Newson su Enter Achilles
Trombetta su Newson e DV8
Regia Lloyd Newson
Interpreti Dv8 Physical Theater (Gabriel Castillo, Paul Clayden, Chris Haring, Ross Hounslow, David Mccormick, Michael Ashcroft, Robert Tannion, John Paul Zaccarini)
Designer Ian Macneil
Compositore Adrian Johnston
Disegno luci Jack Thompson
Disegno suono Michael Casey
Manager di produzione Steve Wald
Tour manager Matthew Cole
Operatore suono Mike Beer
Capo elettricista Dexter Tulett
Manager tecnico di palcoscenico Will Harding, Al Mcleod
Assistente regia Liam Steel
Direttore di prove Kate Champion
Assistente di produzione Joanne O’Connor
Assistente scenografo Tim Sykes
Costruzioni sceniche Simon York, Miraculous Engineering
Macchinari aggiuntivi Delstar Engineering Ltd
Direttore generale Leonie Gombrich
Amministratore Katie Judge
Costumi Christopher Oram
Creato con Gabriel Castillo, Jordi Cortes-Molina, David Emanuel, Ross Hounslow, Jeremy James, Juan Kruz Diaz De Garaio Esnaola, Liam Steel e Robert Tannion, con la regia di Lloyd Newson
Progetto Artsadmin Associated
Co-produzione Wiener Festwochen e South Bank Centre con Dance Umbrella, con il contributo di Bayerische Staatsoper/Labor; Bayerisches Staatsschauspiel/Marstall
Che Enter Achilles sia uno spettacolo unico lo testimonia il fatto che, nato nel 1995, calca ancora il palcoscenico, richiestissimo dai teatri: contravvenendo alla normale abitudine del gruppo infatti, Newson ha accettato di riprenderlo e rimetterlo in scena.
Cosa ha dunque di così epifanico da essere richiesto con tanta insistenza?
Le performance del gruppo di Newson, i DV8 (che sta per “Dance and Video 8”, ma suona come “deviate”), sono da sempre straordinarie letture della società che si muovono fra ironia e crudeltà, sogno e realtà, rivelando e lasciando emergere ciò che spesso non piace vedere: “mi sono reso conto”, dice Newson, “che i valori e i principi politici dei DV8 non saranno mai quelli della maggioranza. E non mi interessa che lo siano anche se questo vuoi dire perdere grandi somme di denaro e avere un’audience più piccola”.
Enter Achilles scava attraverso i sentimenti, i pensieri e le azioni che, considerate poco virili e quindi nascoste dagli uomini, si mostrano solo in determinati modi e circostanze. Quali possono essere le azioni compensative che gli uomini sono costretti a compiere quando negano i propri sentimenti? In 75 minuti, nello spazio circoscritto di un pub, otto danzatori esplorano – tra birra, partite a freccette, e bambole gonfiabili – tutti gli stereotipi della virilità con crudezza e ironia. Benché la messa in scena carichi tutti gli elementi presenti (il bicchiere come il suo contenuto liquido) di una simbolismo sopra le righe che richiama violentemente l’immaginario omosessuale, lo spettacolo, osservato ad un livello più profondo, è un’esplorazione della virilità a tutto campo che mette in collisione ciò che è più intimo e personale con ciò che invece appartiere all’immagine stereotipata. Ne nasce un affresco crudele e per nulla incline ad atteggiamenti di comprensione e giustificatori che svela gli aspetti e le manifestazioni della sessualità maschile, tanto quelli istintivi quanto quelli condizionati dalle regole del contesto sociale.
La versione video dello spettacolo, diretto da Clara Van Gool e commissionato per conto della BBC) è stata pluripremiata.
