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Accademia di Francia
dal 23 al 27 Giugno 1992
25romaeuropa.net

Carmen Cortés / Aurora Vargas / Blanca Del Rey / Enrique Morente

Le notti del Flamenco


Quattro appuntamenti, dedicati interamente ai canti, alle danze ed ai ritmi andalusi, per scoprire la cultura flamenca che non è solo un’arte e una tecnica, ma soprattutto un modo di sentire e di esprimersi.
Il primo appuntamento è con la Compagnia di danza di Carmen Cortés, nativa di Barcellona e formatasi alla scuola di Mario Maya e Goyo Montero. Cantes de Ida y vuelta, diviso in due parti, traccia una sorta di geografia flamenca: mentre la prima parte con la Colombiana, la Milonga-Vidalita e la Guajira, tutti cante di origine ispano-americana (appartengono infatti al folclore argentino e cubano), traccia una storia del flamenco oltre Oceano in cui i temi sono quelli del mondo contadino, nutrito di passioni “primitive” (gelosie, amori, tradimenti); la seconda parte, con la Soléa, la Alegría, la Farruca, la Rondeña-Siguiriya ed il Tangos-Buleria, racconta il flamenco spagnolo, quello per cui il bailor, rispondendo al cante ed al toque, crea la sua personale coreografia, espressione di una vasta gamma di sentimenti e passioni. Secondo appuntamento con la danza è Pasión flamenca di Blanca del Rey, ormai un punto di riferimento per la cultura spagnola. Le sue coreografie nascono da una profonda conoscenza della tradizione che le permette, ogni volta, di creare e rinnovare in piena libertà sulla base di una tecnica elaboratissima: le sei coreografie che costituiscono lo spettacolo sviluppano alcuni degli stili e delle danze fondamentali del flamenco, dalla siguiriya, alla soléa, dalla alegría alla bulería, per finire al tango, dove l’improvvisazione lascia all’interprete una grande libertà di intervento sulla struttura.

Accanto alla danza è sicuramente il cante ad occupare all’interno di questa cultura un posto a sé. Essere cantaor significa possedere caratteristiche vocali molto diverse da quelle necessarie al canto melodico, è sufficiente ascoltare Aurora Vargas o Enrique Morente, protagonisti delle altre due “notti”, per comprendere come la voce flamenca necessiti di una capacità emissiva particolare, di un tono velato e rude e di un registro medio grave. E mentre Aurora Vargas presenta uno spettacolo di canto che esalta la sua voz gitana, ricca di rajo, ossia capace di ferire e commuovere, il cantaor payo Enrique Morente, interpretando le Canciones di García Lorca, mostra tutta la verve innovativa che lo ha reso uno dei più amati e discussi (dai puristi) cantaor per quel modo spregiudicato con cui, sperimentando ed introducendo novità stilistiche, ha liberato il flamenco dal suo immobilismo creativo.

 

IL DUENDE E I SUONI NERI DELL’ARTE
di Federico García Lorca

Chi si trova nella pelle di toro distesa tra il Jùcar, il Guadalete, il Sil o Pisuerga, sente dire con frequenza misurata: “Questo ha molto duende“. Manuel Torres, grande artista del popolo andaluso, diceva ad uno che cantava: “Tu hai voce, sai bene gli stili, ma non trionferai mai, perché non hai duende“.
In tutta l’Andalusia, rocca di Jaen o conchiglia di Cadice, la gente parla continuamente del duende e lo scopre in quello che vede e sente, con sicurezza d’istinto. Il meraviglioso cantaor El Lebrijano, creatore della Debla, diceva: “I giorni che canto con duende nessuno ce la fa con me”; la vecchia ballerina gitana La Malena esclamò un giorno, ascoltando Brailowski che suonava un frammento di Bach: “Olé! Questo ha duende!”, ma rimase annoiata ad ascoltare Gluck e Brahms e Darius Milhaud. E Manuel Torres, l’uomo di maggior cultura viscerale che io abbia conosciuto disse, ascoltando lo stesso Falla che suonava il suo Notturno del Generalife, questa splendida frase: “Tutto ciò che ha suoni neri ha duende“. Non c’è verità più grande.
Questi suoni neri sono il mistero, le radici che affondano nel limo che tutti conosciamo, che tutti ignoriamo, ma da dove ci arriva ciò che è sostanziale nell’espressione artistica. Suoni neri, disse l’uomo del popolo spagnolo, coincidendo con Goethe, che dà una definizione di duende quando parla di Paganini: “Potere misterioso che tutti sentono e nessun filosofo può spiegare”.

