Nato dalle ceneri della compagnia Teatro e Danza La Fenice di Carolyn Carlson e abituato a firmare a più mani le proprie coreografie, il gruppo Sosta Palmizi ha presentato questa volta un lavoro del solo Roberto Cocconi, dall’evocativo titolo di Morgana: oltre il nome della fata, infatti, “Morgana” indica anche una fenomeno di rifrazione della luce presente nello stretto di Messina, acquistando così una doppia accezione di illusione e miraggio. “Morgana – racconta Cocconi – è la rappresentazione di frammenti di storie mai raccontate. Storie uniche, di solitudine, che appartengono alla vita di ogni persona, che appartengono alla storia dell’umanità. Storie senza tempo che sono già accadute, che sono sempre accadute. Storie sospese nell’etere, che viaggiano dimenticate, fino a che non trovano qualcuno che le faccia rivivere. Morgana è quel magico giardino in cui tutto ciò che è dimenticato riprende vita. Morgana è il sogno, il ricordo, è forma evanescente, a volte dolce, sottile, a volte dura, spietata. Tre personaggi si danno appuntamento nel giardino di Morgana. Diventano per gioco narratori ed interpreti di vecchie solitudini, di affetti dolci, di profondi tormenti. Le situazioni cambiano e i personaggi mutano: come frammenti di filigrane”.
LA NUOVA DANZA ITALIANA
di Leonetta Bentivoglio
C’è una giovane coreografia che parla, in Italia. Dai balbettamenti dei primi anni 80, si è approdati allo spessore di un discorso dotato di concretezza autentica. Fresca per stimoli entusiastici, calda per appassionata convinzione, la nuova danza in Italia si muove forte, corre in espansione, gioca coi riflessi del teatro, del cinema, delle arti visive. E la considerazione ormai anche internazionale del fenomeno (il Festival di Chateauvallon dedica quest’anno alla giovane coreografia italiana un’ampia, importante sezione) non è che una testimonianza in più di un particolare momento di felicità creativa.
S’è identificato un percorso, s’è raggiunto uno “stile”: emerge un marchio, una riconoscibilità di tendenza. Oggi, al di là di qualsiasi compiacimento nazionalistico, la sperimentazione italiana in danza semplicemente “è”: esiste, procede. Si dimostra in crescendo quantitativo e qualitativo. Si dichiara come movimento che ha una sua storia ed una sua labile e sfaccettata, ma reale, fisionomia. Guardiamole entrambe: il carattere della danza sperimentale italiana è infatti intimamente legato alla sua rapida genesi.
Non c’è stato, nella storia contemporanea della danza in Italia, alcun compatto movimento di avanguardie storiche. L’unico codice vigente, fino agli anni 60 almeno, è stato quello del balletto classico-accademico: una tradizione aurea e un riferimento radicatissimo ed esclusivista nella cultura di danza italiana. Quegli isolati pionieri della danza libera che per l’Italia hanno viaggiato e insegnato (per esempio i coniugi Sakharov) non hanno mai determinato una reale scuola di pensiero e di diffusione di codici alternativi: solo fenomeni epigonali. E se il Futurismo, tra la fine degli anni 10 e gli anni 20, dalla danza fu sedotto fortemente, e in questa direzione giocò più di una carta interessante, la provocazione futurista non fu messa a frutto in senso specificamente coreografico. Quegli stimoli, in realtà, furono raccolti e sviluppati in Germania (pensiamo alla diffusione che il “Manifesto della danza futurista” ebbe nella scuola del Bauhaus, la stessa da cui nacque il Balletto triadico di Oskar Schlemmer) e persino in Russia (consideriamo i legami tra futurismo e costruttivismo nell’estetica russa del balletto): paradossalmente più che in Italia. Dove gli ideali di una nuova coreografia definiti da Marinetti a livello teorico restarono delimitati a quest’ambito.
Fu in realtà soltanto una forte suggestione pittorica la concreta influenza che ebbe il futurismo nella danza teatrale italiana. Una fascinazione tutta esterna che non produsse tracce sul dinamismo interno del danzare: in onore e a vantaggio del balletto, i futuristi italiani furono grandi scenografi (Prampolini), autori di visionarie, favolistiche metafisiche cornici di spettacolo (Depero), e ideatori di happenings preveggenti rispetto agli sviluppi successivi della “performing art” (Marinetti). Ma la storia della danza è soprattutto, innanzitutto, storia del movimento: e il futurismo non seppe incidere sulla ragion d’essere teatrale del movimento.
