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Il cammino irreversibile
13 luglio 1988
25romaeuropa.net

Luigi Nono, Claudio Ambrosini, Giacomo Manzoni

Como una Ola de Fuerza y Luz; Doppio Concerto Grosso; Ombre


Nell’ambito di un’esplorazione della musica contemporanea, centrale in questa edizione del festival del 1988 che vede come protagonisti anche Boulez, Xenakis e Bussotti, non poteva mancare un concerto che fosse un reale omaggio a tre dei maggiori compositori italiani, Luigi Nono, Claudio Ambrosini e Giacomo Manzoni. Le tre composizioni hanno un filo comune, lo sguardo “civile” e “politico” che non dimentica di osservare e riflettere sul mondo, anche nelle più coraggiose sperimentazioni nella quali il senso ed il suono si saldano in un tutt’uno. E così mentre la partitura di Manzoni, Ombre: alla memoria di Che Guevara (che non a caso ha un’assonanza con lo spagnolo “hombre”) composta nel 1968 ad un anno della scomparsa di Guevara – a cui è dedicata – suona come ulteriore omaggio nel sessantenario della nascita del grande rivoluzionario; l’opera di Luigi Nono (letteralmente, “come un’onda di forza e luce”), scritta tra il 1971 e il 1972 sulla scia degli eventi cileni, è dedicata alla figura di Luciano Cruz, protagonista della sinistra rivoluzionaria morto, come spesso accade a chi ha tanto lottato contro il potere, in circostanze misteriose.
L’interpretazione, animata da un certo trascinamento eroico è stata affidata all’Orchestra Sinfonica e Coro della RAI di Roma, affiancata dall’Ex Novo Ensemble, per il brano di Claudio Ambrosini che, fondatore e direttore del complesso nonché ex “pensionnaire” di Villa Medici, ha composto, proprio durante il suo anno di permanenza alla Villa, il Doppio Concerto Grosso, ponte tra passato e contemporaneo musicale, omaggio alla barocca anima romana e stimolo ad una più attenta percezione del suono.

IL CAMMINO IRREVERSIBILE
di Dino Villatico

Nel 1968, in un’intervista rilasciala a Franco De Poli sulla rivista “Il canguro”, Giacomo Manzoni dichiarava che i musicisti che lo interessavano di più erano Nono e Stockhausen. E così motivava il suo interesse: “Il primo mi sembra un esempio tipico di quella stretta unione tra ricerca e coscienza civile che è indispensabile alla vita dell’arte contemporanea; il secondo mi interessa per l’amore profondo, estraneo a ogni compromesso, che porta alla pura ricerca nell’ambito del materiale musicale” (1). Sono passati vent’anni, e molte cose sono accadute, anche nella musica. Nono e Stockhausen sono cambiati. Ma Manzoni coglieva assai bene, con lucidità, la direzione verso la quale si muoveva la loro musica. Riascoltare, dunque, oggi, musiche composte da Manzoni e da Nono in quegli anni (Ombre è del 1968, Como una ola de fuerza y luz del 1971-72) può diventare un’occasione per riflettere sul cammino percorso da questi due musicisti.

Allora, negli anni ’60 e nei primi anni ’70, non si dubitava affatto che bisognasse essere “moderni” e si sapeva, anche, con una certa sicurezza, che cosa fosse “moderno” e che cosa no. Erano anche gli anni in cui si discuteva molto di “impegno” e di “disimpegno”. Anche su questo punto, però, Manzoni aveva le idee chiare: “Il concetto di impegno va individuato innanzi tutto, e direi esclusivamente, nel materiale musicale stesso, nell’uso che se ne fa” (2). Aver dedicato Ombre alla memoria di Guevara, infatti, per Manzoni, non garantisce affatto l’impegno dell’opera: la garanzia è data dalla scrittura, da come l’opera è stata composta. Tuttavia non era poi casuale che un’opera composta in una maniera che si credeva insieme “scientifica” e di ricerca, e cioè sulla scia aperta da Schoenberg, potesse essere dedicata alla memoria di Guevara. I due aspetti apparivano assolutamente inscindibili. Si trattava, in fondo, di una forma di illuminismo. Dentro questa fiducia, però, il ventaglio di divergenti scritture era immenso. Per polemica si può, anche se ormai con qualche ritardo, accusare le avanguardie di quegli anni di “dogmatismo”, di imposizione dittatoriale di regole e leggi, di settaria inclusione di eletti ed esclusione di reprobi. Tra gli eletti Webern, tra i reprobi Stravinskij. Ma soltanto per polemica, e una polemica ormai consunta. Perché di fatto poche volte nel corso di questo secolo gli artisti sono stati così liberi come allora. Ma la libertà stava nell’inventarsi regole. Oggi, troppo spesso, credendo di sfuggire alle regole si cade tra le secche dell’imitazione, nei tranelli dell’effetto che strappa il consenso, si cede alla lusinga del caso che fa scalpore, si scimmiotta, deformandolo, un passato, incapaci d’inventare un presente.

