Prima nazionale
Peter Sellars demistifica una realtà ingiusta e benpensante: vorrebbe “farla finita col giudizio di Dio” (ovvero con l’oppressiva morale del senso di colpa collettivo) ed inaugurare una nuova dimensione spirituale e sociale dell’essere umano. Con For an end to the judgment of god (Pour en finir avec le jugement de dieu) di Antonin Artaud e Kissing God Goodbye della poetessa afroamericana June Jordan, Sellars svela crudelmente le contraddizioni ed i soprusi di ogni giorno nella convinzione che un mondo migliore sia possibile.
La veemenza del lavoro di Artaud demistifica una realtà ingiusta e benpensante e vuole “farla finita col giudizio di Dio” per liberarsi dall’oppressiva morale del senso di colpa ed inaugurare una nuova dimensione spirituale e corporale dell’essere umano. Nel For an end to the judgment of God di Peter Sellars l’attore John Malpede è un compiaciuto generale del Pentagono che declama protetto dallo scranno delle conferenze stampe (figura tristemente familiare per il pubblico di tutto il mondo), mentre alle sue spalle scorrono le immagine di bombardamenti ed esplosioni commentate dalle musiche del Kronos Quartet.
Kissing God goodbye prosegue il discorso raccontando la ricerca di una nuova umanità, sensibile verso il mondo e le persone che lo abitano – qualsiasi sia la loro nazionalità, cultura, tradizione, religione. Nella poesia di June Jordan le convinzioni politiche sono indissolubili dall’impegno morale nutrito dall’amore per gli altri: Kissing God goodbye (una splendida replica in versi alla violenza anti-abortista “nel nome di Dio”) è l’inno di una voce visionaria e generosa che crede in un domani migliore.
“rivivere le atrocità per mettersi di fronte ad esse, staccati da ciò che è stato, per imparare a capire, per muoversi verso la comprensione”, dice Sellars, “è la disciplina che l’arte può insegnare al mondo. La disciplina della pace”.
LA PACE VA A TEATRO
di Rita Sala
“Io vivo sulla soglia della casa degli dèi”, dice Peter Sellars , “Nell’antica Grecia tutto è stato detto, tutto si é dibattuto e ha travato una dimensione filosofica. Il compito degli artisti è ricreare, oggi e qui, quel modo di vivere e di pensare, ma usando i linguaggi che appartengono al nostro momento e alla nostra storia, senza lasciarci sgomentare dalla decadenza imperante. Utopia? Non me ne convincerò mai. Piuttosto è l’unico modo per sentirci ancora individui dotati di autonomia”.
Impossibile non chiedergli, alla luce del suo teatro antropologico, cosa pensi di ciò che sta accadendo nel mondo.
È un momento importante. Si tratta di capire se la strada per il futuro deve essere decisa da enormi operazioni unilaterali. di guerra, oppure, se mettendo assieme le forze di tutti, è possibile andare alla radice delle questioni che ci preoccupano, e cercare di risolverle insieme. In ciò il teatro è un mezzo davvero formidabile. Perché esige un impegno personale: persona davanti a persona, cittadino davanti a cittadino, storia davanti a storia. Il teatro, simbolo del coinvolgimento totale, è il mezzo per costruire un gruppo, una comunità, anche una nazione.
Ha ancora senso parlare di avanguardia?
Avanguardia è oggi parola che ha un significato diverso rispetto al secolo scorso. Ora la minaccia di una guerra permanente ci tiene tutti in ostaggio. Ci sono popoli, sparsi dappertutto, che riemergono costantemente da genocidi, guerre civili, sfruttamenti economici, devastazioni ambientali. In che modo possono costruire e ricostruire la loro identità? In che maniera, tutti, dobbiamo andare avanti? Avanguardia, oggi, è solo la risposta a questi interrogativi.
La speranza?