Archivio Romaeuropa Festival
1998 – ENTER ACHILLES
SU ENTER ACHILLES
di Lloyd Newson
Il nostro scopo è di mettere in risalto i sentimenti, i pensieri e le azioni considerate poco virili e quindi nascoste dagli uomini che si mostrano solo in determinati modi. Quali possono essere le azioni compensative che gli uomini devono compiere quando negano i loro senti menti? L’atteggiamento non virile è spesso considerato spaventoso, particolarmente da chi ha rigidi preconcetti riguardo a come un uomo dovrebbe comportarsi. Perché la non-conformità dovrebbe produrre così tanta ripugnanza e paura? Forse riflette la fragilità dell’identità virile che tradizionalmente ha a che fare con il controllo – gli uomini controllano se stessi e quindi hanno bisogno di controllare gli altri. Gli uomini hanno storicamente oppresso le donne, ma la questione posta nel nuovo lavoro dei Dv8 è: quanto gli uomini sono stati oppressivi nei confronti di loro stessi? La rigida giacca della mascolinità si definisce nei “non”: non camminare così, non indossare certi capi o certi colori, non mostrare certi sentimenti. Non è che gli uomini non esprimano sentimenti, è solo che quelli che mostrano spesso non sono quelli che realmente provano. È questo un problema? O è l’ennesima grossolana generalizzazione? Interrogandosi sui confini tra il personale e lo stereotipo, i DV8 mettono otto uomini in un pub per una notte e giocano sulla linea sottile tra realtà e fantasia – sta a voi dire qual è la differenza. Attraverso la danza, i DV8 intendono rivedere le interazioni tra i maschi. Usando un bar come punto di partenza, osserveremo come la pinta di birra, spartita tra gli uomini, possa diventare una metafora della fluidità corporea/nostra sorgente di vita, e come le qualità del bicchiere possano rappresentare la nostra rigidità, fragilità e trasparenza. Con la giustapposizione di elementi come intossicazione/sobrietà, tenerezza/rigidità, dritto/curvo, bello/violento, speriamo di scoprire ciò che unisce gli uomini piuttosto che porli uno contro l’altro o contro se stessi. Questo lavoro si presenta come una risposta poetica, abbracciando tali complessità e contraddizioni piuttosto che riflettere teorie didattiche. L’opera si concentrerà sulla sfera personale in relazione ad immagini stereotipate, estrapolando dalle esperienze individuali il vocabolario della personalità e del movimento di ognuno dei performer.
(in Catalogo Romaeuropa Festival 1998)
Rassegna stampa
“L’atmosfera della pièce è quella di un pub superaffollato, opprimente e un po’ claustrofobico. Operai, gente comune e uomini qualunque che si divertono, fumano e bevono, si pavoneggiano, si guardano l’un l’altro, mascherando le loro frustrazioni fin troppo sopite, le loro debolezze, la loro impotenza attraverso lo scherno e la burla che assume toni indistinguibili eppure violenti, fino a rasentare il desiderio di appartarsene. Ed il pubblico sorride, si commuove, si immedesima, si entusiasma, applaude e scarica rabbia e tensioni. Una performance veramente catartica, come dovrebbe sempre essere uno spettacolo, inteso non soltanto al semplice divertimento, ma a suggerire le riflessioni che sceglie un intrattenimento piuttosto che un altro”.
(Carmela Piccione, Con Enter Achilles il mito entra nel pub, Il Tempo, 5 novembre 1998)
“Enter Achilles è uno spettacolo-bomba, un teatro fisico che trasuda sudore, sesso, machismo e violenza, senza rinunciare a lampi d’ironia o improvvisi squarci poetici. […] Un affresco minuzioso, e, a tratti, impietoso, di maschi incapaci di rivelare tenerezze e vulnerabilità senza passare alla violenza e alla sopraffazione. Al pub come in caserma, carnefici o vittime di comportamenti condizionati, il gruppo precipita nella spirale della violenza fino al grottesco finale, in cui viene “sacrificata” la bambola-oggetto del desiderio di uno dei ragazzi. Una parabola tragica che si allarga a rappresentare un’umanità alienata, l’uomo-massa incapace di riscattare i suoi sentimenti. Epilogo amaro ma con una vena di speranza: la visione fuggevole della bambola tornata “in vita” come Petrouchka”.
(Rossella Battisti, Birra, machi e sesso – Al pub con i Dv8, l’Unità, 11 novembre 1998)
“Ogni possibile tipologia di approccio, di conoscenza e di espressione prende forma in quel pub rigidamente separatista. Il contenitore scenico scopre anzi prospettive di continuo mutamento attraverso il bancone, il suo tetto, le sue aperture. Dolcezza e violenza, imbarazzo e sfrontatezza, gioco puro e seduzione elaborata si presentano e si ritraggono, ed è l’interesse maggiore dello spettacolo questa capacità di articolazione di una gamma che solo tra un gruppo chiuso può scatenarsi. E continuamente ribaltarsi, se colui che sembra il più debolino e “imbranato” davanti al machismo di altri, può svelare sotto la camicia la calzamaglia di Superman. Ed è ovvio che gli ultrapoteri si scateneranno per tutti in ulteriori e strabilianti numeri coreografici. Il divertimento e l’ironia marciano veloci e inarrestabili, rendendo esplicita l’origine professionale di Lloyd Newson che ha cominciato nel suo paese come psicologo (curiosamente anche Alain Platel prima di approdare al teatro si occupava come logopedista di reinserimento). Ma la drammaticità esplode nella sequenza finale, dopo che a più riprese uno di loro aveva mostrato in un angolo, dentro una cabina di vetro, i propri desideri e pratiche domestiche nei confronti di una bambola life size. Lo stupro e le sevizie violente a quella bambola sono una doccia fredda per lo spettatore, ma costringono i “personaggi” a uscire dal gioco e dalla eccessiva simpatia che hanno suscitato. Bisogna fare i conti con la realtà, non solo “Tra Achilli” del desiderio e della mitologia”.
