Il concerto tradizionale che Villa Medici ospita da diversi anni nel contesto del Festival di Musica Contemporanea – ovvero l’esibizione dei musicisti dell’Accademia – questa volta ha ampliato il proprio programma ad includere al fianco delle opere di Paul Méfano e Marcello Panni, alcune partiture scritte appositamente per gli stessi gruppi protagonisti della serata, l’Ex Novo Ensemble e l’Ensemble 2e2m. Così, due tra le più stimate formazioni europee, si sono armonizzate in un’unica compagine esecutiva, stabilendo un dialogo profondo tra Italia e Francia, e interpretando alla perfezione lo spirito più autentico del Festival. Oltre quindi l’atto terzo di Micromégas di Méfano e il TangoMix di Panni, che ha raccolto in unico collage 24 tanghi diversi, sono state eseguite L’offrande à Vénus di Suzanne Giraud, La Confessione Impudica di Bernard Cavanna (che rielabora uno degli ultimi romanzi dello scrittore giapponese Junichiro Tanizachi), e Veneziano di Claudio Ambrosini, audace tentativo di fusione timbrica tra due strumenti “primedonne” come clavicembalo e pianoforte. A dirigere queste ultime composizioni citate è stato chiamato Yves Prin, una delle più note bacchette francesi.
BAROCCO E TENDENZE: IL RECTO E IL VERSO DI UNA IDENTITÀ STORIOGRAFICA
di Giovanni Morelli
Il termine “barocco” giunge alla storiografia musicale in abiti dimessi, effettivamente ben poco ancora connesso a quei sensi tardo rinascimentali o della grande associazione illusoria o delle grandi visioni degli sdoppiamenti speculari e della virulenza metaforica che ha indotto nella storia di altre arti la creazione di una specie di “categoria dello spirito” che porta il suo nome. Sghembo nella datazione (in genere si attribuisce ad opere nettamente o profondamente solo e soltanto settecentesche), neutralizzato nella connotazione negativa (Rousseau stesso infatti, ai suoi tempi usava “in diretta”, baroque e, indifferentemente, gothique per dire brutto, deforme o malmesso a gusto), barocco in musica vuol dire ora poco più di “pre-classico” o “pre-romantico”.
Nel contempo però significa anche fase di avvicinamento alle conquiste della “fine della retorica” e della fine della persuasività tirannica assoluta dei testi (vuoi nel senso della estrema loro coerenza funzionalistica, vuoi nel senso della loro manichea eccellenza e lungo tirocinio della coscienza estetica nel lavoro artistico dei musicisti).
Questo effetto un po’ paradossale (il barocco in musica sarebbe un collasso storico della categorialità del barocco) è una giusta interpretazione critica che del Settecento musicale ha fatto il Novecento; precisamente nel Novecento musicale, quella larga fascia di Novecento che, forse o anche, per mimesi storicistica, ha riconosciuto che i Lebensmomente della creazione musicale Settecentesca, come nel Novecento maturo, sono “plurali” sono molti fra molti, sono espressioni oggettivate da tendenze. Conseguentemente questa coscienza dell’arte come tendenza può essere riferita alla conquista di una coscienza della irrecuperabilità, se non per metafore ideologiche stantie, della committenza religiosa dell’arte; una committenza perduta sia nel mondo antistorico dei cattolici, per i quali l’arte era un sistema per convincersi della inesistenza delle evoluzioni, sia nel mondo critico dei luterani, per i quali essa arte era una divinizzazione tanto dal “moderno” come vittoria sull’errore autoritario papista ecc., quanto dalla libertà condizionata del pensiero umano individuale sempre in attesa di riconoscimenti del successo degli individuali contatti con la verità.
In questo senso, il Novecento delle tendenze, il Novecento della ricerca, da parte degli autori, di esperienze della personalità come forma vivente di una tendenza, e delle opere come forme vissute di quella ricerca (episodicamente, fra episodi), proprio sul lato della creatività, ha compreso il Settecento (dapprima condividendone neoclassicamente le poetiche sparse, poi assumendone le sembianze etiche) più di quanto non abbia fatto la storia della musica professionale (quella dei dottori e dei professori della Musikwissenschaft).
Contro una visione disturbata che attribuiva sempre al barocco musicale caratteri di diversa impoeticità (vedi la pretesa chiusura linguistica del tonalismo armonico là come pastoia da superare; vedi la sua pretesa abitudine al servilismo raffigurativo; vedi l’accentuazione del dilettantismo, e altre immoralità), il Novecento scoprendo il Barocco come arte della tendenza ha scorto in quel procedere (creazione autonoma di parziali relazioni semantiche dell’agire: subito “riviste” dall’autore che si “allontana dall’oggetto” e “creato per vedere com’è”, giudicandolo per quello che è nel suo farsi elaborazione tecnologica del senso, o imponendo orientamenti fisici all’ordine della materia) un antecedente diretto delle sue poetiche: prima fra tutte quella dell’apprezzamento interno della invenzione di nuove “naturalità” scientifiche (l’aura del laboratorio, dell’esperimento chimico, della dimostrazione di una impensata legge fisica, la confluenza di più teorie in sintesi provvisorie supportate da verifiche tecnologiche).