Ha il volto di una metafora. In Cambogia, sotto la dittatura di Pol Pot, sono stati massacrati milioni di persone. Anche i danzatori della compagnia reale di danza. Tutti i loro scenari e i loro costumi furono bruciati: 400 anni di storia distrutti in una settimana. Al massacro sopravvissero solo due donne, che abitarono nascoste, per anni, in una fattoria, tra gli animali. Poi, lentamente, passo dopo passo, superato il tempo della morte, ripresero a insegnare e una nuova generazione imparò i gesti che loro conoscevano. In vent’anni riportarono alla luce quattro secoli di tradizione, e intanto veniva ricostruito, passo dopo passo, anche il loro Paese. Con passione, con accuratezza, con grazia. Nel 1990 invitai la nuova compagnia al festival di Los Angeles, la città dove vive la più numerosa comunità di cambogiani fuori della Cambogia. Fu un momento intenso e pieno di emozioni. Una giovane donna, Sophiline, si fermò a Los Angeles: ha sposato un cittadino americano che si occupava dell’organizzazione, John Shapiro. Ora lei si chiama Sophiline Cheam Shapiro. Un nome meraviglioso, un simbolo. Una storia di condivisione, di parole e gesti messi in campo per il bene collettivo.
Il teatro del nostro tempo è dunque il teatro della riconciliazione?
Si. È il rivivere le atrocità per mettersi di fronte ad esse, staccati da ciò che è stato, per imparare a capire, per muoversi verso la comprensione. In Cambogia i gesti della danza sono estremamente belli, lenti, squisiti. Sono gesti di perdono e di coraggio, eseguiti trattenendo le emozioni e la rabbia fino ad arrivare là dove si ottiene la pace del perdono. Questa è la disciplina che l’arte può insegnare al mondo. La disciplina della pace.
Come trasforma in teatro la Storia attuale?
È un anno molto intenso: la guerra in Iraq, le battaglie di protesta, il forte impegno diplomatico, il terrorismo… Volevo, per reazione, qualcosa che fosse bello e tenero. Allora ho scelto di lavorare, a Venezia, su un poema scritto da Kalidasa, il grande autore sanscrito del quinto secolo, un’opera che si intitola The Love Cloud, la nuvola dell’amore. Kalidasa racconta di un esiliato politico costretto a vivere. lontano, sulla cima di una montagna. Dall’altra parte del Paese lo aspetta la sua amata. Lui chiede allora a una nuvola di passaggio di attraversare l’India e portare a questa donna un messaggio: vuole dirle quanto l’ama. La nuvola arriverà e inonderà la donna con l’amore del suo uomo. Grande poesia che parla di un fenomeno molto comune: l’arrivo della stagione delle piogge in un grande ciclo meraviglioso. Anche noi dobbiamo esserne consapevoli: i nostri sentimenti, la nostra vita politica, le deflagrazioni, l’orrore, così come la nostra stessa vita erotica, fanno parte di un’Ecologia superiore che avrà, nonostante tutto e tutti, il suo benefico compimento.
Una poetica, una frase.
Diffido dell’immaginazione, preferisco entrare nelle cose che si possono capire e sentire immediatamente; rappresentare le cose che sono davvero con noi ora.
(Rita Sala, Sellars, la Pace va a teatro, Il Messaggero, 23 novembre 2003)
L’ERETICO: LA PACE È IL VERBO DEL TEATRO
Intervista con Peter Sellars
di Maria Grazia Gregori
Mesi fa lei non venne all’incontro di tutti i direttori con la stampa e mandò, in sua vece, una lettera molta bella in cui spiegava le ragioni della sua assenza. Oggi lei è qui, dunque qualcosa è cambiato…
Guardi l'”Herald Tribune”di oggi. “Bush alza la voce ma chiede aiuto”, dice il titolo: una scena da incubo… Ma io mi dico: tutti questi miliardi di dollari che è costata la guerra in Iraq potevano essere spesi per costruire scuole, per tutto quello di cui c’è veramente bisogno nel mondo. Il XXI secolo sembra essere caduto in ostaggio della guerra. Io, al contrario, credo nella forza incredibile della pace. Per questo ho scelto di presentare alla Biennale le voci di alcuni popoli che lottano per conservare la loro cultura o che sono sopravvissuti al genocidio come, per esempio, è successo in Cambogia con Pol Pot. Quello che li è accaduto ha dell’incredibile come si vedrà nel film S21 di Rithy Panh, presentato a Cannes di quest’anno, che racconta di un campo di sterminio chiamato Tuol Sleng, al centro di Phnom Penh, dove su quattordicimila prigionieri ne sopravvissero solo 30. Alla fine di questo film i torturati chiedono ai torturatori: che cosa sentivi quando mi torturavi? Sa, oggi può capitare che stai seduto in un autobus e ti trovi davanti il torturatore di tua figlia… I khmer rossi hanno tentato di distruggere anche la loro antica forma di teatro: di quattrocento persone che vi lavoravano sono rimaste in vita solo due donne che hanno vissuto per due anni in una fattoria in mezzo agli animali e che hanno potuto trasmettere alle nuove generazioni l’antica arte. La Cambogia, oggi, cerca di andare oltre tanto orrore, di realizzare un’idea di perdono e questi gesti di grazia teatrale in tempi di dolore simili sono ancora più significativi.
