LA CASA DI BERNARDA ALBA
Spettacolo di danza con canto, pianoforte, contrabbasso, chitarra elettrica e musica elettronica.
Composizione e impostazione musicale Helmut Oehring e Iris Ter Schiphorst
Messa in scena e coreografia Joachim Schlömer
Testo ispirato all’omonima pièce di Federico García Lorca
Ensemble Tanztheater Basel
Scenografia Frank Leimbach
Costumi Gesine Völim
Linguaggio mimico Christina Schönfeld
Interpreti (musicisti) Arno Raunig (soprano), Markus Reschinefki (pianoforte e tastiera), Jörg Wilkendorf (chitarra), Peter Kowald (contrabbasso)
Produzione Theater Basel (Basilea), Herbel-Theater Berlin (Berlino), Ref Romaeuropa Festival, Goethe-Institut
Prima italiana
Ultima opera scritta da Federico García Lorca, prima di essere ucciso dai falangisti nel 1936, La casa di Bernarda Alba narra la storia di una donna che, alla morte del marito, impone alle figlie il rispetto assoluto del lutto, impedendo loro qualsiasi contatto con il mondo esterno: la casa si trasforma così in una prigione e l’unica speranza per una delle figlie è un matrimonio che non verrà mai celebrato. La difficoltà e l’impossibilità della comunicazione nel romanzo rappresenta il terreno di incontro tra il compositore Helmut Oehring e il coreografo Joachim Schlömer, accomunati da un approccio particolare all’universo sonoro. Figlio di genitori sordomuti, Oehring ha appreso prima il linguaggio mimico e quindi quello fonetico, arrivando alla musica gradualmente e come autodidatta: i suoi lavori, per lo più strumentali, mescolano suoni raramente puri a fonemi non articolati dei sordomuti, dando vita ad una suggestiva riflessione sull’uso del linguaggio e sulla problematicità di una comprensione reale tra le persone. Molte delle coreografie create da Schlömer, d’altra parte, si muovono nel silenzio, dove l’unico rumore, che sia lo sbattere dei piedi o il tintinnio della pioggia, riproduce un battito simile a quello vitale. La libera rilettura dell’opera di García Lorca compiuta dai due artisti punta dunque su un continuo contrappunto tra suono e gesto, accentuato dal fatto che i musicisti sono relegati in una scatola nascosta al pubblico, ed è possibile vederli solo attraverso le immagini, rimandate da un televisore, di dita sulla tastiera o sulle corde. Se Oehring, inoltre, si affida al linguaggio mimico di Cristina Schönfeld e alle impennate sonore del soprano Arno Raunig, che duettano in scena, Schlömer sviluppa una grammatica gestuale molto ricca, che a tratti si blocca in un fermo immagine, per poi snocciolarsi in un ralenti o all’opposto sfrenarsi.
Cartellone 1999
LA CASA DI BERNARDA ALBA
Teatro Argentina, 15, 16 novembre 1999 HELMUT OEHRING OVVERO LA POSSIBILITÀ DI DARE UN SUONO AL LINGUAGGIO DEI SORDOMUTI
di Elmar Brandt – direttore del Goethe-Institut Rom
Dal 1993 Helmut Oehring lavora al ciclo Irrenoffensive (“offensiva dei folli”), affrontando con la musica il linguaggio gestuale dei non udenti, madrelingua primaria dei compositore berlinese, figlio di genitori non udenti. Per la prima volta nella storia della musica, non udenti e sordomuti hanno potuto esprimersi come interpreti musicali. Da allora, comporre significa per Oehring riuscire a rendere ascoltabili, a dare un suono alla particolare “sintassi spaziale” del linguaggio gestuale.
Nel 1996 la sua opera per sordomuti Dokumentation I si è aggiudicata il premio Orfeo del Teatro Lirico Sperimentale al Festival Musicale di Spoleto, suscitando una critica assolutamente entusiasta e lusinghiera da parte della stampa e concentrando l’attenzione, non solo italiana, su questo giovane, dotato compositore. Il lavoro di Oehring era una combinazione fino al quel momento assolutamente inusuale di lingua e musica, canto e gesti, suoni e movimenti del corpo, musica dal vivo e manipolazione elettronica determinata dai movimenti degli attori. Da allora, Oehring ha approfondito ulteriormente il tema, sviluppando nuove idee e contenuti e componendo nuovi lavori.