Così, dunque, il duende è un potere, non un operare; è un lottare e non un pensare. Ho sentito dire da un vecchio maestro di chitarra: “Il duende non sta nella gola; il duende sale da dentro, dalla pianta dei piedi”. Cioè, non è questione di capacità, ma di stile vivo; cioè di sangue; cioè di vecchissima cultura, di creazione in atto.
[…] I grandi artisti del sud della Spagna, gitani o flamenchi, sia che cantino, sia che ballino, sia che suonino, sanno che non è possibile nessuna emozione senza la presenza del duende. Essi ingannano la gente e possono dare la sensazione di duende senza possederlo, come vi ingannano tutti i giorni autori, o pittori, o creatori di mode letterarie senza duende; ma basta prestare un po’ d’attenzione, e non lasciarsi prendere dall’indifferenza, per scoprire l’inganno e farli fuggire con il loro grossolano artificio.
Una volta la cantaora andalusa Pastora Pavón, “La Niña de los Peines”, cupo genio ispanico, equivalente in capacità di fantasia a Goya o a Rafael “el Gallo”, cantava in una piccola taverna di Cadice. Giocava con la sua voce d’ombra, con la sua voce di stagno fuso, con la sua voce coperta di muschio, e se la intrecciava nei capelli o la bagnava nel vinello bianco o la perdeva in siepi oscure e lontanissime. Nulla: gli ascoltatori rimanevano zitti.

C’era Ignacio Espeleta, bello come una tartaruga romana, a cui una volta domandarono: “Perché non lavori?”; e lui, con un sorriso degno di Argantonio, rispose: “Come posso lavorare, se sono di Cadice?”.
C’era Eloisa, la calda aristocratica, puttana a Siviglia, discendente diretta di Soledad Vargas, che negli anni trenta non volle sposarsi con un Rothschild, perché non la uguagliava in nobiltà. C’erano i Florida, che la gente pensa siano macellai, ma che in realtà sono sacerdoti millenari che continuano a sacrificare tori a Gerione, e, in un angolo, l’imponente allevatore don Pablo Marube, con un’aria da maschera cretese. Pastora Pavòn terminò di cantare nel silenzio. Solo, con sarcasmo, un uomo piccoletto, di quegli ometti ballerini che escono, improvvisamente, dalle bottiglie di acquavite, disse a voce molto bassa: “Viva Parigi!”, come a dire: “Qui non ci importano le doti naturali, né la tecnica, né la maestria. Qui ci interessa un’altra cosa”.
Allora “La Niña de los Peines” si alzò come una pazza, piegata in due come una prefica del Medio Evo, e tirò giù un gran bicchiere di grappa come fuoco, e si sedette a cantar senza voce, senza fiato, senza sfumature, con la gola bruciata, ma… con duende. Era riuscita ad uccidere tutte le impalcature della canzone per lasciare la strada aperta ad un duende furioso e bruciante, amico dei venti carichi di sabbia, che spingeva gli ascoltatori a strapparsi gli abiti quasi con lo stesso ritmo con cui se li stracciano i negri antillani del rito, raggrumati davanti all’immagine di Santa Barbara. “La Niña de los Peines” dovette rompere la sua voce perché sapeva che la stava ascoltando gente squisita che non voleva forme, ma midolla di forme, musica pura con il corpo scarnito per potersi sostenere nellaria. Dovette privarsi delle sue doti e sicurezze; cioè dovette allontanare la sua musa e rimanere indifesa, che il suo duende venisse e si degnasse di lottare corpo a corpo. E come cantò! La sua voce ora non giocava più, la sua voce era un fiotto di sangue degno del suo dolore e della sua sincerità, e si apriva come una mano di dieci dita per i piedi inchiodati, ma pieni di burrasca, di un Cristo di Juan de Juni.

