6 Luglio 1995
25romaeuropa.net

Orchestra Guido Cantelli / Direttore Alberto Veronesi

Conceto su musica di Perezzani, Gervasoni, Corghi, Schönberg


Il maestro Alberto Veronesi presenta con la sua orchestra un concerto fortemente intriso di letteratura: le opere, ispirate a branni, versi e suggestioni letterarie, ricreano un affascinante percorso attraverso la musica novecentesca e le sue grandi rivoluzioni sonore, svelandone anticipi e riappropriazioni, tra brani storici e nuove composizioni.
Dopo l’apertura con Amore e Addio di Paolo Perezzani, una “ricerca di pace” ispirata all’opera di Rilke, che del poeta abbraccia musicalmente la tensione verso un equilibrio umano mitico (e proprio per questo scomparso e forse impossibile da raggiungere di nuovo), si sono succedute, nell’attenta esecuzione dell’Orchestra, Animato di Stefano Gervasoni, perfetto esempio di una rivisitazione personale del minimalismo delle avanguardie contemporanee, senza eccesso di formalismo, ed Il pungolo di un amore di Azio Corghi che, nato attorno ad un frammento (“Era appunto ciò che mancava alla vita, che la vita aspettava: l’ebbrezza”) de Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso, affonda la propria struttura nell’esplicito riferimento al Concerto solistico vivaldiano. A chiudere la serata le note di Verklärte Nacht (Notte Trasfigurata), una delle prime composizioni importanti di Schönberg (Vienna 1874 – Los Angeles 1951), un “poema sinfonico” che, nato nel 1899 sotto l’influsso di Wagner e di Mahler, ed ispirato ad una poesia di Richard Dehmel, anticipa quei caratteri espressionisti che si affermeranno più tardi in opere come Pelleas und Melisande (1902-1903) o i Tre pezzi per pianoforte op. 11 (1908-1909), tappe importanti nel processo di dissoluzione della tonalità in direzione di quella che il compositore amava definire “pantonalità”.

Musica Paolo Perezzani (Amore e Addio, per undici archi, 1988), Stefano Gervasoni (Animato, per otto strumenti, 1992), Azio Corghi (Il pungolo di un umore, concerto solistico per oboe e archi, 1990), Arnold Schönberg (Verklärte Nacht op. 4, per orchestra d’archi, 1899)
Ensemble Orchestra Guido Cantelli
Direttore Alberto Veronesi
Oboe Francesco Quaranta
Durata 70′
Intervallo 15′

 

AMORE E ADDIO DI PAOLO PEREZZANI

“Non vi stupì sulle attiche stele, la discrezione / del gesto umano? E come posa lieve / sulle spalle Amore e Addio, come se fosse / d’altro che da noi? Rammentate le mani, / come posano senza peso, e si che nei torsi c’è vigore. / Questi maestri della misura sapevano: noi arriviamo fin / qui, / questo è nostro, di toccarci così, più forte / ci gravano gli Dei. Ma è cosa degli Dei. / Lo trovassimo anche noi un umano / puro, contenuto, ristretto, una striscia nostra di terra / feconda / tra fiume e roccia. Perché il nostro cuore ci trascende, / ancora, come il loro trascendeva loro. Ma non possiamo / più / perseguirlo in immagini dov’esso si plachi, né / in corpi divini dove, più grande, si moderi”.

(Reiner Maria Rilke, estratto dalla Seconda Elegia Duinese, traduzione di Enrico e Igea De Portu, per gentile concessione della Casa Editrice Einaudi)

Non è possibile esprimere con parole più pure ciò che il poeta ci dice in questi versi che chiudono la Seconda Elegia: cogliamo in essi il rimpianto nei confronti di un equilibrio e di una “misura”che non ci appartengono più e, nello stesso tempo, vi percepiamo come un auspicio affinché anche a noi sia concesso di trovare una nostra, pur precaria, striscia di terra feconda. Individuare e poi abitare quel luogo, tra fiume e roccia, è il difficile compito che ci attende quando ci decidiamo a voler porgere ascolto e poi anche a voler dire “il nostro cuore che ci trascende”. Anche la composizione di questo lavoro ha rappresentato per me una sfida: quella di poter dare forma di immagine sonora ad uno slancio destinato ad inevitabile oblio, qualora venisse a mancare una qualche umana misura in grado di articolarne il vigore. Che almeno possa apparire, darsi musicalmente, pur nella sua non più domabile ansia.

 

ANIMATO DI STEFANO GERVASONI
di Carlo Migliaccio

Ciò che caratterizza le composizioni di Stefano Gervasoni è sia la minuziosa attenzione al dato sonoro – che gli deriva da una non superficiale familiarità con le estetiche dell’avanguardia – sia la costante ricerca di un senso che possa conferire valore qualitativo al materiale sensibile musicale. Ciò lo porta a scandagliare le più riposte possibilità di sfruttamento degli strumenti compositivi e degli elementi espressivi di cui dispone. Anche minime situazioni, apparentemente insignificanti, divengono fonte di molteplici sollecitazioni, indici di un’apertura non pregiudiziale a dimensioni significative ulteriori rispetto alle strettoie in cui Fattuale saturazione linguistica costringe la composizione.
Tecniche, forme e singole configurazioni musicali, siano esse radicalmente inedite o desunte dalla tradizione, non esauriscono la loro funzione strutturale nella pura e semplice evidenza fenomenologica ne nella loro contestualizzazione linguistica, ma divengono via via che si presentano pretesto per un continuo esercizio di osservazione e di galvanizzazione, un esercizio che egli stesso definisce “microscopico” e “anamorfico”. In tal modo la sua poetica rifiuta i gesti plateali e magniloquenti, e il suo fare compositivo è quasi tutto al limite della brachilogia e di un’ascetica rinuncia all’immediatezza.

Lo “sguardo” del compositore, pur sempre finemente analitico, non è diretto ma divergente, non unilaterale ma obliquo; così, nella sua peculiare marginalità e nel suo essere scevro da ogni condizionamento esteriore, esso risulta più perspicace, più acuto nel cogliere gli oggetti nella loro irriducibile singolarità, nella loro irripetibile collocazione temporale, prima che divengano preda di un’astratta generalizzazione e di una statica e intellettualistica formalizzazione. In ciò Gervasoni si differenzia rispetto sia alle esperienze più storicamente radicate della musica contemporanea sia a ogni tentazione pseudo-sociologistica, volta ad adescare con facili mezzi i gusti del pubblico.