Nel 1997 il Goethe-Institut Rom ha avuto per la prima volta l’occasione di essere coinvolto attivamente in una nuova presentazione in Italia di un”opera di danza” di Helmut Oehring. Spontaneamente ci siamo allora rivolti al Romaeuropa Festival, un festival che dà spazio al tema della comunicazione, delle sue possibilità e dei suoi limiti, un festival che si spinge fino ai confini dell’arte programmando volentieri nuove forme di teatro, danza e musica.
Il Goethe-Institut Rom esprime la più sincera gratitudine a Monique Veaute, direttrice del Romaeuropa Festival, e a tutto il suo team, che con spontaneità ha recepito l’offerta di partecipare a una coproduzione internazionale sicuramente “sui generis”. Nelle trattative intercorse tra Oehring e i responsabili della coproduzione sono state considerate diverse possibilità di realizzare un’opera per sordomuti di Oehring, immaginando inizialmente una Dokumentation II, ipotizzando poi il D’Amato System, orientandosi successivamente verso un soggetto di Fassbinder (Le lacrime amare di Petra von Kant). Alla fine, il Theater Basel di Basilea, lo Hebbel-Theater di Berlino e il Romaeuropa Festival, su proposta di Basilea – in particolare di Joachim Schlömer, in accordo con Oehring – hanno deciso di trarre ispirazione da La casa di Bernarda Alba di Federico García Lorca.
Il Goethe-Institut Rom è orgoglioso di aver partecipato alla realizzazione di una produzione così particolare ed è lieto della felice combinazione internazionale che ha portato a questa importante collaborazione culturale tra Basilea, Roma e Berlino. Auguriamo grande successo internazionale a questo lavoro e ringraziamo tutti coloro che ne hanno permesso la concretizzazione.
A Romaeuropa auguriamo che questa produzione contribuisca a consolidare ulteriormente la reputazione del festival come evento artistico internazionale di grande prestigio in Italia.
(in Catalogo Romaeuropa Festival 1999)
Cartellone 1999
LA CASA DI BERNARDA ALBA
Teatro Argentina, 15, 16 novembre 1999 INTERVISTA A HELMUT OEHRING
a cura di Iris Ter Schiphorst
Cosa significa essere nato in un linguaggio visivo, quello che fondamentalmente e totalmente si differenzia dal linguaggio parlato?
Cosa significa acquisire un linguaggio dagli occhi, quando il primo mezzo di comunicazione è un complesso di varie posture e posizioni delle dita, delle mani e delle braccia nello spazio? Quando aggrottare le sopracciglia non significa semplicemente esprimere un’emozione, ma diventa parte di una grammatica spaziale?
Per me, vedere è più importante che ascoltare. Vedere è legato indissolubilmente al linguaggio, al discorso, alla comunicazione. Io penso e sogno in gesti. Non ho mai pensato di diventare un musicista o un compositore. Nel frattempo scrivere musica è diventato di importanza esistenziale per me… Direttori, musicologi e critici hanno toccato solo la parte non essenziale della mia musica. Il solo modo in cui possono capire la sua parte essenziale – il suo “cuore” – è conoscere a fondo il linguaggio dei segni.
Gli spartiti di Oehring sono completamente “in debito” con il tradizionale sistema di metro e di grado. Sono curati fino all’ultimo dettaglio e sembrano quasi delle codificazioni. Niente è lasciato al caso: non esiste una libertà d’azione. Gli strumentisti devono essere sottomessi al testo, rispettandolo pienamente e capitolando alla sua grammatica. Questo viene applicato non solo al metro, ma anche al coordinamento di moto e spazio nello strumento stesso. I musicisti devono, per modo di dire, imparare a parlare in modo nuovo con il loro strumento. Come con i gesti?
Tutto è cominciato quando ho iniziato a scrivere musica… Improvvisamente ho potuto vedere le possibilità che si aprivano… Era in relazione al fatto che lì non c’era un testo scritto per il linguaggio dei segni.
(in Catalogo Romaeuropa Festival 1999)
Cartellone 1999
LA CASA DI BERNARDA ALBA
Teatro Argentina, 15, 16 novembre 1999 HELMUT OEHRING
di Georg Katzer
(Laudatio per il conferimento del premio Hindemith, Plön 1997)
Helmut Oehring ha sempre indirizzato la sua ricerca verso il contrasto tra la estrema diversità delle tipologie del linguaggio parlato e l’enorme differenza tra il linguaggio parlato e il linguaggio dei segni.