L’intrico di emozioni, di ideologia e di razionalismo strutturale appare in Nono inestricabile, ma non come limite o condizionamento forzato, bensì come necessario spazio dentro cui il musicista agisce tutto intero. Quella che oggi può, infatti, apparire intransigenza di scuola e intolleranza di partito (ma al Teatro La Fenice Nono fa rappresentare Intolleranza 60: fu una serata di fischi, di gazzarra. Chi erano dunque gli intolleranti?), era in realtà una specie di umanesimo integrale. Ecco come Nono stesso racconta la nascita di Como una ola de fuerza y luz: “Negli anni prima di Allende avevo conosciuto a Santiago del Cile Luciano Cruz, uno dei dirigenti più amati del MIR (Movimento della sinistra rivoluzionaria). Lo ritrovai quando tornai nel Cile dopo la vittoria dell’Alleanza popolare e l’elezione del presidente Allende. Luciano aveva grandissima notorietà. Poco dopo venni a sapere della sua morte improvvisa e abbastanza misteriosa, pare per le esalazioni di una stufa in casa sua. Con lui avevo stabilito un rapporto di profonda comunanza e la sua morte, la cui notizia mi giunse mentre stavo lavorando su sollecitazione di Maurizio Pollini e Claudio Abbado, mi colpì profondamente. Fu proprio la notizia della sua morte a precisare i motivi della mia ispirazione. Come vedi non ho alcuna riluttanza a usare il termine ispirazione. In questo modo, su un testo di Huasi – un poeta argentino che viveva e lavorava a Santiago attivo anche nella lotta latino-americana – nacque Como una ola de fuerza y luz per soprano, pianoforte, orchestra e nastro magnetico. Desideravo che questa musica non si limitasse a problemi di innovazione del linguaggio e neppure alla esaltazione, per me quanto mai fascinosa, della musicalità di Maurizio Pollini. Avrei voluto che la mia musica fosse come uno spazio che si apre e si chiude, qualcosa come una vita che si estende e si richiude, qualcosa come una metafora programmatica ma libera. Pensai di usare il pianoforte soltanto a metà, cioè dal centro della tastiera in giù, e nello Studio di fonologia di Milano, con Marino Zuccheri, trasportai ancora più in basso il materiale sonoro del pianoforte in modo da ottenere un raddoppio delle zone verso il grave. Veniva così a crearsi un gioco acustico di rimandi, di echi, di battiti, e di pulsazioni tra il pianoforte suonato dal vivo da Pollini e quel raddoppio verso il grave affidato al nastro magnetico. La voce del soprano subiva anche lei delle trasformazioni sul nastro; avevo collocato inoltre cinque altoparlanti dietro l’orchestra in modo da ottenere una specie di sfondamento spaziale del tipo di quello che si può avere nelle grandi basiliche barocche. Ottenni in questo modo un’alternanza di scoppi, di violenze e di silenzi che si propagavano orizzontalmente nello spazio con effetti di avvicinamento e di allontanamento”. (3)
Il brano è steso sotto forma di intervista rilasciata a Enzo Restagno. Ma non può sfuggire il tono fortemente appassionato delle dichiarazioni. Soprattutto il fatto che Nono non ci nasconda le radici irrazionali di tanta parte della sua invenzione. Per Nono la ragione organizza, collega, combina. L’invenzione appartiene a una storia interiore che spesso sfugge allo stesso artista: se mai, dandole forma, ne chiarisce il senso, proprio la ragione. Nono non è veneziano a caso. Venezia è una città nella quale tanta parte dei rumori moderni mancano: per esempio, quello delle automobili. Camminare di notte per le calli di Venezia (di giorno c’è il frastuono consumistico dei turisti) fa riscoprire una dimensione tutta particolare del suono: il rumore dei passi che viene riflesso dall’acqua dei canali, la voce di chi parla che appare come fasciata di un silenzio magico, sospeso dentro un vuoto quasi irreale. È Nono stesso a confessarlo. Il progetto e poi la realizzazione del Prometeo, “tragedia dell’ascolto”, non sono stimolati soltanto dall’incontro e dall’amicizia di Massimo Cacciari, ma sono preparati da tutta un’attenzione di Nono al fenomeno del suono, al campo dove il suono si produce e quindi al silenzio. Nono ha parole illuminanti quando parla dei silenzi di Wagner e di Debussy (4). E, del resto, è assai significativo che quando Nono parla della propria musica, non ne parli mai in termini ideologici, ma sempre dal punto di vista della percezione sonora. L’ideologia lo stimola, la suggerisce: ma a generarla è l’orecchio.