(Gianfranco Capitta, “Enter Achilles”, maschi seduttivi e violenti, il Manifesto, 10 novembre 1998)
LLOYD NEWSON E IL DV8 PHYSICAL THEATER
di Sergio Trombetta
Hai una bambola gonfiabile? C’è qualcuno fra i tuoi amici che la possiede? Se l’avesse, lo direbbe? Che cosa significa essere uomo? Al di là del genere anagrafico, in che cosa consiste l’identità maschile? Riassumendo, e banalizzando, le teorie di Elisabeth Badinter, l’identità femminile si forma naturalmente; quella maschile è invece frutto di una costruzione artificiale, sottoposta a riti iniziatici, che poggia soprattutto su divieti: se non vuoi sembrare una femmina non camminare in quel modo, non parlare così, non vestire con certi colori, non mostrare certi sentimenti. Un’identità fragile, dunque, che ha costretto da sempre gli uomini a reprimere se stessi e quindi gli altri. Questo reciproco controllo poliziesco porta alla intimidazione, al mettere in ridicolo il diverso. La non conformità produce disgusto, paura, reazione violenta. Ci sono sacri recinti, esclusivamente maschili, in cui gli uomini mettono a prova la propria identità: i bar, le birrerie, i pub. Raccontare in uno spettacolo di danza, o meglio, di teatro gestuale, di teatro fisico, le dinamiche di confronto e sopraffazione, di autorepressione e adeguamento comportamentale è stata la scommessa vincente di Lloyd Newson con Enter Achilles, lo spettacolo più conosciuto e amato dei Dv8. Uno spettacolo che denuncia la propria doppiezza sin dal titolo, dove Achilles è il nome del pub in cui si entra, ma la frase in inglese è leggibile anche come penetrare Achilles. Un gruppo di uomini in un pub inglese, dunque. Juke box che suona e tv che trasmette football. C’è tensione, ambigua “camaraderie” e insicurezza, la debolezza è brutalmente sfruttata e la violenza nasconde vulnerabilità.
Emozioni, attrazioni, sentimenti devono restare segreti. E il gioco spesso consiste nel lasciar andare avanti l’altro, fargli credere che ci stai e poi, quando lui si lascia andare, picchiare duro. E l’amore con una bambola gonfiabile, più tranquillizzante della donna vera che chiama e lascia messaggi sulla segreteria, deve restare una vergogna che non trapela E la birra che scorre è simbolo della nostra liquidità corporea, i bicchieri di vetro rendono l’immagine della nostra fragilità.
Non si può certo dire che Enter Achilles, nato nel 1995 (presto portato sullo schermo dalla regista olandese Clara van Gool, un video che ha fatto incetta di premi), sia stato lo spettacolo rivelazione del coreografo Lloyd Newson e dei DV8, attivi da oltre dieci anni sulla scena inglese. Ma sicuramente è il titolo che più ha contribuito a far conoscere coreografo e compagnia. Tanto che a tre anni dal debutto è ancora vivo; anzi, torna a grande richiesta. “Occorre ridefinire la nozione di danza: quale deve essere il suo aspetto, come deve muoversi, sino a che punto danzatori vecchi, grassi e disabili devono essere incoraggiati a danzare e a parlare delle loro vite?”, si domanda Lloyd Newson, e aggiunge: “Molte delle cose di cui mi occupo sono spesso considerate tabù sociali. Ma sino a quando non ci si interroga su questi temi e non li si esamina, mi sembra che la società non possa progredire”.