La sua madrelingua non è il linguaggio fonetico ma quello mimico. Oliver Sacks afferma in merito: “La differenza fra linguaggi fonetici estremamente variegati fra loro è piccola rispetto a quella fra il linguaggio fonetico e quello mimico. Molto di quello che il linguaggio fonetico deve esprimere in modo lineare, sequenziale e in successione temporale, può essere espresso invece simultaneamente dal linguaggio mimico”.
Oehring stesso afferma: “La mia madrelingua è il linguaggio mimico. Ho appreso il linguaggio fonetico all’età di quattro anni e mezzo. Le mie musiche sono documenti-dramma che ruotano attorno al problema dell’uso del linguaggio da parte della gente e alle conseguenti relazioni. Il linguaggio è la reazione ad una carenza, il sostituto di una perdita, il riempimento di un vuoto, il tentativo di fissare qualcosa di “sbrigliato””.
Possiamo intuire quale significato centrale possa avere per lui l’esperienza del linguaggio e della comunicazione. Deve però esserci un altro strato in questa musica che, al di là del suo trauma infantile, si rivolga direttamente a noi – codificato nel suono – senza che riusciamo a capire di che cosa si tratti realmente. Del resto, la musica non diventa concreta in ciò che afferma; non sappiamo che cosa essa intoni, i suoi segni ambivalenti. “Il suono che fa venire la nostalgia di patria” dice perché e dove è rivolto lo sguardo. Hegel ce lo ha spiegato in maniera esauriente.
Ma è proprio la sua indeterminabilità assieme alla possibilità di interpretarne i simboli che ci consentono di comunicare attraverso la musica e al di là di essa.
Cerchiamo allora di leggere i simboli nei tratti della sua mano, ciò che la sua biografia ha impresso nei suoni. È insolita anche l’evoluzione di Oehring come musicista e compositore. Nessun “addestramento” sullo strumento, nessuna forma accademica, nessuna formazione estetica preliminare. Il rock e altri generi musicali li ha imparati da solo con la chitarra. Non ha paura del contatto. Nella sua musica integra anche elementi che una “Neue Musik”, intesa in senso puritano ed ermetico, ha ceduto, in deliberata ascesi, all’ambito della musica popolare: melos, ritmica simmetrica e cioè pulsante, ridondanza creatrice di forma. Oehring sta in equilibrio fra gli stili, il suo percorso è sul filo del rasoio: a destra il baratro della banalità, a sinistra il deserto di aridi costrutti. Come afferma egli stesso, tutto ciò è morbido, scuro, schizoide, malato.
(in Catalogo Romaeuropa Festival 1999)
Evento
Rassegna stampa
Note
Katzer su Oehring
Brandt su Oehring
Intervista a Oehring
Oehring e Schiphorst
Michaelis su Schlömer
Cartellone 1999
LA CASA DI BERNARDA ALBA
Teatro Argentina, 15, 16 novembre 1999 NOTE SULLA CREAZIONE DE LA CASA DI BERNARDA ALBA
Il progetto si è svolto nella più stretta collaborazione tra il compositore, il coreografo e il drammaturgo.
Helmut Oehring desidera continuare ad occuparsi del linguaggio gestuale dei sordomuti, da cui deriva il suo interesse per la coreografia e la danza. Ci si è poi accordati per uno spettacolo da camera, sia a livello scenico che musicale.
Dal punto di vista musicale, si rinuncia ad una classica assegnazione delle parti. Oehring vuole avere libero accesso alla composizione, che non si orienta alla drammaturgia di Lorca, bensì è una nostra libera rilettura che attinge a dei “vertici” della rappresentazione, estrapolando le energie della tragedia, vale a dire il marcato contrasto tra l’opprimente atmosfera spaziale e i drammatici sfoghi emotivi.
Il tema del silenzio viene reso musicalmente “ascoltabile” nella funzione del pianoforte. Simile a quello dei film muti è il suo inserimento come strumento d’accompagnamento che fa da “commento soggettivo”. Il controtenore, inoltre, funge da voce nascosta delle donne mute, rendendo acusticamente “ascoltabile” il loro monologo interiore. Il mondo maschile assente deve essere costantemente presente nello spazio mediante sequenze compositive elettroniche.
La casa di Bernarda Alba di Federico García Lorca è alla base della rappresentazione.
