Il concerto dell’Ex Novo Ensemble, in perfetta linea con lo spirito di questa edizione del festival, ha posto come obiettivo l’incontro tra il barocco e la musica contemporanea. Il programma, audace e fertile, compilato dal direttore Claudio Ambrosini, ha visto infatti alternarsi composizioni del XVII secolo e opere di alcuni dei maggiori autori contemporanei, lungo un dialogo ricco di sorprese e sottintesi, contatti e opposizioni, intrecci e rimandi.
Il concerto si è aperto dando spazio innanzitutto a due grandi musicisti del Seicento, entrambi veneziani come Claudio Monteverdi e Giovanni Gabrieli, di cui sono stati presentati rispettivamente l’Orfeo e due canzoni trascritte per l’occasione dallo stesso Ambrosini; a seguire, quasi senza interruzione per un balzo di tre secoli, un capolavoro di un altro compositore veneziano, Bruno Maderna, di cui è stata eseguita una nuova versione della Serenata per un satellite, del 1968.
Il programma si è dunque allargato all’Europa di oggi, di cui si sono state offerte alcune delle voci più significative, dagli italiani Salvatore Sciarrino e Aldo Clementi (con due composizioni, Lo spazio inverso e Scherzo, scritte appositamente per l’Ex Novo Ensemble), all’ungherese György Kurtág, con i suoi Games per solo pianoforte, fino ad alcuni dei più importanti compositori francesi del momento, Tristan Murail (Tredici colori del sole al tramonto) e Pascal Dusapin (Fist).
ATTUALITÀ DELLA MUSICA BAROCCA
di Franco Piperno
L’accostamento nello stesso concerto o nello stesso festival di brani di musica contemporanea a musiche seicentesche o primo settecentesche (i.e. musiche barocche, terminologia da impiegarsi solo nel senso di una delimitazione cronologica) non va considerato peregrino o casuale né scontato o provocatorio. Tre secoli di distanza se erigono un insuperabile baluardo cronologico non impediscono di verificare fondamentali affinità (di processi creativi, di utilizzazioni pratiche, di commercializzazione, di prassi esecutive, di modalità di fruizione ecc.) fra le due esperienze artistiche, tali da rendere proficuo, plausibile e illuminante tale accostamento. Musica barocca e musica contemporanea a ben guardare occupano sia nei favori e nei modi d’approccio del pubblico sia nelle strategie degli organizzatori e dei programmatori delle posizioni assai simili; musiche entrambe per ascolti meditati, impegnati, sorretti più da un interesse intellettuale e critico o dalla curiosità che dal semplice e pigro diletto.
Riproporre la vocalità di Caccini o Monteverdi, l’operismo di Cavalli, Sartorio o Landi, lo strumentalismo di Frescobaldi, M. Rossi, Merula, G.B. Vitali, Stradella od altri significa invitare il pubblico ad un ascolto assai concentrato, attesta la rarità, novità e varietà di queste musiche, non dissimile da quello necessario per la fruizione delle esperienze musicali postbelliche o per i più recenti esiti delle avanguardie. Musica d’élite, dunque, la musica barocca, e musica preziosa, colta, diversa, gran parte del suo successo odierno dipende forse proprio da questi tratti aristocratici con i quali oggi la si percepisce o la si vuole tout court connotare, tratti posticci peraltro e del tutto ingiustificati storicamente in quanto ne falsano la natura per modalità di produzione e consumo quotidiano, effimera e commerciale (e quanta musica d’oggi, triviale e qualunque, viene spacciata per un elevato prodotto artistico col celarne la pochezza ideale ed il modesto artigianato sotto una spessa coltre ideologica e programmatica…).
Ma tant’è: il fascino della riscoperta, dell’inedito, dell’inusuale che emana dalla musica seicentesca accompagna e sollecita il processo di allargamento del repertorio di ascolti in un pubblico sempre più competente ed avido di nuove conoscenze. Del resto è certo che raramente un’epoca musicale del passato ha messo a disposizione dell’ascoltatore e dell’esegeta di oggi tanta varietà di generi, di atteggiamenti stilistici, di esiti formali, di sperimentazioni e di itinerari soggettivi quanto quella barocca: rispetto alla produzione sostanzialmente uniforme, nello stile e nelle destinazioni, dei secoli precedenti, un gran tronco massiccio e nodoso, la musica del periodo barocco è tutta ramificazioni, eccezioni, deviazioni, trovate, sorprese, novità. Netta è la tendenza dei singoli musicisti a distinguersi stilisticamente gli uni dagli altri, a sbalordire il pubblico vuoi con virtuosismi esecutivi (si pensi al bel canto operistico o cameristico) vuoi con capricciose sperimentazioni (ad esempio il repertorio organistico di Frescobaldi o il primitivo violinismo di S. Rossi, Marini, Fontana, Farina, Castello ecc.); convinto l’impegno a sostituire alla concezione collettiva e collaborativa del far musica cinquecentesco una concezione individualistica e solistica che proietta al rango di protagonisti singoli strumenti (e nuovi come il violino, la tromba, il flauto traverso) e singole voci, che esalta la monodia e declassa la polifonia, che concentra sulla polarità concertante fra acuti e gravi, soprani e bassi, il nocciolo del pensiero compositivo. Tutto ciò determina una multicolore gamma di esiti artistici per i quali è norma esplicarsi sotto forma di contrasti, mutevolezze, varietà.