Nasce in Australia, Lloyd Newson, e ha una formazione di psicologo. Proprio mentre completava i suoi studi in psicologia a Londra è nato l’interesse per la danza che lo ha portato a studiare alla London Contemporary Dance School. Dal 1981 al 1985 è danzatore e coreografo all’Extemporary Dance Theatre durante il quale lavora con coreografi come Karole Armitage, Michael Clark, Daniel Larrieu. Dal 1986 decide di staccarsi dalla compagnia e lavorare da solo con un proprio gruppo. Nasce così il DV8 Physical Theatre; un termine, “teatro fisico”, ispirato alle teorie di Grotowski e che Newson ha meditato a lungo prima di adottare perché lo temeva troppo sfruttato per descrivere ogni tipo di danza contemporanea non tradizionale. Il mestiere di psicologo lo ha portato costantemente a chiedersi “perché”: il perché di ogni movimento. Ammette: “gli studi di psicologia mi hanno aiutato a indagare i modelli di comportamento e di linguaggio e a immaginare come interpretarli fisicamente”. Così, mettere in scena la vulnerabilità e l’insuccesso è diventato sempre più importante; spesso chiede ai suoi performer di rivelare qualcosa della propria personalità che non avrebbero mai voluto mostrare in pubblico. Un metodo di improvvisazione e scandaglio psicologico non lontano da quello di Pina Bausch. Questo modo di ragionare, e questa esplicitazione fisica di comportamenti e linguaggi ha portato il lavoro dei DV8 su terreni rischiosi, tanto che, per esempio, nello spettacolo MSM fu necessaria a Londra la presenza di un avvocato alla prova generale per stabilire se offendesse oppure no il senso del pudore. È proprio nei confronti del grande pubblico borghese, pronto a scandalizzarsi, che Lloyd Newson vuole prendere le distanze: “In quell’occasione mi sono reso conto che i valori e i principi politici dei DV8 non saranno mai quelli della maggioranza. E non mi interessa che lo siano anche se questo vuoi dire perdere grandi somme di denaro e avere un’audience più piccola”. Del resto è il lavoro stesso dei DV8, ammette Newson, che richiede pubblici ristretti, teatri che permettano un rapporto intimo fra spettatore e performer. Per questo DV8 ha da subito intrapreso la via della trasformazione dei propri spettacoli in video, molti dei quali premiatissimi. La telecamera, con la ripresa ravvicinata sul particolare, riesce ad instaurare un rapporto di nuovo molto stretto fra pubblico e danzatore. “Creo soltanto quando ho qualche cosa da dire” precisa Newson. DV8 non è una compagnia stabile, ma riunisce danzatori sulla base di progetti, quando c’è un bisogno artisticamente motivato, più che una ragione commerciale e amministrativa.
Il primo lavoro dei DV8, My Sex, Our Dance del 1986, danzato con Nigel Charnock, nasce nel momento in cui esplode l’emergenza Aids, e indaga sulla reciproca fiducia che può ispirare il rapporto fra due uomini. L’anno successivo, con My Body, Your Body la compagnia esplora la psicologia delle donne che cercano relazioni con uomini facili, ispirato al volume Women Who Love Too Much. Ed è ancora un libro, l’anno successivo, il punto di partenza del nuovo spettacolo. Dead Dreams of Monochrome Men infatti è ispirato a Killing for Company il volume di Brian Master sul serial killer Dennis Nilson. Un lavoro che esplora la terra di nessuno fra il mercato della carne dei club gay e lo squallore di angosciosi monolocali, cancella la sottile linea di confine fra sesso e morte, ma è fondato anche sulla convinzione che la omofobia sociale è destinata a scatenare tragiche conseguenze: proprio in quei mesi prendeva vita nel Parlamento inglese il dibattito sulla Clausola 28, la legislazione che vietava agli enti locali di usare denaro pubblico per “promuovere l’omosessualità”. Strange Fish del 1992 riguarda la natura del nostro bisogno di cercare qualcuno e di amare qualche cosa o qualcuno; la tirannia delle coppie e dei gruppi, il dolore del non appartenere, dell’esclusione, il terrore di restare solo: tutto è reso da una serie di potenti immagini. Ultimo arrivato in ordine di tempo, Bound to Please, del 1997, è stato definito un esercizio di sadomasochismo mentale, prima che fisico. Mette in discussione i concetti di bellezza e il bisogno di piacere agli altri. Esplora il deserto urbano dell’alienazione. Porta in scena oltraggiosamente nuda una danzatrice di 67 anni, Diana Peyne-Myers, e indaga sulle dinamiche che si possono instaurare fra lei e un giovane amante. Dopo Bound to Please, il successo di Enter Achilles, ampliato dal video che ha attraversato trionfalmente i principali concorsi tv (Prix Italia, Dance Screen), le insistenze di teatri e festival che volevano a tutti costi proporre lo spettacolo ai propri pubblici, hanno costretto Newson a un passo che non avrebbe mai immaginato di fare: rimontare un suo spettacolo. Ma per una volta il contravvenire ai propri principi da parte di Newson si è trasformato in fortuna: per noi spettatori, ovviamente.
(in Catalogo Romaeuropa Festival 1998)