L’arrivo del duende presuppone sempre un cambiamento radicale in tutte le forme di vecchi progetti, dà sensazioni di freschezza del tutto inedite, con una qualità di rosa creata da poco, miracolosa, che giunge a produrre un entusiasmo quasi religioso.
In tutta la musica araba, danza, canzone o elegia, l’arrivo del duende è salutato con energici “Alà, Alà!”, “Dio, Dio!”, così vicini all’ “Olé!” della corrida che forse si tratta della stessa cosa; ed in tutti i canti del sud della Spagna l’apparizione del duende è seguita da sincere grida di “Viva Dio!”; profondo, umano, tenero grido di una comunicazione con la divinità per mezzo dei cinque sensi, grazie al duende che agita la voce ed il corpo della ballerina, evasione poetica e reale da questo mondo. Naturalmente, quando si raggiunge questa evasione, tutti ne godono i benefici: l’iniziato, che vede come lo stile vince una materia povera, e chi non sa, nell’inesprimibile di una autentica emozione. Anni fa, a un concorso di ballo a Jerez de la Frontera, il primo premio se lo prese una vecchia di ottanta anni contro belle donne e ragazze con il vitino d’acqua, per il solo fatto di alzare le braccia e dare un colpo con il piede sul palco; ma nella riunione di muse ed angeli lì presenti, bellezze di forme e bellezze di sorrisi, doveva vincere e vinse quel duende moribondo che trascinava sul pavimento le sue ali di coltelli ossidati.

(da Teoria e gioco del duende, 1930, la prima di quattro conferenze che Lorca tenne a Cuba su invito della Istituzione ispano-cubana di cultura, ora in Federico García Lorca, Teoria e gioco del duende, Milano, Ubulibri, 1999)

 

ROMAEUROPA E IL FLAMENCO
di Monique Veaute

Cinque serate flamenco: canti, balli e assoli di chitarra dall’Andalusia per turbare le sonnacchiose notti di Villa Medici, appoggiata sulla sua trapunta di tetti romani.
Un programma perfettamente in linea con tutta la tradizione del nostro Festival, e in particolare con l’edizione ’92. L’attenzione allo “sguardo dell’altro” è esaltata dalla natura ibrida del flamenco, incontro degli antichi canti andalusi con l’irresistibile passionalità gitana. Incontro di nature, e non solo.
Il flamenco è anche fusione dei generi, se voci, gesti e chitarre si uniscono in una sola, potente espressione.
Tocaores, cantaores e bailaores (suonatori, cantanti e ballerini) si avvicendano sul palco attraverso il passaggio di quattro fra le più interessanti compagnie presenti sulla scena spagnola. È una piccola rassegna, un omaggio alla contaminazione. Si apre con i danzatori gitani di Carmen Cortés: un saggio della vivacità e creatività del flamenco, che non ha pari fra le danze tradizionali esistenti in Europa. Si prosegue con la freschezza irruenta di Aurora Vargas, seguita da Blanca Del Rey, che la critica ha segnalato come la ballerina più creativa della scena contemporanea. Chiudono i payos, i bianchi, e la voce piena di luci e ombre di Enrique Morente, che ha in repertorio testi di Federico García Lorca.
Romaeuropa continua dunque anche in questa occasione a seguire il filo che l’ha accompagnata dall’inizio della sua avventura, nel 1986: come l’Andalusia fu molti secoli fa raccordo di civiltà musicali, da quella bizantina a quella araba, così Roma è oggi fulcro di diverse realtà culturali.
Il flamenco ha aiutato a portare nuova linfa nella danza contemporanea spagnola. Il nostro auspicio è che dia luogo anche per noi ad una scintilla di creatività, nel segno del duende caro a García Lorca, l’estro, la passione, l’estemporaneità del popolo ispanico.

 

PROGRAMMA

COMPAGNIA DI DANZA CARMEN CORTÉS
CANTES DE IDA Y VUELTA
I parte
(Colombiana, Milonga-Vidalita, Guajira)
II parte (Soleá, Alegrias, Farruca, Rondeña-Seguirilla, Tangos-Buleria)

Coreografia Carmen Cortés
Corpo di ballo Angeles Españadero, Immaculada Ortega, Cecilia Romero, Eva Moreno, Isabel Triviño, Antonio Garcia, Cristian Pérez, Domingo Ortega, Antonio Fuentes, Julián Martin
Chitarre Mario Cortés, Vincente Cortés, Viejin “El Niño del Tupe”
Voci Indio Gitano,Tony Maya, Guadiana, con la partecipazione di Antonio Canales
Tecnico illuminazione Ignacio Gaita
Musiche e arrangiamenti Gerardo Nuñez
Disegno costumi Carmen Cortés, Tony Benitez
Realizzazione costumi Tony Benitez, Carlota
Scarpe Gallardo
Messa in scena Carmen Cortés, Ciro (per Guajira e Ballet Guajiros)
Coordinamento e contatti Loly Cortés
Accademia di Francia, 23 giugno