(in Catalogo Romaeuropa Festival 1999)
Cartellone 1999
LA CASA DI BERNARDA ALBA
Teatro Argentina, 15, 16 novembre 1999 OEHRING E IRIS TER SCHIPHORST
di Yoreme Waltz (1998)
La collaborazione tra Helmut Oehring e Iris Ter Schiphorst inizia nel 1995 con i progetti di teatro musicale Das D’Amato System e Dokumentation I, continua nel ’96 con Polaroids, nel ’97 con la prima del ciclo di poemi Live (di Anne Sexton) e nello stesso anno con Prae-Senz (Ballet blanc II), prosegue sempre nel ’97 a Roma con Silence Moves II (per voce, strumento e live-electronic) e recentemente con A. N. (per 2 voci ed ensemble strumentale), ed è ancora oggi molto fruttuosa. Lavorando insieme, entrambi hanno trovato nuovi stimoli per il proprio lavoro. Questa collaborazione straordinaria non è soltanto unica per il modo di lavorare degli artisti, ma anche per l’orientamento dei loro propositi volto a creare un dialogo proficuo.
Le loro biografie presentano degli elementi simili, come ad esempio il fatto di essere autodidatti e di essere stati influenzati dalla musica di intrattenimento, per cui comporre insieme è una norma e non un’eccezione. Tutti e due hanno inoltre in comune una diffidenza nei confronti della lingua, intesa sia come strumento, sia come mezzo di comunicazione e d’espressione, così come simbolo del potere e fondatore d’identità. Oehring, figlio di genitori sordomuti, ha imparato a parlare a quattro anni, e questo lo ha portato a provare nella musica una diffidenza fondamentale nei confronti del suono in sé.
Nella sua Dokumentaroper il suono definito viene spezzato ed al suo posto viene utilizzato un suono rozzo che, mescolato ai rumori non articolati del linguaggio dei sordo-muti, crea l’originale linguaggio del compositore.
Per la loro prima opera Polaroid, Helmut e Iris hanno scelto un’attrice sordomuta ed un soprano, accoppiata ben riuscita. In questo melodramma si ritrova un concetto fondamentale comune ai due compositori: il linguaggio dei gesti, nonostante il “non-suono”, si avvicina al sistema della musica come il linguaggio parlato e fonetico. Nonostante l’attrazione che la sfera del “non-suono” esercita su entrambi, i due compositori non hanno però la stessa opinione su questo tema.
Per Iris il suono, come contrario dello scritto, è il vero elemento vivo. Da questo si comprende come Iris abbia creato molto volentieri opere anche per sola voce, mentre fino al 1995 Helmut abbia composto solo musica strumentale, per di più storpiando il suono normale scordando le corde dello strumento, oppure percuotendo la pelle del tamburo non tirata, utilizzando quindi tutti i mezzi possibili per fare in modo che niente suonasse più in modo naturale.
Il diverso modo di pensare a proposito della lingua e del suono non impedisce la loro collaborazione, anzi, la rende più fruttuosa, perché nonostante la continua diffidenza nei confronti della lingua come segno e del suo effetto, oppure nei confronti del significato che viene creato e cementato attraverso la lingua, Iris e Helmut non hanno problemi di comunicazione.
Nel processo creativo delle loro opere si possono individuare due fasi. Nella prima raggiungono un accordo sulla tematica, sulla formazione strumentale e sull’andamento della composizione, poi ognuno inizia a scrivere per conto suo. Nella seconda fase i due compositori mettono insieme le loro bozze e le precisano togliendo o aggiungendo dei pezzi, seguendo quindi un modo di procedere poco pretenzioso, il cui segreto per il successo si ritrova soltanto nel profondo dialogo tra le due ben distinte personalità individuali.
Questo significa che comporre insieme in fondo è fidarsi della voce dell’altro, renderlo partecipe, coinvolgerlo.