Se il barocco delle tendenze è un’arte che rispetta le sue materie (a volte trattandole da feticcio effettivo di cui si venera l’indispensabilità essenziale: senza strumenti niente musica!) non senza tentarle evolutivamente (vedi i perfezionamenti tecnologici o le forzature liminari delle loro potenzialità d’uso, tanto in un violinista barocco che lavora sulla sua “messa di voce” quanto in un virtuoso novecentesco che lavora accanto all’autore per sconfinare d’ogni dove nella prassi esecutiva) esso è pure un’arte che s’impegna a sostenere la realtà di un’epoca della natura che svolge storicamente là quando e dove l’umanesimo si intende rivolto per una giusta metà all’umanità e per l’altra alla Natura (al fine di modificarle entrambe). Non a caso, evitando diagnosi delle loro opere che si richiudono a guscio ad isolare le loro esperienze artistiche ad espressione della loro unica personalità, non meno uniche, in quanto esperienze di tendenza, le figure di Bach, Haendel e Rameau, possono essere “tradotte” in termini di “progetto” orientato, fino ad essere ricondotte, magari spersonalizzate, a dispetto di tante pregresse avventure esegetico biografiche, a labels di ambiti sperimentali di tendenze specifiche di un disegno storico scientifico diversamente orientato.
Ad Haendel si potrebbe cosi riferire il piano di ricerca di sincronica omologazione stilistica europea quanto mai sospensiva o inibitiva di altre tendenze volkisch neo o vetero nazionali; a Bach la diacronica convenzione sintetica della coscienza compositiva, via via di vecchio e nuovo, di abitudine a decondizionamento, di scientifico e effettivo, di impressivo ed espressivo: nel lavoro di coartazione dei portati storici, passati e presenti, convenuti al testo; a Rameau l’impegno di rendere “più naturale la natura” inducendo nell’analisi della materia sonora l’artificio della simulazione di un sistema fisico di cui, enfatizzando le potenzialità enormi di eccezioni alla regola, ricavare nuove immagini della verità del mondo.
Si spiega in questi termini il destino che stringe studio (o passione) per la musica contemporanea: nella pluralità dei loro Lebensmomente, per affinità di struttura, si attua una relazione che scavalca la continuità storica ricreando una continuità storica.
VENEZIANO (VIVALDI HA SCRITTO 600 SACRE)
di Claudio Ambrosini
Non so per quale ragione, dopo che il pianoforte soppiantò il clavicembalo nel corso del ‘700, non si sia più pensato di riaccostare i due strumenti in un concerto che li veda protagonisti. Non certo per le (apparenti) esigenze di potenza sonora dato che, all’interno della compagine orchestrale, molti sono gli strumenti sopravvissuti al passato con caratteristiche acustiche assai meno penetranti e personalizzate. Più probabilmente allora per ragioni di protagonismo, così che, per quasi tre secoli, i compositori si sono lasciati sfuggire l’occasione di creare uno degli impasti timbri per me più stimolanti: la somma di pianoforte e clavicembalo.
Veneziano lavora sulla sintesi timbrica, ma si porta ovviamente dentro anche il suo esatto contrario, l’antitesi (talvolta teatrale) tra le due “primedonne”, confronto che si espande poi continuamente in una più generale lotta o alleanza con l’orchestra a seconda che, nel corso dell’opera, venga messa in atto una strategia o un’altra, un sistema di proiezioni omofoniche o polifoniche, una ritualità da concerto grosso o da concerto ottocentesco (ancora una volta rispettivamente sintetiche o antitetiche).
Per quanto riguarda il sottotitolo, che allude – anche qui un ribaltamento di prospettiva – al (pre)giudizio di Stravinskij su Vivaldi, dirò soltanto che esso sta al titolo esattamente come il timbro pungente del clavicembalo sta a quello aulico e aristocratico del pianoforte: è il suo mordente, anche in senso squisitamente musicale. Qualche secolo fa a Tiepolo fu chiesto, da parte di benpensanti scandalizzati, perché avesse osato dipingere, negli affreschi di Palazzo Labia a Venezia, un servitore negro proprio a fianco della marmorea, biondissima Regina di Cipro. Il Maestro rispose: “perché mi serviva un colore scuro in quel punto”.
Veneziano, che viene oggi presentato in una versione ad organico leggermente ridotto, è stato commissionato nel 1985 dalla RAI ed è dedicato a Enzo Cucchi.
Crediti
Direzione Yves Prin
Musica Bernard Cavanna, Suzanne Giraud, Claudio Ambrosini, Paul Méfano, Marcello Panni
Interpreti Irene Jarsky (Soprano), Bernard Fabre-Garus (Baritono), Renaud François (Flauto), Reynald Parrot (Oboe), Rémi Lerner (Clarinetto), Jean-Louis Chautemps (Sassofono), Françoise Gagneux, Bernard Balet (Percussioni), Serge Garcia (Violino), Sylvie Altenburger (Alto), Robin Clavreul (Violoncello), Bruno Duval (Contrabbasso), Alys Lautemann (Arpa), Pablo Cueco (Zarb).
Ex Novo Ensemble Franco Perfetti (Fagotto), Franco Poloni (Corno), Daniele Ruggirei (Flauto), Aldo Orvieto (Pianoforte), Annunziata Dellisanti (Percussioni), Fabiano Maniero (Tromba), Adriano Ambrosini (Clavicembalo)