In Manzoni è uguale la necessità di partire sempre dall’esperienza concreta del suono, ma è diverso l’atteggiamento del compositore. È come se Manzoni temesse di allentare le briglie della fantasia, di oscurare per un po’ il rigido controllo della ragione. Il che non produce affatto una scrittura arida, ma solo più consapevole, volontaristicamente consapevole. “Ombre è per me una tappa importante di una ricerca che ho iniziato già da parecchio tempo: e credo di avere risolto in maniera soddisfacente alcuni problemi che mi interessavano. Ad esempio sono sempre stato interessato al rapporto suono-rumore. Naturalmente non è un rapporto nuovo, e basta pensare all’uso antichissimo della percussione in orchestra per rendersi conto che il rumore organizzato, nella musica, è sempre esistito. Tuttavia oggi la questione si pone in maniera più avanzata. Per quanto mi riguarda, ricordo che – non conoscendo ancora Ionisation di Varèse – rimasi colpito fin da quando ero studente di conservatorio dall’uso che Berg fa del rumore, inteso come struttura musicale, nella Lulu” (5).

Tipico del momento, ma anche dell’atteggiamento compositivo di Manzoni, è l’uso di certi termini: “maniera più avanzata”, “struttura musicale”. Ma sarebbe troppo facile, e ingannevole, fare, oggi, dell’ironia. Ogni momento ha il linguaggio critico del momento. Quello di quegli anni era un linguaggio che faceva scelte precise, ma dichiarava apertamente quali fossero i criteri delle scelte. Oggi, per la paura di non apparire abbastanza disincantati, si finisce per mescolare tutte le scelte, per dichiararle tutte legittime, e quindi per rinunciare in fondo a qualsiasi scelta. Ciò lo si chiama libertà dalle regole. Ma, e se fosse soltanto pigrizia mentale? In sede critica le rivalutazioni sembrano oltrepassare qualsiasi decenza. Forse con Puccini si è stati ingiusti, e così pure con Strauss. Ma anche con Mascagni o con Castelnuovo-Tedesco? Basta non essere stati seriali per costituire un’alternativa all’ossessione seriale? Quell’ossessione nasceva da un bisogno di chiarezza. Da quale bisogno nasce, oggi, la paura di scegliere?