AURORA VARGAS
PANSEQUITO Y SU GENTE

Voci Aurora Vargas Pansequito
Chitarra “Moraito Chico”
Palmas “Bogote”
Palmas “El Electricio”
Accademia di Francia, 24 giugno

BLANCA DEL REY
PASION FLAMENCA

Siguiriya de los silencios
Danzatrice
Blanca del Rey
Cantanti, chitarristi

Ritmo en el tiempo (Tangos)
Danzatori, danzatrici, cantanti, chitarristi

Ya estas aqui! (Rameras)
Danzatore
Antonio del Castillo
Danzatori, cantanti

Tan solo una mirada (Tanguillos, Alegrias y Taranto)
Danzatrice
Blanca del Rey
Danzatore Antonio del Castillo
Tutta la compagnia

Solea al golpe
Danzatore
Antonio del Castillo
Danzatori, cantanti

Solea del manton
Danzatrice
Blanca del Rey
Cantanti, chitarristi

Bulerias
Danzatrice
Blanca del Rey
Danzatore Antonio del Castillo
Tutta la compagnia

Danzatori Gabriel Heredia, Alejandro Granados, Bruno Foroni
Danzatrici Marta Sol, Soledad Payo, Carmen Torres, Immaculada Perez
Cantanti Manuel “El Flecha”, Jesùs “El Almendro”, Sebastiàn Romàn
Chitarristi Felipe Maya, “Curro de Jerez”, Joaquìn “Carrete”
Con la participazione del coreografo Antonio del Castillo
Direzione artistica e costumi Blanca del Rey
Realizzazione costumi Costa, Keiko
Scarpe Menkes, Gallardo
Disegno luci Antonio del Castillo, Jose Luis Canales
Accademia di Francia, 25, 26 giugno

ENRIQUE MORENTE
CANCIONES DE LA ROMERIA DE YERMA

Testo Federico García Lorca
Voce Enrique Morente
Percussioni Pepe Luis “Habichuela”, “El Negri”
Chitarra “El paquete”, “Montoyta”
Accademia di Francia, 27 giugno

 

Rassegna stampa

“Ha inaugurato il festival flamenco la compagnia di Carmen Cortés […]. Interessante l’interpretazione, poiché durante alcune pause dei frenetici e nervosi passi di questa “danza di terra” appariva una diversa espressività, non solo dei corpi. Veniva fuori un’interpretazione che faceva chiaramente leggere la loro conoscenza e assimilazione di tecniche di danza moderna. […] Ha chiuso le danze l’ultima sera Blanca Del Rey, elegante incantatrice flamenco. […] Visi, gesti, espressioni violente e intense che inevitabilmente richiamano la pittura di Zurbaran e di Goya”.
(Fabiana Mendia, Quelle danze gitane dal potere misterioso, Il Messaggero, 30giugno 1992)

“L’onore della serata inaugurale è toccato alla compagnia di danza di Carmen Cortés, […] Tutto nel flamenco si fa scattante, travolgente come un fiume in piena, espressione profonda dell’anima popolare: i gesti quasi cristallizzati in un’elegante teoria del corteggiamento si accendono di simboli nell’orgia dei ritmi scanditi dal battito delle mani e dei tacchi. Un crescendo di tensione e temperatura coreografica che finisce inevitabilmente a coinvolgere tutto il pubblico, intenditori e non”.
(Lorenzo Tozzi, Flamenco & tradizione, Il Tempo, 26 giugno1992)

“Nella seconda parte esplode il flamenco più puro con il ballo particolare e unico della Cortés, moderno e gitano allo stesso tempo caratterizzato da una forza scomposta e affascinante. […] Aurora Vargas, bellissima gitana, dalla voce calda e piena di duende, inconfondibile nel panorama del canto flamenco. La sera seguente Blaca Del Rey ha offerto un flamenco elegante, che con la sua “soléa del manton” ha creato una vera e propria scuola nella storia di quest’arte. […] La voce di Enrique Morente ha chiuso questa piccola rassegna con Canciones de la romeria de Yerma, cantaro raro dove la curiosità e la conoscenza verso il mondo poetico del cante flamenco lo portano ad una creatività unica, dove la sua capacità si adatta ad interpretare i più svariati stili”.
(Marina Lanza, Inaugura “Roma Europa” una rassegna di Flamenco, Momento Sera, 3 luglio 1992)