La trasformazione “genetica” del movimento – o forse l’idea della possibilità di questa trasformazione, la constatazione di un’avvenuta alterazione espressiva: di una differenziazione reale, insomma, rispetto alla delimitazione di codice costituita dall’accademismo – giunse in Italia da lontano: dagli Stati Uniti soprattutto, con la diffusione delle nuove tecniche di formazione alla danza (Graham, Limón, Cunningham). E poi (ma solo in seguito: dopo la rivelazione e l’assorbimento del Tanztheater tedesco) anche dalla Germania. S’apriva intanto il mercato italiano (clamorosamente, persino in eccesso) alla grande danza internazionale: un turbine di scoperte finì per investire il pubblico. Un “boom” – parola odiosa, ma efficace – che ne ha modellato il gusto e aperto lo sguardo. Che ha insegnato i mutamenti avvenuti molto più di qualsiasi nuovo verbo pedagogico parallelamente introdotto (spesso in modo caotico e approssimativo) nelle scuole di danza italiane. E ha stimolato i più giovani ad uscire: non solo oltre confine (per imparare, guardare, studiare), ma anche, più metaforicamente, dai codici delimitati della danza stessa. Che s’avvicinava al nuovo teatro, che assorbiva dalle arti visive e dalla performance, che si lanciava alla scoperta dei video.
Così, prima timidamente, poi via via con una sempre più eccitata e fervida consapevolezza, alcuni tra i molti danzatori italiani si sono fatti autori: rivelandosi lontani, drasticamente distanti dal “modernismo” stereotipo della “prima” danza contemporanea italiana (quella anni 70: prevalentemente grahamiana e tendenzialmente narrativa ed enfatica).
I referenti più importanti, i giganti dai quali farsi attraversare, sono stati Merce Cunningham e Pina Bausch, due poli estremi, emblematici, della sperimentazione occidentale: astrazione da una parte, espressionismo dall’altra. Danza pura, linguaggio che basta a se stesso, spersonalizzazione siderale, sublimazione del corpo in Cunningham. Danza-teatro, anti-atletismo, profonda individuazione psicologica ed espressiva degli interpreti, drammaturgia gestuale, e totale, in Pina Bausch.
Ma è sempre di due poli che si tratta: tra questi estremi esasperati pulsa un intreccio intenso e articolato di altri artisti dai quali molto s’è attinto. E non sono soltanto coreografi: la giovane danza italiana nasce pure dai riverberi delle mitiche apparizioni anni 70 (Kantor, Wilson, la “prima” Meredith Monk), dai riflessi del teatro di ricerca nazionale (i Magazzini e altro), dagli sguardi incrociati alla letteratura e alle arti plastiche.
Nasce, soprattutto, da una prepotente volontà di nascere. Spesso, nella sua breve storia, si fa arrogante e presuntuosa: vuol arrivare là dove non può; oppure copia male i suoi modelli; altre volte è rozza nel linguaggio, tecnicamente abbozzata ed insicura. Ma è vitale, recettiva, curiosa, vibratile; è un fatto che respira, è un’interessante voglia di futuro: anche nell’arroganza. E oggi si dilata, è epidemia di gruppi e tentativi.