C’è un termine che rende efficacemente e complessivamente in una parola l’insieme di questi atteggiamenti e caratteri della musica barocca: “concerto”, termine che fin troppo ottusamente ci si ostina a considerare ancora solo relativamente a certi aspetti dello strumentalismo seicentesco e che invece ha, relativamente alla musica del periodo barocco, una valenza concettuale amplissima. “Concerto” significa conflitto e collaborazione, composizione di divergenze in un armonico assieme, alternanza fra momenti contrastanti, risalto e sbalzo ottenuti mediante brusche giustapposizioni di elementi diversi; il “concerto” vive di disomogeneità, di sorprese, di deviazioni inattese: tutto ciò a livello timbrico, melodico, armonico, ritmico, dinamico ed agogico. Al “concerto” si richiamano la summenzionata polarità acuto/grave dello stile compositivo barocco, lo stupefacente virtuosismo dei brani solistici (vocali e strumentali); ad esso vanno ricondotte le strategie compositive a contrasto quali recitativo-aria o soli-tutti, le sequenze di tempi e metri differenti nelle composizioni strumentali da camera o per orchestra, il costante impiego di piani sonori nettamente divaricati, di cambi di tempo e ritmo dall’effetto sorprendente.
Moltiplicando fra loro questi elementi ed altri più sottili ancora si ottiene un’infinita varietà di combinazioni immaginando la quale si può avere un’idea, ancora pallida, della caleidoscopica natura della musica barocca. Tutto ciò senza dubbio rappresenta il modo tecnicamente specifico e personale con cui gli artigiani seicenteschi del suono hanno espresso o riflesso lo spirito del proprio tempo ma è anche, se non soprattutto, conseguenza di una elementare legge di mercato: per la prima volta nel ‘600 si fa della musica pienamente e consapevolmente commercio, in maniera aperta, pubblica e concorrenziale con conseguente stimolo per iniziative personali, trovate originali, novità, stranezze, grandiosità e via dicendo. La musica è quanto mai prima una professione: si compone su commissione, si presta la propria competenza specialistica a complessi organismi produttivi come lo spettacolo operistico, si vive di ingaggi saltuari, di stipendi fissi erogati da istituzioni ecclesiastiche o da corti o da facoltosi mecenati, di lezioni private di canto, suono e ballo, si supplisce alla vita effimera del manufatto musicale con una produzione inarrestabile, ripetitiva e pur sempre alla ricerca del nuovo e del diverso (dicono qualcosa in proposito le oltre settecento cantate profane di Scarlatti).
Questa in estrema sintesi è la natura della musica barocca, questi i suoi tratti caratterizzanti dei quali il lettore attento avrà già notato quanti possono essere riscontrati anche nell’esperienza musicale del nostro tempo senza che sia necessario enumerarli qui. Ne consegue con piena evidenza l’attualità della musica barocca e la sua intima analogia con quella contemporanea: nell’accostamento dell’una all’altra l’utile gioco di rimandi e rispecchiamenti non può che illuminarle entrambe di una luce inusitata e talvolta inaspettatamente chiarificatrice.
L’OPERA DI GIOVANNI GABRIELI
di Claudio Ambrosini
Ciò che caratterizza la musica della Scuola Veneziana nel ‘500 è una vera e propria invenzione: l’uso dei cori spezzati o battenti o, come lo chiameremmo noi oggi, della stereofonia. Ciò che “batte” o viene “spezzato” tra le sorgenti (tutto nacque dal fatto che nella chiesa di S. Marco c’erano non uno, ma due organi) è il timbro strumentale, il colore del suono: l’organo in cornu epistolae “contro” quello in cornu evangelii; e poi fiati “contro” archi, voci “contro” strumenti, voci femminili “contro” voci maschili e cosi via in una dialettica orgiastica dei colori sonori (Vivaldi, alla Pietà, arriva ad avere una cantoria pensile per ciascuna parete: la quadrifonia, insomma) che i Veneziani ebbero la fortuna di poter ascoltare con qualche secolo di anticipo sulla “Klangfarbenmelodie” di Schönberg.