(in Catalogo Romaeuropa Festival 1999)
Cartellone 1999
LA CASA DI BERNARDA ALBA
Teatro Argentina, 15, 16 novembre 1999 JOACHIM SCHLÖMER
di Rolf Michaelis
(dal Discorso per il conferimento a Joachim Schlömer del Premio dei Sovrintendenti Tedeschi della Fondazione Dr. Otto Kasten tenuto il 17 giugno 1995 nel Teatro della Regione Assia a Wiesbaden)
Molte “coreografie” di Joachim Schlömer (non spettacoli danzati: è così che lui stesso definisce i suoi lavori) provengono dal silenzio e sfociano nel silenzio stesso. Interi balletti riescono a fare a meno della musica e della sezione ritmica, come per esempio la coreografia Duet A/B del 1990 che è interamente basata sul rumore di piedi scalpitanti, sui battiti di suole delle scarpe, sullo strusciare dei talloni per terra. In tal modo producono quel battito che Schlömer sempre cerca: il battito del polso, il battito del cuore. Del resto, il suo lavoro più recente si intitola Kraanerg, antica parola greca rimasta ancora oggi in uso, ovvero “energia”, cioè fonte di energia. Che cosa può essere fonte di energia per l’uomo se non il cuore? Dunque: nostalgia, desiderio, amore. Dunque anche: morte.
La morte e la ragazza è il titolo di una coreografia concepita per una ballerina e un ballerino, creata nel 1991 per Anversa, secondo l’omonimo quartetto d’archi di Franz Schubert basato sulla poesia di Matthias Claudius. Grembo (Schoß) è il titolo di un lavoro per Ulm del 1991. Dello stesso anno è Mietitore (Schnitter), dal cui titolo riecheggia la canzone popolare “Egli è un mietitore, si chiama morte”.
La coreografia Danza della Pioggia, realizzata sotto un ombrello, può anche sembrare giocosa e ricca di vitalità, ma le gocce di pioggia che battono sull’ombrello racchiudono entrambi gli aspetti: il battito dei cuori eccitati e il passare del tempo, la vecchiaia, la morte.
Il balletto Dietro i gigli bianchi (Behind white lilies), creato per il grande ballerino Michail Baryshnikov e per la sua Compagnia White Oak Dance Project nel 1993, allude non solo nel titolo ai fiori della morte. Così, in tutte le sue coreografie Joachim Schlömer si avvicina a zone di confine dove una si tramuta nell’altra, dove vita e morte diventano una, dove l’amore muore, dove un abbraccio può anche diventare un atto di soffocamento. Joachim Schlömer è colui che percorre i confini dell’arte della danza.
La magia della coreografia di Schlömer opera proprio grazie alla forza quasi mai univoca dei suoi simboli. Così, l’osservatore viene reso insicuro, costretto ad una costante attenzione, trasformato addirittura in partecipante. Tutto ciò può essere sperimentato: la trasformazione di un gesto, inizialmente percepito come dolce, in un segno di violenza; oppure la mutazione di un colpo inteso come rissoso in un forte desiderio di vicinanza, di sfioramento fisico.
L’arte della danza di Joachim Schlömer nasce dalle contraddizioni e nelle contraddizioni diventa reale: questa tensione costante rende i suoi balletti così vivi e – diciamolo pure – unici nella scena europea della danza.
La curiosità dello stesso Schlömer si evidenzia anche nella musica che sceglie (quando a essa non rinuncia del tutto) per le sue coreografie: dalla Sonata per pianoforte di Domenico Scarlatti alle Suites di Jean-Philippe Rameau; dalle Variazioni Goldberg di Johann Sebastian Bach alla Settima Sinfonia di Beethoven e alla Sonata per pianoforte in Si maggiore di Schubert. Fino ad arrivare ai nostri tempi: da Schönberg, ripetutamente Schönberg, a Messiaen, Arvo Pärt, Iannis Xenakis, Galina Ustwolskaja, fino alle orge di tamburi dell’ensemble Test Department. O addirittura fino ai rissosi inni di minatori in sciopero (che amano, danzano, lavorano, scioperano): il “South Wates Striking Miner’s Chorus” per una coreografia dal bel titolo completo Shoulder To Shoulder, Spalla a Spalla.
Perché mai, nel caso lo spettatore dovesse arrivare in ritardo (o addirittura sprovvisto di programma), saprebbe comunque, dopo pochi attimi, di trovarsi di fronte a una “coreografia” di Joachim Schlömer? La provenienza del coreografo-ballerino è evidentissima: la Folkwanghochschule di Essen, cioè l’arte dell’espressionismo negli anni venti e l’ideale umanistico di Kurt Joos del Tavolo verde.
Ma sono solo i movimenti ardui, storti, avvitati (che comunque ci fanno anche pensare a Mary Wigman o a Harald Kreutzberg)? No, è molto di più. Schlömer, che ha anche ballato nel Wuppertaler Ensemble di Pina Bausch prima di unirsi per tre anni al gruppo di Mark Morris a Bruxelles (dove ha potuto trionfare la danza aperta e atleticamente dinamica degli americani), si è appropriato di tutte le forme dell’arte estranea e le ha trasformate per soddisfare le sue esigenze espressive. Il ballerino di bella e forzuta corporalità non parte mai da riflessioni astratte, da teorie o da tendenze della moda.