Quello che lei sta dicendo potrebbe essere tranquillamente definito pacifista…
Penso che la storia del XXI secolo sarà la storia di chi si batte per la pace. Ci sono guerre ovunque, oggi, e ci vuole tanto più coraggio a lottare per la pace che a fare la guerra. Noi siamo tutti figli di Nelson Mandela che fu il primo leader a dire che la grandezza personale deriva dal cercare la pace e non la guerra. Le storie veramente epiche che si narreranno e che vedremo rappresentate saranno storie di pace.
Al Romaeuropa, a novembre, lei metterà in scena il testo di Antonin Artaud Per farla finita con il giudizio di Dio, ma a dirlo sarà un attore travestito da generale del Pentagono…
Quello che mi piacerebbe riuscire a spiegare è che quanto viene detto in una conferenza stampa del Pentagono è folle come quello che diceva e scriveva Artaud. Mentre questi generali parlano, passano alle loro spalle le immagini di missili che colpiscono bersagli minuscoli, qualcosa che sembra profondamente estraneo ai discorsi di guerra che stanno facendo. Allora io metto in scena un generale coperto di medaglie a dire le parole piene di sofferenza di un uomo che ha subito 57 elettroshock per fargli capire che cosa è la violenza, per umanizzarlo… Intendiamoci: io rispetto le persone che lavorano al Pentagono e che magari non volevano neppure la guerra… La questione è piuttosto politica: è l’esecutivo che sta stravolgendo le motivazioni della guerra in Iraq. Il mio non è un gesto “d’avanguardia”, un gesto contro, altrimenti alimenterei altra violenza. Voglio, al contrario, avvicinarmi alla verità, creare uno spazio dove tutti, in questo momento di dolore, possano incontrarsi e avere la sensazione di condividere qualcosa di molto profondo.
Non posso non farle questa domanda: che cosa significa, oggi, per lei essere americano?
Alcuni dicono che sono antiamericano. Non è così, piuttosto sono per quello che per me è l’essenza dell’essere americano: poter dire con libertà quello che si pensa. La libertà è uno degli elementi fondamentali della democrazia: se non è possibile essere liberi, la democrazia è minacciata. In questi tempi il mio paese attraversa un periodo di fragilità la democrazia è stata minacciata dal terrorismo ed è stata presa in ostaggio da Bin Laden e Donald Rumsfeld. Si può lottare per farla ritornare: io lotto per il mio paese, combatto una battaglia e spero di vincerla. Ho molta fiducia nelle nuove generazioni per esempio nei miei studenti alla UCLA: da lì arriverà qualcosa, ne sono sicuro.
Allora non mi resta che dirle “God bless America”.
La ringrazio per queste parole. È proprio così.
(Maria Grazia Gregori, Sellars l’eretico: la pace è il verbo del teatro, l’Unità, 25 settembre 2003)
È ATTUALE POUR EN FINIR AVEC LE JUGEMENT DE DIEU?
di Franco Ruffini
Tra “attuale” e “contemporaneo” corre questa differenza (è stato Stanislavskij a mettervi l’accento), che l’attuale è legato a un attimo, mente il contemporaneo è legato al tempo, cioè a tutti gli attimi. Artaud e il suo testo di congedo, Pour en finir avec le jugement de dieu, sono contemporanei. Attuali sempre. In quest’attimo che stiamo vivendo, soprattutto.
Pour en finir avec le jugement de dieu (Artaud lo scriveva con la minuscola) è un caso storico di paura del pensiero estremo. Che è l’unica misura del pensiero, di meno è solo intelligenza. La Radio francese gli aveva commissionato una trasmissione per la serie La Voix des poètes. Artaud ne scrisse i testi (quasi tutti) nel novembre 1947. Come voci recitanti, oltre la sua, aveva previsto quelle di Maria Casarès, Roger Blin e Paule Thévenin. S’era riservato, inoltre, degli interventi a base di glossolalie, suoni allo xilofono e percussioni. La messa in onda, in programma per il 2 febbraio 1948, fu vietata all’ultimo minuto dal direttore generale della radio francese Wladimir Porché, per timore dello scandalo. A nulla valse il giudizio unanimemente positivo di una “commissione di saggi”, comprendente tra gli altri Jean Cocteau, René Clair e Paul Eluard. Pour en finir avec le jugement de dieu fu trasmesso in una serata ad inviti in un ex cinema, il 23 febbraio. Lo ascoltarono gli amici più disperati di Artaud, che morì qualche giorno dopo, il 4 marzo 1948.