È cronaca di compagnie disseminate ovunque: un panorama che si moltiplica ogni anno. È teatro che ama il “racconto” (perché non è mai puramente astratta la danza italiana) ma sempre evitando la didascalia e il descrittivismo; è coreografia non atletica né tecnicistica (come molta nuova danza americana) ma piuttosto espressiva, teatrale, punteggiata di gestualità, di danza “comportamentale”; è partitura di movimenti che tende a utilizzare la musica più come atmosfera (o colonna) sonora e elemento di contrappunto che come partitura speculare della danza; è, infine, teatro che ama gli elementi scenici invadenti, i materiali concreti, i referenti visibili. Senza che mai la danza resti sola ed esclusiva, protagonista astratta di una scena astratta: piuttosto, sempre, è danza che vuol contaminarsi con le “cose”, le presenze di materia, gli oggetti. Ed è anche qui, proprio da questo punto di vista, che si definisce la sua sostanza “calda”: lontana dall’efficientismo tecnico, dal corpo “tecnologico”, caro a tanta sperimentazione altrove. Ecco detti alcuni punti di contatto tra i gruppi italiani: ma le differenze, all’interno di questo medesimo tronco, sono infinite. Quanto distano, tra loro, le fisionomie: quanto poco somigliano, per esempio, i siciliani di Efèsto al romano Enzo Cosimi. Quanta scarsa affinità tra gli ombrosi e primitivisti Sosta Palmizi, di diretta ascendenza carlsoniana, e il romano Fabrizio Monteverde, letterario e neo-romantico. Oppure, ancora, quanta poca familiarità tra il lavoro fosco e drammatico del complesso Vera Stasi, nato e cresciuto a Roma anch’esso, e il morbido immaginario al femminile della milanese Luisa Casiraghi, un’altra “figlia” della Carlson. E i fiorentini di Parco Butterfly, con la loro intensità visionaria, non proclamano forse esplicitamente un’affinità più diretta con la compagnia teatrale dei Magazzini che con altri gruppi di danza? E quanto davvero conta affiancare, solo perché entrambe le coreografe sono italiane, l’energia furiosa di Adriana Borriello, formata all’esperienza del gruppo fiammingo Rosas, alla delicatezza, le sfumature, l’ambiguità, il gusto “alla francese” della veronese Laura Corradi?
Insomma: c’è un mare che cresce, tutti vogliono dire e creare, e tutti in modo diverso. Seppure un timbro, una luce, un calore mediterraneo, e soprattutto quella certa serie di abitudini metodologiche di cui s’è detto, rendono ormai riconoscibile un “italian style”.
Oggi, di questo stile, l’Accademia di Francia a Roma prende atto. E in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune, produce quattro creazioni italiane. Una decisione significativa per lo sviluppo della nuova danza; e una cornice di prestigio, quella del festival Roma-Europa, pronta ad accogliere il progetto. I quattro coreografi prescelti (con una selezione ardua, vista la quantità del materiale a disposizione) sono due uomini (Roberto Cocconi e Enzo Cosimi) e due donne (Lucia Latour e Laura Corradi); due sono romani (Latour e Cosimi) e due settentrionali (Cocconi di Udine e Corradi di Verona). Rappresentano, insieme, una fetta di qualità riconosciuta della coreografia di ricerca italiana. Ma non è questo il punto: la qualità senza dubbio è anche altrove.
Due, in realtà, sono stati i criteri della selezione. Ancor prima che quattro gruppi sono stati scelti quattro progetti di spettacoli. Sollecitati, comunque, all’interno di un medesimo filone: quello della ricerca, appunto. Una precisa scelta di campo che riflette la fisionomia culturale di un festival, Romaeuropa, prevalentemente votato all’esplorazione della danza nuova. E questo è stato il primo criterio. Il secondo: puntare sulle differenze, più che sulle somiglianze. Per dare anche all’estero (il progetto sarà esportato) un quadro il più possibile emblematico di una situazione in fermento: differenziata, appunto.
Ecco dunque il “visivo” per eccellenza di una coreografa come Lucia Latour, autrice di luci, colori, movimenti, in una concezione fortemente architettonica delle relazioni tra i fattori. E in un’avventura di linee e spessori, immagini e volumi, esplorazioni del rapporto tra figura umana e spazio scenico, corpo e artificio teatrale, che definisce un racconto “cinematografico”. Racconto senza storia, certamente: costruito per rimandi e citazioni, spunti tematici e salti nel fantastico. Ma pur sempre di un racconto costruito si tratta: edificato su netti presupposti d’intercodice, in un viaggio di andata e ritorno circolare tra danza e immagine, segno dinamico e segno grafico.
Ecco invece Morgana, di Cocconi, trio per una danzatrice e due danzatori, tutto cresciuto su un procedimento di composizione “work in progress”: materiali di danza sviluppati per accumulazione e per progressiva selezione e distillazione, come sempre accade nella dimensione creativa instaurata da Carolyn Carlson. Un mondo da cui Cocconi, che è membro dei Sosta Palmizi, deriva in pieno.