Contro la staticità della polifonia religiosa (e della società) romana, la repubblica illuminata della Serenissima non teme le novità, accoglie la “mobilità” e fa della ricerca artistica e intellettuale una delle sue bandiere.
Nella Toccata di apertura dell’Orfeo e nelle due Canzoni in programma (entrambe tratte dalla raccolta postuma delle Canzoni et Sonate… per sonar con ogni sorta de instrumenti, del 1615, una delle piu belle antologie dell’epoca) si è cercato di rendere, sia pure con gli strumenti d’oggi, questo umore, questo cangiare delle tinte, veloce e inafferrabile quanto la gibigiana, il riflesso luminoso, nelle case e nei palazzi, del tremolio dell’acqua inquieta dei canali di Venezia.
SU SERENATA PER UN SATELLITE DI BRUNO MADERNA
di Claudio Ambrosini
Il problema di che cosa voglia dire “interpretare” si fa particolarmente affascinante con la musica degli anni ’60 e ’70, con quelle opere aperte in cui è previsto, appunto, un grande apporto creativo da parte dell’esecutore. Se non che anche il concetto di interpretazione, esso stesso soggetto ad apertura, muta sottilmente connotazione e peso specifico quanto più cambiano le condizioni del momento dell’esecuzione da quelle di concezione dell’opera, con l’aggiunta che oggi i mutamenti di prospettiva avvengono ad una velocità altissima: non sono trascorsi più di 15 o 20 anni, eppure hanno – da un punto di vista esecutivo – forse quasi lo stesso peso dei quattro secoli che ci separano da Gabrieli.
In effetti interpretare davvero un lavoro come la Serenata significa (anzi deve significare) per noi oggi qualcosa di diverso da chi lo faceva cinque o dieci anni fa o persino proprio quella sera del 1969 in cui il pubblico ha potuto ascoltarla per la prima volta.
Per gli esecutori di allora si trattava di mettere in atto un modo nuovo di essere, di reagire alla provocazione creativa sprigionata dall’impaginazione del lavoro (non era per altro la prima opera del genere), si trattava di trovare un percorso tra i meandri di questa sorta di labirinto visto-in-pineta o soltanto perdersi e ritrovarsi di continuo, inaspettatamente diversi.
Ma questo oggi non basta. “Interpretare” si carica ormai di altri coefficienti: vuol dire rendere abilmente l’aura, il suono, il tipo di esecuzione (e di reazione) di quegli anni (la filologia deve ben esistere, anche per la musica contemporanea!) o si deve piuttosto far sentire il peso del tempo intercorso e aggiornare tutto, in primis la tecnica strumentale, arricchendola di tutti gli apporti (come per esempio i suoni multifonici dei fiati) recati a far musica negli ultimi vent’anni?
Si deve cercare di mantenere lo “stupore” di quegli anni o immettere tutta la capacità professionale di questi, dato che per noi, interpreti di adesso, è possibile operare in prospettiva, storicizzare il singolo frammento?
Come coniugare la “maraviglia” dell’estemporaneità o della coevità e l’affettuoso distacco dello specialista? Per loro era musica nuova, per noi è (“classica”) Nuova Musica.
E poi ancora, come cercare di far venir fuori l’autore, tra le righe, il personaggio, la sua sensibilità, il suo gusto per il “gioco” musicale (jouer, to play), l’arguzia, l’impegno più serio coniugato con il piacere di superare la più grande difficoltà tecnica con una strizzatina d’occhio?
Certo gli strati da elencare, i livelli, i piani di lettura sarebbero molti altri ancora (sulla partitura coesistono le note classiche e certi misteriosi disegnini; i pentagrammi si incrociano, divergono, esplodono come attratti o respinti da sotterranee forze magnetiche, ecc.), ma non era Michelangelo che diceva “più per via di cavar, che di mettere”?
Mettere, cavare, celare, celiare… Beh, ci piacerebbe davvero che in questa versione della Serenata ci fosse un po’ di tutto questo, nell’ipotesi assurda di poter magari riuscire a sorprendere Bruno e far sì che, se fosse qui, starebbe ad ascoltarci con un sorriso.
Crediti
Direzione orchestra Claudio Ambrosini
Musiche Claudio Monteverdi, Giovanni Gabrieli, Bruno Maderna, Salvatore Sciarrino, Tristan Murail, György Kurtág, Aldo Clementi, Pascal Dusapin
Ex Novo Ensemble Aldo Orvieto (solista, pianoforte), Alvise Vidolin (regia sonora e live electronics), Daniele Ruggieri (flauto), Davide Teodoro (clarinetto), Pierluigi Fabretti (oboe), Moreno Milanetto (trombone), Franco Perfetti (fagotto), Carlo Lazari (violino), Mario Paladin (viola), Carlo Teodoro (violoncello), Annunziata Dellisanti (percussioni e pianoforte)