In una lettera a Porché, Artaud indicava come principali titoli di merito del suo testo l’esaltazione della “materia” del corpo, e l’attacco al capitalismo americano. Non riusciva a darsi conto della decisione presa. Proclamava che in tal modo era stata delusa l’aspettativa della “gran massa del pubblico”: la quale non poteva non desiderare “un mutamento corporeo di fondo” e, non essendo totalmente ingenua, sapeva bene che il capitalismo americano (oltre che il comunismo russo) conduce inevitabilmente alla guerra. Merda, dunque, guerra e tutto il suo schifo: parole forti, ma nessuno scandalo.
Alla guerra portata dal capitalismo, che abbiamo imparato dura dall’anteguerra al dopoguerra, ci siamo dovuti abituare. E che ogni mutamento di fondo debba partire dalla “materia” del corpo, basta guardare un poco di TV coi suoi corpi di plastica per non averne dubbi.
Ci vuole altro per dimostrare l’attuale contemporaneità di Pour en finir avec le jugement de dieu di Artaud?
Rassegna stampa
“Infatti il procedere delirante della riflessione di Artaud, fra pensieri contorti e sconnessioni logiche, disegna tracce luminose spesso impressionanti. Soprattutto per quegli attacchi alla politica statunitense, alle sue brame di invasione planetaria, al suo disegno bellico senza confini, dove con estrema lucidità (e appena nel 1947) il grande scrittore francese capisce che lo scopo è soltanto la mercificazione del mondo, l’estensione e il controllo dei commerci, per arrivare a un momento in cui frutti e piante saranno finti, e anche gli uomini saranno clonati per il solo scopo di avere più soldati. L’agghiacciante conferenza, sostenuta dalla proiezione di immagini della guerra in Iraq, viene interrotta da una ragazza negra, l’energica Pascale Armand, che sale in scena per sgranare un testo scritto negli anni Settanta dalla femminista nera June Jordan Kissing God goodbye, dove, se pur tra velleitarismi un po’ datati e una più che discutibile ermeneutica di alcune frasi delle Sacre Scritture, si arriva a dire che non ci si può appellare a Dio per giustificare la morte e l’assassinio, in nessun caso”.
(Antonio Audino, Il teatro della politica per Sellars, Il Sole 24 Ore, 30 novembre 2003)
“La prima parte, quella che nel ’47 fu recitata da Artaud, si stenta a credere l’abbia scritta lui, più di mezzo secolo fa. È una requisitoria contro l’America. Artaud descrive un’America che sta preparando le guerre future. A questo scopo gli scienziati fanno provviste di sperma surgelato, per usarlo in fecondazioni artificiali che producano soldati ben addestrati. […] Col suo procedimento di collocazione di un testo remoto nel presente, e con la sua lineare iconografia Sellars ha qui un colpo da maestro: ai paradossi di Artaud aggiunge un nuovo paradosso. A dire il testo sarà un ufficiale dell’esercito americano, dietro il podio cui ci siamo di recente abituati: quello da dove Bush ci parla di guerra. Il perfido spettacolo di Sellars è fatto di questo: di uno spostamento di tipo concettuale. L’orazione diventa una requisitoria. Il testo di Artaud è rispettato, ma il suo senso vi appare due volte sarcastico, come se a pronunciarlo fosse un demente che faccia a se stesso una pessima propaganda. Su tre schermi televisivi scorrono immagini di guerra, l’ufficiale blatera, una donna di colore lo aggredisce”.
(Franco Cordelli, Un Sellars paradossale esalta l’invettiva anti-Usa di Artaud, genio blasfemo, Corriere della Sera, 29 novembre 2003)
Crediti
Testo di Antonin Artaud adattato da Peter Sellars
Testo di June Jordan
Regia Peter Sellars
Interpreti John Malpede, Pascale Armand
Musica Osvaldo Golijov
Ensemble Kronos Quartet
Produzione Wiener Festwochen in associazione con Old Stories : New Lives.