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Cinema Quattro Fontane
4 Novembre 2002
25romaeuropa.net

Jean-Luc Godard

King Lear


 

È sull’angolo di una tovaglia che Jean-Luc Godard firma l’accordo con la Cannon per fare un film tratto da King Lear. Siamo nel 1986, e l’unica condizione posta dai committenti è che sia pronto per il successivo festival di Cannes. Norman Mailer firma la sceneggiatura e deve interpretare Lear ma, in corso d’opera, abbandona il progetto: è così che entra in gioco Peter Sellars nel ruolo di William Shakespeare Junior, e con lui Leos Carax, Julie Delpy, Burgess Meredith, Molly Ringwald e Woody Allen. Un cast d’eccezione: Jean-Luc Godard, con pezzi di pellicola e spine elettriche fra i capelli, Woody Allen al banco di montaggio, Norman Mailer ripreso quando abbandona definitivamente il set, Peter Sellars che si fa chiamare “sgabello” parafrasando una battuta mal tradotta del testo.
Il regista francese mantiene la promessa e il film viene presentato sulla croisette in un’anteprima per soli giornalisti, trasformandosi subito in leggenda: la libertà della riscrittura fa infuriare la Cannon, che minaccia un processo ma che, dopo poco tempo, è costretta a chiudere per fallimento. Con essa scompare anche il film, da allora diventato un fantasma che abita l’immaginario di tutti i cinefili e che solo ora, grazie al Romaeuropa Festival, approda per la prima volta in Italia.


 

INTERVISTA A JEAN-LUC GODARD
di Antoine de Baecque

King Lear, il suo film inedito del 1987, sembra iscriversi in un periodo di ricerca a tutto campo. Ha avuto l’impressione, all’epoca e con questo progetto, di entrare in un nuovo ciclo di ispirazione?
L’idea era di Norman Mailer: lui doveva incarnare Re Lear, e le sue figlie, le figlie di Lear. Mi piacciono molto i suoi libri che partono dalle inchieste; sono molto vivi e di grande respiro. Il film era concepito come una inchiesta sullo stesso Mailer che si fondeva con una ricerca su Lear e le sue figlie. Trovare segreti. All’inizio, incarnare questo ruolo lo ha divertito un po’, poi affatto. Non gli andava più. Lo annoiava. Lo capisco, il cinema non è divertente tutti i giorni. Ho tenuto una sola scena, che ho montato due volte. Poi sono partito con un’altra idea: dopo Chernobyl, ciò che chiamavamo “cultura” non esiste più, e bisogna cercare i superstiti che detengono questo segreto. Ho pensato a Rod Steiger e a Jon Voight per questo ruolo, e anche a Tony Curtis che, allora, viveva dipingendo croste, felice fra le sue vecchie signore. Anche a Richard Nixon.

Il film sarebbe stato molto diverso?
Mi sarebbe piaciuto molto. Abbiamo offerto a Nixon 200.000 dollari, tutto quello che ci restava, per una sola giornata di riprese. All’inizio, questa offerta lo interessava perché allora aveva bisogno di soldi. Volevo girare con lui una giornata sull’idea del potere: come lo si ottiene, come questo renda folli, come lo si perde… in rapporto a King Lear era perfetto. Purtroppo, Nixon finì con il rifiutare. All’ultimo momento ebbe paura. Allora ho lavorato con Peter Sellars e Burgess Meredith, che rappresentavano il testo inglese classico, il tesoro di questa lingua straniera che non parlo, che capisco male, l’inglese letterario, Shakespeare. Avrei potuto girare questo film in russo, partendo da Puskin. Non si sarebbe più chiamato King Lear, e non avrebbe più interessato i produttori americani. Io possedevo l’immagine, l’altro tesoro scomparso.
Per questo, io sono nel film, l’ultimo dei venditori di immagini, l’ultimo dei Mohicani. Poi, ci sono altre persone che passano: Leos Carax, che è venuto sul set come se andasse in un sanatorio, per curarsi, e la giovane attrice americana Molly Ringwald, all’epoca stella nascente dei serial e dei film per adolescenti yankees, che era venuta per fare l’esperienza, per provare, non so bene perché.