Proprio questo artista del corpo (ex studente di architettura) è affascinato dai gesti piccoli e minimi e dai segni del corpo; ha una sensibilità per lo spazio come pochi altri della sua generazione. Probabilmente, colui che espone i suoi ballerini – e gli spettatori – ad un tale campo magnetico vive egli stesso così: in un campo magnetico di simmetria e distruzione (artisticamente espressiva) di ogni ordine; di realismo della rappresentazione e della sua riconduzione ad uno stile; di estasi e apatia; di furore e rassegnazione; di velocità e lentezza, di volume alto e volume basso (fino al silenzio); di calore e freddo; di movimento e stasi; di avanzamento e sosta; di salto e caduta.
(in Catalogo Romaeuropa Festival 1999)
Cartellone 1999
LA CASA DI BERNARDA ALBA
Teatro Argentina, 15, 16 novembre 1999 Rassegna stampa
“A monte della composizione c’erano i casi privati di Oehring, il suo passato traumatico (ahi! Troppo sbandierato), l’infanzia trascorsa insieme ai genitori sordomuti, di qui la ricerca sul linguaggio gestuale. Una autentica ossessione. […] L’unico elemento tenue dell’intera vicenda era la musica. E la musica ricordava, a tratti, i battiti del cuore. In scena un solo musicista il controtenore Arno Raunig. Strumenti e strumentisti erano tutti invisibili. Un pianoforte, un contrabbasso, una chitarra elettronica e certe fantomatiche presenze elettroacustiche disseminate tra serialità e rock. La danza di gruppo, gli assolo, del coreografo Schlömer erano invece sconsolati. Sapevano di cupo espressionismo, che è poi lo stile del Tanztheater di Schlömer. Una apoteosi dell’incomunicabilità”.
(Mya Tannenbaum, Rivisitato dai tedeschi García Lorca diventa anche più cupo, Corriere della Sera, 17 novembre 1999)
“La capacità di creare immagini, nessi, allusioni, a volte è straordinario. All’avvio dello spettacolo, il rito della vestizione della sposa è sontuoso come un’immagine di Velázquez e surreale come saprebbe un Buñuel dei nostri giorni: più volte i gesti si bloccano per alcuni secondi in un fermo-immagine alla moviola, naturalmente nel silenzio. Densi di pause di silenzio sono i movimenti del corpo di ballo, e allora nel teatro si ascoltano soltanto i loro respiri, il frusciare e vorticare degli abiti neri, la fisicità dominante dei corpi, capaci di offrire un’emotività forte, diretta. A quale pubblico si rivolge, quali competenze critiche esige? Quattro secoli fa, l’opera lirica si era imposta come spettacolo nuovo proprio grazie alla sua multimedilità. Ricordandoci, anche grazie alla sua esperienza di vita, che esistono linguaggi non usurati, capaci di forare il muro della non comunicazione: Oehring indica l’attualità possibile di questo primato, ma avverte che la strada è in salita”.
(Sandro Cappelletto, Nella casa d’una Kapò rivive il dramma di Lorca, La Stampa, 17 novembre 1999)
“Non è facile sezionare quest’impresa che alla superficie si potrebbe leggere come teatro danza, ma dove è appunto inutile e cavilloso staccare la complessa partitura musicale da quello che avviene in scena, ché la musica, amplificata, è anche dislocata stupendamente, provenendo da ogni parte della sala e delle quinte. Sulle tavole di scena, Schlömerr, che pare intendersi col silenzio, essendo molte sue coreografie concepite senza banda sonora e per far udire solo passi, respiri e battiti del cuore immaginati, imbastisce un’opera di straordinaria ricchezza luttuosa (Muerte, tod, sono gli elementi visuali e verbali messi in circolazione) illuminata in modo veramente esemplare. Ma, al di là dei singoli momenti, legati come si dovrebbero legare nel teatro danza onde non lasciare perigliosi vuoti, sono la tinta e l’umore dominati a tracciare le direttrici, è il caos talvolta denso e grand griugnol a dimensionare l’operazione”.
(Francesca Bernabini, Una Spagna postespressionista, La Voce Repubblicana, 18 novembre 1999)