Ecco l’eros nero di Cosimi, la sua brusca sensualità, la sua ispida rabbia, che oggi si fa pronta ad affrontare, ancora una volta con un trio (ma scendono in campo due donne e un uomo, stavolta) la video-arte e la scultura tecnologica (come già in Sciame). Ma approfondendo ed esplorando nel dettaglio psicologico – grazie alla formula ridotta – il suo percorso espressivo. Ecco Laura Corradi che sviluppa le suggestioni di un romanzo, Il profumo di Patrick Süskind, in un’intrigante ode all’olfatto. Preannuncia, questa coreografa femminilissima nel segno, un’eleganza e leggerezza di “colore” drammaturgico che pare appena odorosa di essenze surrealiste.
Rassegna stampa
“La gestualità di Morgana, essenziale ed elementare come il linguaggio delle favole per i bambini, ricorda nell’andamento a flussi e sospensioni di energia, José Limon e Merce Cunningham, le tecniche che Cocconi ha assimilato prima dell’incontro con Carolyn Carlson.
Lo spettacolo, prodotto dal festival Romaeuropa, dal Comune di Roma e dal cantiere internazionale d’arte di Montepulciano, non segue un coerente sviluppo narrativo. I tre personaggi, Francesca Bertolli, Gianni di Cicco e Cocconi, vivono in forme evanescenti gli echi e le suggestioni di un passato lontano. I loro costumi, tute e larghe gonne con ampie volute in un disegno spiraliforme, ricordano per un verso quelli indossati dai danzatori del Balletto Triadico di Schlemmer e per un altro le stilizzazioni dell’abbigliamento rinascimentale.
I tre diversi colori dei costumi, grigio, rosso e oro, scandiscono la divisione in altrettanti parti dello spettacolo, senza bruschi arresti, ma con qualche piccola caduta di tensione. Il rosso del Rinascimento si tramuta in oro in una festa finale, più evocata che tangibile, e riporta al clima cortigiano, elegante e raffinato di Simone Martini, dei Lorenzetti e di Gentile da Fabriano.
Il Rinascimento serpeggia anche in alcune modulazioni sonore dei musicisti Andrea Lesmo e Luca Colarelli, e nei movimenti danzati il cui plasticismo ricorda i quadri di Piero della Francesca”.
(Francesca Bernabini, Il rosso del Rinascimento tramutato in oro, Corriere della Sera, 30 luglio 1988)
“Troppi sguardi sbigottiti e perduti, troppe attonite ricerche di qualcosa che pare incomprensibile e introvabile, un’atmosfera di malessere adolescenziale un po’ irritante, nonostante la freschezza delle intenzioni e certe improvvise virate di energia nella composizione. Anche in questo caso – come in quello di Laura Corradi – le ottime condizioni di partenza – credito e tempo sufficienti, spazi adeguati, una cornice di indiscutibile prestigio – sembrano aver compromesso certi delicati equilibri interni alla giovane danza nostrana, abituata a germogliare in condizioni di semiclandestinità, ma col vantaggio di poter creare opere su misura per la propria ispirazione e le proprie forze. Ciononostante Morgana […] contiene alcuni nuclei positivi: conferma l’ottimo talento di Cocconi come danzatore, rivela le doti di Gianni di Cicco e valorizza la grazia di Francesca Bertolli, consentendole, però, forse un po’ troppo, di indugiare nel suo ruolo di fanciulla sperduta. Offre infine anche spunti interessanti sul piano dinamico, in un bel duetto fra i due ragazzi e in un trio, assai ben composto, nella prima metà del lavoro. Molti applausi”.
(Donatella Bertozzi, Alla ricerca di qualcosa che non c’è, Il Messaggero, 30 luglio 1988)
Crediti
Coreografia Roberto Cocconi
Ensemble Sosta Palmizi
Musica Andrea Lesmo, Luca Colarelli
Luci Paolo Mazzon
Costumi Margherita Mattotti
Interpreti Francesca Bertolli, Roberto Cocconi, Gianni Di Cicco
Produzione Festival Romaeuropa, Assessorato alla Cultura del Comune di Roma, Cantiere d’Arte Internazionale di Montepulciano, Sosta Palmizi