Lei ha scritto che questo film era “diretto da uno sgabello”…
È una allusione al King Lear, mal tradotto nella versione attuale del film: un personaggio, durante una discussione, tratta il suo avversario da “sgabello”. Riprendo questa frase nel mio ruolo e dico a Peter Sellars che è uno “sgabello”!. È uno scherzo, un gioco di parole.

La sua apparizione è tratteggiata sul modello dell’idiota.
È quello che ho sempre fatto nei miei film, l’idiota. Qui ho, attaccati ai capelli, feticci presi dalle immagini attuali, spine e cavi di video. Il mio personaggio è un primitivo, uno sciamano, che conosce le immagini scomparse e cerca di preservare il proprio sapere. C’è una certa ironia verso le immagini attuali perché il video non funziona. Per farlo funzionare, bisognerebbe tornare a qualcosa di semplice: immagini video senza elettricità, senza macchine, che passino attraverso le spine e i cavi attaccati ai capelli. È grottesco, burlesco. Sono molto sensibile a questo: l’inverosimile dice la verità. Ma non sempre è riuscito molto bene, perché io non sono un grande attore. Ci vorrebbe Pierre Brasseur, in questo ruolo, o Raimu, o Michel Simon. Un grande comico, non Godard. È un ruolo da Mel Brooks.

Lei detiene il segreto delle immagini?
È un simbolo. Appartengo all’epoca della suprema incarnazione delle immagini, la Revue du cinéma, Les Cahiers, la Cinémathèque, la Nouvelle Vague, la critica e la cinefilia. La prima generazione che ha saputo testimoniare dei segreti dell’ultima generazione dei pionieri. Negli anni ’50 e ’60 incontravamo coloro che avevano fondato il cinema: eravamo cresciuti con l’idea che si potesse vedere tutto e conoscere tutto perché il cinema non sfuggiva ancora alla dimensione della vita di un uomo. Ho attraversato cinquanta anni di cinema, la metà della vita di questa arte. Questa è una formidabile memoria, anche senza che io me ne accorga. Questa memoria del cinema è il rifugio di coloro che ci credono ancora. È una malinconia che mi uccide e mi fa anche rinascere.

Il suo personaggio in King Lear è al tempo stesso primitivo e annunciatore: tutto il suo cinema, negli ultimi quindici anni, è stato influenzato da questo esempio?
King Lear è uno schizzo. In pittura, lo si chiamerebbe un repentir, in letteratura un palinsesto: qualcosa lo ha coperto, ma quello che c’è sotto continua a produrre i suoi effetti, altera la superficie che viene dopo. In altri tempi si sarebbe detto: è un film sperimentale. Una esperienza che permette di vederci più chiaro, o meno chiaro, insomma che permette di cercare.  King Lear è semplicemente un saggio su Shakespeare.

Rassegna stampa

“È forse il film più limpido di Godard post-Nouvelle Vague: la rilettura in filigrana di Shakespeare rende ancora più smontabile il giocattolo. Godard ormai fa un cinema solo di citazioni: non contano le immagini né le fonti (letterarie, pittoriche, musicali) ma le associazioni di idee che si stabiliscono tra loro (è il principio alla base delle Histoire(s) du cinéma, video e libro). La storiella del tovagliolo sembrò, a tutti i godardiani, geniale. Sentite cosa racconta Jean-Claude Brialy ad Aldo Tassone nel catalogo di France Cinéma: “Chabrol mi lesse la sceneggiatura di Les cousins in un bar. Naturalmente non aveva un soldo per girarlo, ma ciò nonostante scrisse su un angolo della tovaglia di carta del caffè: “Io, Claude Chabrol, il più grande regista del mondo, scritturo Jean-Claude Brialy, il più grande attore del mondo”. Firmò e mi diede il pezzo di carta”. Les cousins fu l’esordio di Chabrol, nel 1959. Ahi ahi Jean-Luc, hai copiato anche questa!”.
(Alberto Crespi, Godard, che bello fare a pezzi “Re Lear”, l’Unità, 4 novembre 2002)

Crediti

Testo Jean-Luc Godard, Norman Mailer (da William Shakespeare)
Montaggio Jean-Luc Godard
Fotografia Sophie Maintigneux

Interpreti Jean-Luc Godard, Peter Sellars, Leos Carax, Julie Delpy, Burgess Meredith, Molly Ringwald, Woody Allen, Norman Mailer

Produzione Menahem Golam e Yoram Globus
Distribuzione Bodega Films