Sotto quest’aspetto interessantissima appare l’opera del veneziano Claudio Ambrosini. Sì, anche lui veneziano. E non credo che sia solo prodotto di influssi astrali. Forse. Ma non si può sapere. Certo, però, a Venezia il suono è ancora udibile come suono non tecnicizzato, come puro suono umano. Le città moderne hanno, infatti, sommerso l’insieme dei suoni tradizionali – passi sul selciato, voci, carri, porte e finestre che si aprono e si chiudono – con suoni meccanici, dai motori alle seghe elettriche, alle scavatrici, e così via. Il campo sonoro di una città è profondamente mutato. Si pensi poi che già in passato Venezia era una città particolare: invece di strade si percorrono canali, invece di carri si usano barche, si cammina cioè sulla più silenziosa delle vie, l’acqua. Il suono, nel cervello di Ambrosini, si affaccia come un turbine, un vortice, ma che si espande in uno spazio libero. Nel 1980 Ambrosini è il primo italiano a vincere la borsa di studio di Villa Medici. Ed è per un anno “pensionnaire” dell’Accademia di Francia a Roma. Anche Roma è una città molto particolare. La sua storia è particolarissima. Anche la sua storia musicale. È necessario fare i nomi di Palestrina, Frescobaldi e Corelli? Il veneziano Ambrosini pensa a Roma, allora, ad un’opera che sia radicata nella sua duplice esperienza di veneziano e di romano, sia pure solo di transito (ma nemmeno Frescobaldi e Corelli erano romani e in fondo nemmeno Palestrina: del resto la grande e bellissima Roma barocca l’hanno costruita un napoletano d’origine toscana, Bernini, e un ticinese, Borromini). Nasce così il Doppio concerto grosso. Scritto e dedicato a Villa Medici. Lo stesso titolo indica in che direzione si muova la fantasia di Ambrosini. Le scelte delle avanguardie, tra gli anni ’50 e gli anni ’70, erano state più che altro scelte di vocabolario: più che la costruzione interessava con che cosa e come costruire. Detto molto schematicamente, Ambrosini non rinuncia neanche a una delle scoperte di allora. Ma punta il suo interesse su un altro aspetto: proprio sulla costruzione dell’opera. Anzi, sotto certi riguardi, è un tornare all’opera chiusa, dopo tanto discutere di opera aperta. Ma poi questa costruzione deve imporsi come un percorso logico, coerente, che nasce dal modo stesso come si presentano gli elementi che lo costruiscono. Interagiscono così un’orchestra tradizionale, un “concertino” di tredici strumenti, e un pianoforte. I gesti sonori di ciascun gruppo e di ciascuno strumento all’interno del gruppo sono bene individuati. Quanto accade è il mescolarsi di questi gesti. Ma si ascolti con attenzione come ciascun gesto venga prodotto. La fisionomia nettissima nasce da uno studio attentissimo della percezione: non è tanto con che pezzi di suoni costruire un gesto che interessa Ambrosini, quanto quali pezzi di suono percepisca l’ascoltatore. È quasi un rovesciamento della concezione precedente. Ma, e qui sta il nodo della questione, l’attenzione fissata sul risultato, più che sul progetto, non scavalca la necessità di organizzarlo con coerenza. Il che obbliga a scelte. A rinunce. Perciò la musica di Ambrosini appare così personale, così caratterizzata e diversa dalle altre. Ma appare, anche, profondamente legata proprio a quella modernità che troppi si sono affrettati a dichiarare estinta. Da New York arriva voce che il post-moderno è definitivamente post anch’esso. Tra qualche anno, chi sa, qualcuno se ne accorgerà anche da noi. Per ora, Ambrosini è tra quelli che lo sapeva da tempo. E ha continuato a scrivere come se non ci fosse.

Note
(1) Autobiografia della musica contemporanea, Lerici, Roma, 1979, p.164.
(2) Autobiografia, cit., p.158. (Il corsivo è mio)
(3) Autori Vari, Nono, a cura di Enzo Restagno, EDT, Torino, 1987, pp. 51- 52.
(4) AA.VV., Nono, cit., pp. 16-17.
(5) Autobiografia, cit. pp.159-60.

Rassegna stampa

“Abbiamo avuto a Villa Medici il momento “classico” del Festival con le musiche di Iannis Xenakis, eccoci ora al momento “eroico”. L’eroismo anche dell’Orchestra della RAI che ha “sfidato” il Festival con particolari musiche d’oggi, in aggiunta all’eroismo sacrosanto degli autori e delle loro composizioni: Ombre di Giacomo Manzoni, Como una ola de fuerza y luz di Luigi Nono. È così entrato per la porta quel che sembrava non entrare più nemmeno dalla finestra. Memorabile evento: la musica, in una calda sera d’estate, riporta un suo impegno che pareva sopraffatto dal post moderno. L’impegno e cioè anche il fascino, la speranza, il mito, la nostalgia, i pensieri gravitanti intorna ad una “parola”: rivoluzione. “Cosa” d’altri tempi, questa parola è riapparsa a Villa Medici in tutta la bellezza di una esigenza nuova, profonda, sociale, civile. Tanto più importante, in quanto la riapertura della musica alla storia del nostro tempo è venuta da musiche “antiche” di Manzoni e di Nono”.
(Erasmo Valente, Ombre sul pentagramma in memoria del “Che”, l ‘unità, 15 luglio 1988)

Crediti

Musica Luigi Nono (Como una ola de fuerza y luz), Claudio Ambrosini (Doppio Concerto Grosso), Giacomo Manzoni (Ombre – in memoria di Che Guevara, 1968)
Direzione orchestra Gregorz Nowak
Direzione coro Fulvio Angius
Ensemble Orchestra Sinfonica e Coro della RAI di Roma, Ex Novo Ensemble (Aldo Orvieto, pianoforte; Alvise Vidolin, regia sonora; Daniele Ruggieri, flauto; Davide Teodoro, clarinetto; Pierluigi Fabretti, oboe; Diego Cal, tromba; Massimo Capelli, corno; Stella Cappellini, sax; Carlo Lazari, violino; Luisa Messinis, violino; Mario Paladin, viola; Alessandro Zanardi, violoncello; Mauro Muraro, contrabbasso; Annunziata Dellisanti, percussioni)
Solisti (Como una ola de fuerza y luz) Carmen Fuggis (soprano), Giuseppe Scotese (pianoforte)